Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il XV secolo è un periodo all’insegna della razionalizzazione e della sistematicità in ambito musicale, sia teorico che pratico, e lo sviluppo della teoria musicale ne è un’eloquente riprova. I trattatisti, infatti, sono ora per lo più anche compositori e maestri cantori, attivi presso le maggiori corti europee, fra le quali le italiane si pongono come egemoni per l’interesse nella promozione della musica. I loro scritti riflettono quindi i gusti dei mecenati, arricchendosi, più che di novità teoriche, di sezioni introduttive di dedica, nelle quali il musico fa sfoggio di cultura umanistica e gusto dell’argomentare retorico. Anche sul versante della musica speculativa, cioè della teoria matematico-musicale ereditata da Severino Boezio, si registra un interesse in buona parte focalizzato sulla pratica, nella fattispecie sulla scelta del sistema di accordatura, quello “pitagorico” opposto al “puro”, che suscita accesi scontri fra i teorici del tempo.
Si è visto che la polifonia cosiddetta arsnovistica (1320-1420 ca.) si basava sul sistema musicale elaborato, nella prima metà del Trecento, dai teorici francesi Philippe de Vitry, nell’Ars nova, e Jean de Muris, nella Notitia artis musicae e nel Libellus cantus mensurabilis, consistente soprattutto in una nuova e più duttile concezione dei rapporti mensurali (cioè delle relazioni temporali) tra le note.
Tale sistema è articolato in quattro tempi principali o mensurae (grossomodo equivalenti ai moderni tempi 2/4, 6/8, 3/4 e 9/8), da impiegare a scelta del compositore nelle sue opere. Diversamente, però, dalla notazione moderna, che prevede solo suddivisioni binarie delle note, quella medievale contempla anche divisioni ternarie (dette “perfette”, mentre le binarie sono dette “imperfette”): le quattro mensurae (“ quatre prolations”, le chiama de Vitry) risultano perciò dalla combinazione e successiva suddivisione del tempo “perfetto” (indicato con il circolo O) e del tempo imperfetto (semicircolo C).
L’espressione ars nova , come peraltro è stato già sottolineato, ben presto travalica gli angusti limiti del gergo tecnico, e finisce col riflettere la generale sensazione di fresca novità che la polifonia trecentesca, ritmicamente più variegata, dinamica e complessa, destava negli ascoltatori rispetto alla musica anteriore (l’ ars antiqua duecentesca). Sul finire del Trecento fiorisce poi uno stile musicale ancora più avanzato e ritmicamente complesso, la cosiddetta ars subtilior (caratterizzata da una tessitura ritmico-melodica più sottile ed evoluta), che viene puntualmente descritto anche in sede teorica, ad esempio nel Tractatus figurarum. Dunque, la permanenza dell’idea di “novità” che segna la polifonia trecentesca rimane anche nel secolo successivo ed è degno di nota il fatto che verso la fine del Quattrocento troveremo ancora questa medesima espressione, “ars nova”, riferita ora a uno stile musicale a sua volta rinnovato rispetto a quello dei primi decenni del secolo; dice, infatti, il teorico fiammingo Giovanni Tinctoris nel suo Proportionale musices del 1472: ““al giorno d’oggi le possibilità della nostra musica sono così straordinariamente aumentate, che un’arte nuova pare sia nata””.
Proprio nel Quattrocento, parallelamente all’impetuosa diffusione del nuovo repertorio polifonico (franco-borgognone), si intensificano lo studio, la diffusione e il commento dei trattati mensurali trecenteschi, assunti come modelli “classici” di dottrina. L’elaborazione e il raffinamento della teoria elaborata nel secolo precedente diventano, anzi, una vera e propria costante negli scriptores de musica quattrocenteschi. Si pensi che del predetto Libellus di de Muris sopravvivono ancora oggi più di 50 copie manoscritte, e che la più recente di esse rimonta a una data notevolmente “attardata” come il 1526.
La figura del trattatista musicale del tempo, generalmente parlando, è abbastanza tipica e facilmente abbozzabile: è ovviamente un musicista (musicus) – sebbene questa figura professionale ancora non esistesse autonomamente –, che ha già compiuto il proprio tirocinio di cantore (cantor) e che pertanto può insegnare i precetti dell’arte (magister cantus) e anche, all’occorrenza, comporre canti “nuovi” (compositor, contrapunctista). Si tratta, in pratica, di intellettuali ecclesiastici o laici, monaci o magistri delle artes universitarie, precettori, giureconsulti o funzionari attivi nelle corti di mezza Europa, ma soprattutto in Italia, Francia e Spagna.
La teoria musicale quattrocentesca, comunque, almeno per quanto concerne la sfera eminentemente pratica (o activa) della disciplina, non segna progressi macroscopici rispetto a quella precedente, restando tradizionalmente ancorata ai quattro cardini fondamentali della didattica: solfeggio – chiamato allora solmisazione e basato sulla tradizionale dottrina del monaco Guido d’Arezzo –, melodia modale (gli otto modi del canto piano o gregoriano), notazione e ritmo (il predetto mensuralismo), e contrappunto (regole del discanto da applicare per creare un cantus figuratus, cioè una polifonia). Semmai, è il linguaggio impiegato nei nuovi scritti ad arricchirsi di un gergo più scientifico e tecnico, debitamente nutrito di temi e spunti derivanti dal nuovo studio dei testi classici e dall’incipiente spirito umanistico. Rilevante, ad esempio, è la presenza nei trattati di Prologhi introduttivi pieni di reminiscenze classicheggianti, che sovente tradiscono pretese letterarie.
È anche in ragione di ciò che la disciplina conosce, rispetto al passato, una maggiore diffusione e penetrazione presso il pubblico dei litterati, paragonabile del resto all’incremento e alla proliferazione del repertorio musicale stesso. Nella sola Italia, ad esempio, non si contano i trattati o i semplici opuscoli teoretici prodotti a uso pubblico e privato, richiesti magari come dispense per le classi universitarie del quadrivium, o per le scholae cantorum annesse alle cattedrali, o come ausilio ai membri di cappelle musicali o a chierici in servizio presso le tante chiese.
A questi ultimi, infatti, è richiesto non solo di ricordare e saper intonare correttamente il cantus ecclesiasticus (melodie liturgiche), ma anche di saperlo abbellire all’occorrenza, improvvisando sopra dei semplici contrappunti: questa pratica, chiamata talvolta cantare super librum (riferendosi al libro liturgico con le trascrizioni delle melodie gregoriane), è tra le più diffuse nelle chiese del tempo, e richiede l’applicazione delle fondamentali “regole di discanto” che formano, appunto, l’ossatura dei tanti trattati musicali del tempo. Bisogna infatti ricordare che in questo periodo si è ben lungi dal disporre di manuali di composizione o di forma musicale, che non esistono ancora “storie” dello stile musicale, e che il primo “dizionario” dei termini musicali, e cioè il Diffinitorium musicae di Giovanni Tinctoris, appare a stampa solo verso il 1495. Perciò, i non pochi trattati dal titolo Regole di contrappunto sono, molto più modestamente e nella maggior parte dei casi, semplici e ripetitivi compendi (rigorosamente in latino, molto raramente nelle lingue volgari), che prescrivono la scelta degli intervalli consonanti e dissonanti da impiegare e il loro giusto ordinamento.
Ma altre tipologie di libro sono pure possibili: ad esempio, un ordinato ed esaustivo Liber de musica, vergato in modo calligrafico, debitamente miniato e lussuosamente rilegato, è apprezzato non tanto per la sua dottrina, ma, spesso, soprattutto come prezioso oggetto-testo da donare a qualcuno dei tanti mecenati rinascimentali affascinati dalle arti. Non dimentichiamo, infatti, che questo è il tempo in cui la musica, secondo la dottrina aristotelica (VIII libro della Politica) ribadita dalla precettistica umanistica (Pier Paolo Vergerio a Padova, Vittorino da Feltre a Mantova, Guarino Veronese a Ferrara, Marsilio Ficino a Firenze ecc.), viene annoverata tra le quattro discipline (con grammatica, ginnastica e disegno) ritenute essenziali all’educazione e alla formazione del principe. Né in effetti si potrà sottovalutare che un forte impulso dato alla musica e quindi alla teoria musicale viene impresso proprio dai governanti dei vari Stati italiani, soprattutto dopo la pace di Lodi (1454), con l’istituzione di prestigiose cappelle musicali private; si pensi, in tal senso, a Galeazzo Maria Sforza a Milano, a Ercole I d’Este a Ferrara, a Ludovico Gonzaga a Mantova, a Ferrante d’Aragona a Napoli, o a Lorenzo de’ Medici a Firenze: per tutti l’attività musicale delle cappelle è un contrassegno ostentato e un vanto ormai irrinunciabile del loro stesso potere. E si pensi anche al pubblico femminile: alla ancor più eloquente e sincera passione musicale che anima spesso svariate principesse, consorti regali e nobildonne di corte, come ad esempio la duchessa Isabella d’Este Gonzaga, la quale non manca di scrivere al suo maestro di musica Martini: ““Io desidero sempre imparare rasone de canto””.
Alla sensibilità umanistica va ricondotto pure un altro motivo caratteristico della teoria musicale quattrocentesca, e cioè l’indagine sulla dimensione speculativa. Essa trae spunto dalla rilettura, intensa e appassionata, di quelle stesse auctoritates sulle quali s’era esercitata la riflessione medievale sulla musica: Agostino, Marziano Capella, Cassiodoro, Isidoro di Siviglia e soprattutto Severino Boezio (De Institutione musica e De institutione arithmetica).
Ma a questi autori gli umanisti cominciano ad affiancare pure i teorici musicali greci (Tolomeo, Aristide Quintiliano, Briennio, Aristosseno), che proprio allora essi andavano riscoprendo e traducendo. E una tappa fondamentale, in questo senso, furono le traduzioni di tutta l’opera di Platone e di numerosi fonti neoplatoniche a cura di Marsilio Ficino. Quindi il ricorso all’autorità dei Greci (e del greco, che faticosamente si introduce nelle stampe europee) diventa la vera novità del momento.
La dottrina speculativa consiste nell’indagine degli aspetti matematico-proporzionali che presiedono alla musica (suono, altezza, intervallo, scala, proporzioni ecc.), e parte dall’assunto che i rapporti numerici che regolano i suoni – i cosiddetti rapporti pitagorici – valgono a misurare anche tutti gli altri aspetti della realtà sensibile e intelligibile – è il celebre motto pronunciato da Cassiodoro nelle Istituzioni: ““La scienza della musica è presente in tutte le azioni della nostra vita””, cui fa eco Isidoro (560 ca. - 636) nelle Etimologie: ““La musica è una disciplina o scienza che parla dei numeri, i quali si ritrovano nei suoni””. A seguito di questa estensione della matematica musicale a tutti gli ambiti della vita naturale, la musicalissima parola greca harmonía (congiunzione, ordine) viene intesa in senso molto più ampio e addirittura cosmico, nel senso cioè di ordine universale, numericamente disposto e strutturato, derivante da Dio. Questa visione matematico-musicale del mondo, che arricchisce la concezione musico-cosmologica di derivazione platonica (esemplificata nell’intramontabile idea della “musica delle sfere”) unitamente alla scolastica tripartizione della musica in categorie gerarchicamente disposte e interconnesse (mundana, humana, instrumentalis) trasmessa da Boezio, verrà ripetuta, riarticolata, talvolta accantonata o respinta da tutti i teorici successivi. Tra i quattrocentisti boeziani più ortodossi primeggia Franchino Gaffurio da Lodi, che nella Theorica musicae (1492) si diffonde in affermazioni come: ““L’anima dell’universo è unita al suo corpo mondano da proporzioni armoniche””, o ““la naturale unione dell’anima immortale con il corpo umano è realizzata con rapporti musicali””.
Alla base di questa corrente di pensiero vi è dunque l’indagine sul numero, che era già stata una costante del pensiero scolastico medievale, poiché infatti dal numero scaturiscono tutti gli altri concetti matematici correlati (quantitas, mensura, proportio ecc.), che informeranno puntualmente il gergo della teoria musicale medievale; dice infatti Jean de Muris nella Notitia artis musicae (1321): ““poiché la musica consta di altezze governate da numeri e viceversa, è compito dei musicisti indagare entrambi, numeri e altezze””.
Non sorprende che, a maggior ragione, le compilazioni speculative quattrocentesche, col loro ipertrofico corredo di tavole numeriche, simboli frazionari, diagrammi e grafici proporzionali, divisioni del monocordo (lo strumento medievale composto di una sola corda vibrante con cui misurare l’altezza variabile dei suoni), e con la loro pervasiva terminologia grecizzante, si assomiglino vicendevolmente e tradiscano una fisionomia più da libro algebrico-cabalistico che da trattato di musica. Tale preponderante orientamento numerologico (senz’altro monotono per il lettore moderno) informerà ancora, infatti, non pochi “classici” della trattatistica quattro-cinquecentesca: si va dalle opere di Ugolino da Orvieto, canonico di Ferrara (Declaratio musicae disciplinae, 1430 ca.), di Giorgio Anselmi da Parma (De musica, 1434), del carmelitano inglese John Hothby, lungamente attivo presso la cattedrale di Lucca (Calliopea legale), e del monaco certosino Johannes de Namur, detto Gallicus o “da Mantova”, che in questa città fu allievo di Vittorino da Feltre (1378 ca.-1446; De ritu canendi vetustissimo et novo), fino ai due trattati pubblicati a stampa a Bologna, e in polemica tra loro, dal maestro Bartolomeo Ramos de Pareja (Musica practica, 1482) e da Niccolò Burzio da Parma (Musices Opusculum, 1487); quindi dalla celebre trilogia a stampa di Gaffurio (Theoricum opus musice discipline, 1480, Theorica musicae, 1492, e De harmonia musicorum instrumentorum opus, 1500), agli scritti polemici del suo acerrimo rivale bolognese Giovanni Spataro, maestro di cappella in San Petronio (Honesta defensio, 1491, Errori di Franchino Gafurio, e Tractato di musica, 1531); e dalla summa di Pietro Aaron (Libri tres de institutione harmonica, 1516), fino al “monumento” rinascimentale di Gioseffo Zarlino (Istitutioni harmoniche, 1558).
Non si creda, però, che le tesi e le posizioni speculative tanto accanitamente discusse in questi scritti non avessero alcuna rilevanza musicale pratica. Al contrario, questioni come la divisione matematica dell’ottava o dell’intervallo di tono, la razionalizzazione degli intervalli consonanti, o l’esplicitazione delle alterazioni semitonali (bemolli e diesis, che andavano sotto l’antico e ambiguo nome di musica ficta), sfociano sovente in aspre diatribe tra teorici proprio perché implicano l’adesione, o meno, a più vasti sistemi sonori di riferimento (ad esempio, i cosiddetti “sistemi di accordatura”) in base ai quali la musica, in un modo o nell’altro, prendeva corpo. Fra i musici speculativi, i tradizionalisti boeziani Gallicus, Hothby, Burzio e Gaffurio si scontrano a turno con i modernisti maestri bolognesi Ramos e Spataro, perché i primi aderiscono sostanzialmente al sistema dell’accordatura “pitagorica”, matematicamente fondato, mentre i secondi propugnano la validità del sistema dell’accordatura “pura”, basato sulle risultanze uditive (da cui sarebbe derivato, con molti aggiustamenti, il sistema “temperato” moderno, con l’ottava divisa in 12 semitoni uguali). In sostanza, e semplificando al massimo, mentre nell’accordatura “pitagorica”, che sfruttava il principio della divisione matematica della corda vibrante, il tono era suddiviso in due semitoni diseguali e i soli intervalli ricavati da rapporti “puri” erano l’ottava (rapporto 2/1), la quinta (3/2) e la quarta (4/3), nel secondo sistema, invece, anche gli intervalli di terza e sesta (maggiori e minori) vengono derivati da rapporti puri o semplici (terza maggiore = 5/4, terza minore = 6/5, sesta maggiore = 5/3, sesta minore = 8/5), e perciò essi guadagnano maggiore consistenza in quanto consonanze, rispetto agli intervalli omologhi eseguiti nell’accordatura pitagorica. Il maggiore grado di consonanza (o eufonia) della terza “pura” risponderà, nel pieno Cinquecento, al nuovo statuto conseguito dalla triade (sovrapposizione di due terze) come accordo verticale, su cui fonda a sua volta tutta l’armonia moderna.
Molti di questi aspetti speculativi catturano l’interesse degli umanisti per la musica, secondo i quali infatti essa andava indagata – platonicamente – non al mero fine dell’attività pratica o esecutiva, ma piuttosto come oggetto di contemplazione, e come strumento dell’azione etica sui moti dell’anima.
Theorica Musicae
Socrate e Platone ed anche i Pitagorici, attribuendo alla musica una funzione morale, prescrissero che tutti i giovani venissero istruiti nella musica non per eccitarne i desideri […], ma per moderare i moti dell’animo ragionevolmente.
Un autentico promotore quattrocentesco dell’estetica musicale platonica è, naturalmente, il filosofo Marsilio Ficino, che qui va ricordato non solo come autore di un’importante digressione musicale nel Compendium in Timaeum, e di un’epistola De rationibus musicae (1484), ma anche perché godette, all’interno della Camerata laurenziana fiorentina, di una notevole fama come musico e poeta, e precisamente come suonatore di lira da braccio, uno strumento rappresentato nell’iconografia del tempo come una sorta di antica viola. È anzi probabile che attorno a Ficino si coagulasse quel gusto per il canto accompagnato con la lira che dalla Firenze medicea si diffonde in molte altre corti umanistiche (Roma, Napoli, Ferrara, Mantova, Milano, ma anche Buda in Ungheria).
Nel pieno revival umanistico della poesia classicheggiante, questa pratica pseudo-antica di improvvisare versi latini accompagnandosi con lo strumento trova la sua giustificazione estetica nell’imitazione del mitico Orfeo con la cetra. Ma fatalmente, di tutto questo repertorio improvvisato, nel quale in questo periodo pure eccellono degli ammirati citharoedi di professione – come il celebre Pietrobono dal Chitarrino ferrarese, o Lippo Brandolini, o ancora il noto poeta Serafino Aquilano –, non è sopravvissuta una sola nota scritta.
Non tutti i teorici quattrocenteschi aderiscono alle posizioni neoplatoniche, anzi, svariati protagonisti sposano le opposte posizioni neo-aristoteliche, incentrate sull’elaborazione razionale della percezione sensibile. Uno di questi è proprio Giovanni Tinctoris, il quale, da buon “oltremontano”, spende buona parte della sua carriera in Italia, presso la corte aragonese di Napoli, dove ordina e pubblica i trattati per i quali oggi è ricordato.
Anche Tinctoris, così come gli altri teorici predetti, non è sempre originale in tutte le materie da lui trattate, ma originale è il suo intento di dare vita a un vero e proprio progetto didattico che copra tutti gli aspetti teorici della musica, secondo un ordine crescente di complessità: solmisazione, modalità, notazione, proporzioni, contrappunto. Il discente che avesse seguito questo curriculum studiorum per intero sarebbe divenuto, infine, un esperto cantore e forse anche un musicus; ed è degno di nota che la più celebre delle sue allieve sia la principessa Beatrice d’Aragona, futura sposa del re d’Ungheria Mattia Corvino, alla quale infatti il musicista dedica ben tre trattati.
Tra i suoi trattati più importanti vanno citati: il Liber de natura et proprietate tonorum, il Proportionale musices e il Liber de arte contrapuncti. In essi colpisce, tra l’altro, l’impiego del prezioso latino umanistico nei prologhi, e la radicalità di certe affermazioni, come ad esempio la secca smentita dell’esistenza della “musica delle sfere”.
Johannes Tinctoris
Assenza di suono nel cielo
Liber de arte contrapuncti
non posso passare in silenzio i tanti filosofi […] secondo i quali la sfera celeste ruota in modulazione armonica […]. Ma io non credo a nessuno di essi. Piuttosto, insieme ai nostri più moderni filosofi, credo fermamente ad Aristotele e ai suoi interpreti, i quali mostrano chiaramente che in cielo non c’è suono reale né potenziale.
Ma il vero motivo d’interesse sta nel fatto che Tinctoris dimostra di conoscere a fondo non solo la tradizione teorica, ma anche le novità più intriganti del linguaggio polifonico del tempo, rivelandosi un prezioso anello di congiunzione tra teoria e prassi musicale. Particolarmente importante è la sua esposizione del contrappunto, dove si sostiene che la composizione polifonica nasce per aggiunta successiva di voci, razionalmente calibrata, a una fondamentale, detta tenor.
Johannes Tinctoris
Sul contrappunto
Liber de arte contrapuncti
Il contrappunto è un risuonare insieme moderato e razionale, ottenuto ponendo una voce contro l’altra, e viene chiamato in questo modo da “contra” e “punctus”. Perciò ogni contrappunto procede da una combinazione delle voci. E questa può suonare alle orecchie sia gradevole, e questa è la consonanza, sia aspra, e allora si chiama dissonanza.
È dunque evidente che la scrittura a due voci, alla quale Tinctoris dedica decine e decine di pagine, rimane a lungo l’unica pratica compositiva fondamentalmente insegnata fino al Rinascimento. E tuttavia l’autore non dimentica che il fine di una composizione deve essere comunque quello di creare un’armonia gradevole e suadente (anche detta concentus o sinfonia), armonia che andrà ottenuta a ogni momento con la sapiente alternanza di consonanze e brevissime dissonanze, e con tutta la varietas di mezzi tecnici che la musica del tempo poteva impiegare.
Quanto a Gaffurio, dopo l’apprendistato con un maestro fiammingo nel Nord Italia, e un breve periodo trascorso a Napoli proprio con Tinctoris, si stabilisce a Milano, dove viene chiamato dal duca Ludovico Sforza nel 1484 a dirigere la cappella musicale nel duomo, incarico che egli mantiene per tutta la vita, e al quale aggiunge quello di “lettore di musica” al Gymnasium istituito dallo Sforza a Pavia. Nello stesso periodo la corte milanese è frequentata da personaggi del calibro di Leonardo da Vinci, Donato Bramante, e del matematico Luca Pacioli, tutti artisti coi quali Gaffurio entra in contatto.
Da tale invidiabile posizione egli rafforza il proprio prestigio accademico, compone gran parte della sua musica e pubblica le redazioni definitive dei suoi grandi trattati di speculazione, la Theorica musicae e il De harmonia musicorum instrumentorum opus, nonché la sua Practica musicae in quattro volumi (1496). Con gesti paragonabili alla dedica di un poema o di un canzoniere poetico, o magari di un ritratto pittorico o di un busto marmoreo, Gaffurio dedica al suo protettore, il Moro, sia la Theorica che la Practica, nonché svariate composizioni polifoniche: opere, tutte, profondamente intrise di quella ricchissima cultura lombarda che anche in musica trova un perfetto dosaggio tra la lingua europea (nella fattispecie, la polifonia oltremontana) e la tradizione locale (il rito liturgico ambrosiano).
Oltre a ciò, la personalità artistica di Gaffurio, così perfettamente divisa tra speculazione teorica, ricerca umanistica di testi e attività pratica (è anche infaticabile copista di polifonia per i suoi cantori del duomo), dimostra meglio di ogni altra cosa che l’umanesimo musicale del Quattrocento è un fenomeno creativamente molto ricco, sfaccettato e complesso, e che il preteso rigetto della polifonia non è mai stato, invero, una sua cifra caratteristica.