Ficino, Marsilio
Nacque a Figline Valdarno il 19 ottobre 1433, da Alessandra di Nannoccio da Montevarchi e da Dietifeci d’Agnolo di Giusto Ficini, medico. Nel 1451 era già a Firenze, come ‘ripetitore’ di logica in casa di Piero de’ Pazzi. Dopo avere seguito i tradizionali studi universitari di filosofia e medicina, si volse allo studio della tradizione platonica latina. Questa fase coincise con un’infatuazione epicurea e lucreziana, probabilmente fondata sulle analogie ‘atomistiche’ tra il Timeo platonico e la dottrina epicurea. Compose allora le Institutiones ad platonicam disciplinam, che nel 1456 presentò a Cosimo il Vecchio e a Cristoforo Landino, ricevendone il consiglio di aspettare a divulgarle fino a che non fosse stato in grado di attingere direttamente alle fonti greche. Agli anni 1457-1458 risalgono le prime opere di F. di un certo spessore: l’epistola De divino furore e i trattatelli De voluptate e Di Dio et anima.
Nel proemio alla traduzione e al commento delle Enneadi di Plotino (1490), F. ricondusse agli incontri tra il dotto bizantino Giorgio Gemisto Pletone e Cosimo – avvenuti nel 1439, durante il Concilio di Firenze – la decisione di quest’ultimo di rifondare a Firenze l’Accademia platonica non appena si fosse presentata l’occasione propizia che egli vide materializzarsi nella persona del giovane Ficino. Ma, al di là di questo aneddoto, la composizione delle Institutiones probabilmente rientra nella volontà di Cosimo – della quale non si può dubitare – di recuperare all’Occidente la tradizione platonica greca. Effettivamente Cosimo protesse e accolse F., procurandogli manoscritti greci di Platone, Plotino e altri autori della tradizione neoplatonica; nel 1462 donò a lui e alla madre una casa a Firenze e nel 1463 una seconda abitazione, vicino alla villa medicea di Careggi. Questa seconda donazione avvenne in coincidenza con il completamento della traduzione dal greco del Corpus Hermeticum (apr. 1463), fortemente voluta dallo stesso Cosimo. E a Cosimo F. poté presentare, prima che questi morisse nel 1464, la versione di dieci dialoghi platonici (con i relativi argumenta), dell’Epitome di Alcinoo, delle Definitiones da lui attribuite a Speusippo, degli Aurea verba e dei Symbola pseudopitagorici; e al figlio di Cosimo, Piero (che morì nel 1469), la traduzione del De morte attribuito a Senocrate.
Del 1469 è il Commentarium in Convivium Platonis de amore, che ebbe una notevole fortuna e che fu dallo stesso F. subito volgarizzato con il titolo El libro dell’amore. I primi anni Settanta del Quattrocento – che videro l’ordinazione a sacerdote di F. (1473) e la pubblicazione del De Christiana religione anch’esso subito volgarizzato – furono quelli del discepolato platonico di Lorenzo il Magnifico, salutato da F. come l’incarnazione del reggitore-filosofo auspicato da Platone. Lorenzo, tuttavia, già nel 1476 si allontanò dal suo maestro F., il quale si avvicinò invece a Francesco Salviati, a Raffaele Riario e ad altri personaggi coinvolti nella cosiddetta congiura dei Pazzi (→). L’ombra di questo tragico evento incrinò il rapporto tra F. e Lorenzo. Nel 1482 F. pubblicò la sua opera più celebre, Theologia platonica de animorum immortalitate, in diciotto libri, dedicata comunque a Lorenzo (F. dichiarò di aver lavorato a questa opera dal 1464). Nel 1484 pubblicò l’edizione del Platone latino, comprendente la traduzione di tutti i dialoghi, preceduti ciascuno da un argumentum, e il Commentarium in Convivium. In quello stesso anno, spinto a suo dire da Giovanni Pico della Mirandola, allora a Firenze, F. si dedicò alla traduzione e al commento delle Enneadi di Plotino che, ultimate nel 1490, videro la luce a stampa due anni dopo. Nel 1489 erano stati pubblicati i tre libri De vita, l’ultimo dei quali, De vita caelitus comparanda, attirerà su F. l’attenzione della Chiesa per le sue non nascoste implicazioni magiche e astrologiche. Furono, questi, anche gli anni di un rinnovato sodalizio culturale con Lorenzo e con Pico, tornato a Firenze (grazie all’intervento di Lorenzo) all’indomani della sua carcerazione parigina. Dopo la morte di Lorenzo nel 1492 e quella di Pico nel 1494, F. pubblicò ancora opere di notevole spessore, fra cui, nel 1495, l’epistolario in dodici libri, che costituisce la migliore testimonianza della vastissima diffusione del platonismo ficiniano in Italia e in Europa. Nel 1497, F. commentò in duomo le Epistulae di san Paolo. Erano gli anni del dominio di Girolamo Savonarola su Firenze, che F. visse con stati d’animo alterni: dapprima fu tra i sostenitori del frate, poi se ne allontanò, al punto da scrivere, dopo il supplizio del frate (1498), l’Apologia pro multis Florentinis ab Antichristo Hieronymo Ferrariense hypocritarum summo deceptis ad Collegium Cardinalium. Morì a Firenze il 1° ottobre 1499.
Nelle Istorie fiorentine, illustrando le gesta e i meriti di Cosimo il Vecchio (VII vi), M. si sofferma anche su F., «secondo padre della platonica filosofia». Tra i letterati protetti da Cosimo, M. nomina Giovanni Argiropulo, che tenne a Firenze la cattedra di greco leggendo le opere di Aristotele, e sottolinea l’amore che Cosimo nutrì verso F., ricordando il dono della casa a Careggi, che avrebbe permesso ai due di frequentarsi con più comodo e al giovane umanista di studiare più agevolmente. Fonte di M. per queste notizie può essere la biografia ficiniana scritta da Giovanni Corsi, frequentatore come M. degli Orti Oricellari; oppure, più semplicemente, la tradizione orale, grazie a frequentatori degli Orti come l’allievo prediletto di F., Francesco Cattani da Diacceto, o, prima ancora, grazie a funzionari di cancelleria legati a F. come Luca Fabiani, suo copista e segretario, e Biagio Buonaccorsi, che aveva sposato una sua nipote.
Al di là di quest’unico accenno esplicito, la diffusione del platonismo ficiniano nella Firenze in cui M. nacque e si formò rende difficile escludere che egli ne abbia avuto notizia e conoscenza. Se prendiamo un tema assai caro a M., quello della fortuna, viene fatto di rilevare la vicinanza tra alcuni passi dei suoi scritti e la celebre lettera di F. a Giovanni Rucellai (che sarà qui di seguito citata da Giovanni Rucellai ed il suo Zibaldone, 1° vol., Il Zibaldone quaresimale, a cura di A. Perosa, 1960, pp. 114-16). In Principe xxv 1, laddove si legge che la fortuna e Dio governano le cose del mondo in modo tale che «li uomini con la prudenza loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno», non si può non pensare all’insistenza di F., nella lettera citata, sulla prudenza umana; e nello stesso paragrafo del Principe, la parte in cui si dice che «per questo [molti] potrebbono iudicare ch’e’ non fussi da insudare molto nelle cose ma lasciarsi governare alla sorte» può richiamare un altro passo della lettera di F.: «Meglio è ritrarsi et fuggire di tal guerra, della quale pochissimi ànno victoria et quegli pochi con intollerabile faticha et extremo sudore» (Giovanni Rucellai, cit., p. 116; cfr. anche una lettera di F. a Giovanni Cavalcanti, De constantia adversus fortunam comparanda, in M. Ficino, Lettere, 1° vol., Epistolarum familiarium liber I, a cura di S. Gentile, 1990, pp. 97-98); e anche l’osservazione di F. sul fatto «che a’ futuri casi non pensano gli stolti, et se pensano non provegono a’ ripari, o pure se si sforzono di porre rimedii o nulla o pocho giovano, sì che in questa considerazione l’animo pare che mi dica la fortuna essere sanza riparo» (Giovanni Rucellai, cit., p. 114) fa pensare a quanto M. dice nel Principe su come i saggi dovrebbero «fare provedimento e con ripari e con argini» allo scopo di imbrigliare la fortuna (xxv 6-7).
Ci si deve poi chiedere, più in generale, se M. abbia potuto ignorare un aspetto dell’opera di F. che nella Firenze del suo tempo non dovette passare inosservato, vale a dire quello che potremmo definire il suo pensiero politico. In Principe xv 4, quando M. prende le distanze dai «molti» che «si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere», si può cogliere un riferimento al Platone tradotto da F., e più specificamente alla Repubblica. Ma vi sono altre opere del filosofo greco che avrebbero potuto fornire a M. spunti su cui riflettere, vale a dire il Politico e soprattutto le Leggi, tutti dialoghi tradotti da F. e da lui stesso illustrati con argumenta. Proprio F., nell’argumentum al I libro delle Leggi, sottolinea che in quest’opera Platone avrebbe espresso il proprio pensiero, a differenza di quanto accade nella Repubblica, in cui egli avrebbe piuttosto riportato le opinioni di Socrate e di Pitagora; di più: a differenza del carattere immaginifico della «divina» Repubblica, le Leggi avrebbero avuto un carattere più terreno, più vicino alla realtà delle cose (M. Ficino, Opera, et quae hactenus extitere, et quae in lucem nunc primum prodiere omnia […], 2° vol., 1576, p. 1488; Gentile 1993, pp. 30-31, 39-40 nota 24). Ma soprattutto, gli argumenta ai singoli libri delle Leggi, dedicati con la traduzione a Lorenzo il Magnifico, presentano continui richiami all’illustre destinatario che viene prefigurato come il tiranno che avrebbe governato la civitas istituita secondo le leggi platoniche. Non può sfuggire come il testo ficiniano faccia parte del tentativo, nelle intenzioni dell’autore per nulla utopistico, di realizzare a Firenze, con Lorenzo, quello che Platone aveva tentato di attuare a Siracusa, non riuscendovi, con Dionigi. In definitiva, gli argumenta alle Leggi costituiscono l’unico precedente fiorentino del Principe, presentando un insieme di norme e consigli per instradare correttamente un ‘principe’ al governo; un insieme rivolto, peraltro, a un quasi omonimo del futuro destinatario di quest’opera, Lorenzo di Piero de’ Medici.
Detto questo, alla domanda se si possono rilevare influenze dirette tra gli argumenta di F. e l’opera di M., oltre quelle che eventualmente potremmo definire negative, o ‘per contrasto’, possiamo qui solo tentare di offrire qualche spunto di riflessione. Si è accennato al motivo della fortuna: secondo F., il progetto di Platone con il tiranno di Siracusa fallì perché gli mancò del tutto l’occasio oportuna, il favor fortune (Argumentum in librum IV de legibus, in Opera, cit., p. 1497; Gentile 1993, pp. 32, 42 nota 30); quella stessa situazione favorevole («la occasione») che permise invece alle virtù di Mosè, Ciro e Teseo di attuarsi (Principe vi 7-14, xxvi 1-3). Secondo F., per poter realizzare il suo piano, il legislatore ha bisogno di tre elementi: Dio, la fortuna e l’arte (Argumentum in librum IV de legibus, in Opera, cit., p. 1496; Gentile 1993, p. 42 nota 29: Ad universum vero legiferi institutum perficiendum tria in primis conducere arbitratur: Deum videlicet fortunamque et artem, que tria humana omnia gubernare dicuntur, «Tre componenti si ritengono necessarie perché si attui il disegno del legislatore: Dio, la fortuna e l’arte, le quali si dice governino tutte le cose umane»): similmente in Principe xxv 1:
E’ non mi è incognito come molti hanno avuto et hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno;
analogamente, la ben nota conclusione machiavelliana (Principe xxv 4) non è poi così lontana da quella ficiniana: Neque diffidas artem quandoque vincere posse fortunam: ut enim fortuna, sic et ars procedit ex Deo («Confida che l’arte possa talora sconfiggere la fortuna: infatti come la fortuna, così anche l’arte deriva da Dio»).
Riguardo alla forma ideale di governo, secondo F. il legislatore platonico unirà al principe un senato di ottimati, che a sua volta sarà unito a un Consiglio popolare (Argumentum in librum III de legibus, in Opera, cit., p. 1495; Gentile 1993, p. 41 nota 28: Sed omnes quidem subiiciet legibus, reges autem cum senatu coniunget, senatum cum consilio populari, «Ma sottometterà tutti alle leggi, unirà inoltre i re con un senato e il senato con un consiglio popolare»). Non siamo lontani da quel governo misto, di spartana memoria (e la legislazione di Licurgo non fu ininfluente né su Platone né sullo stesso F.) che M. loda, pur dando poi la palma alla «repubblica perfetta», quella romana (Discorsi I ii-iii).
Anche sul tema della religione, M. avrebbe potuto trovare in F. spunti interessanti. Per F., a fondamento delle leggi sta Dio, che le trasmette agli uomini; se questi hanno bisogno delle leggi per convivere, a loro volta le leggi hanno bisogno dell’autorità divina per essere accettate, così come chi governa non può fare a meno dell’aiuto della Provvidenza; la decadenza e il dispregio della religione da parte del principe provocano la rovina dello Stato (Argumentum in librum I de legibus, in Opera, cit., p. 1489; Gentile 1993, p. 40 nota 27; Argumentum in librum IV de legibus, in Opera, cit., p. 1499; Gentile 1993, pp. 3233). Si leggano, in parallelo, Discorsi I xi e xii. Anche la convinzione che i legislatori più celebri del passato attribuirono le loro leggi a un dio (Discorsi I xi) è presente in F., in particolare in una lettera nella quale ritroviamo, assieme ad altri, Numa e la ninfa Egeria (Lex et iustitia, diretta a Ottone Niccolini e ad altri, in Lettere, cit., pp. 17-18; per Numa e la ninfa: Discorsi I xi).
Se in quest’ultimo caso è probabile il ricorso a una fonte comune (in particolare, tra gli antichi, Plutarco e Diodoro Siculo), la possibilità che M. abbia tenuto presente l’opera di F. meriterebbe di essere vagliata e argomentata in maniera più approfondita, vista anche la centralità, nell’opera machiavelliana, dei temi qui solo accennati.
Bibliografia: Opera, et quae hactenus extitere, et quae in lucem nunc primum prodiere omnia [...], 2 voll., Basileae 1576, rist. anast., con lettera di P.O. Kristeller e premessa di M. Sancipriano, Torino 1959 (rist. 1962, 1979, 1983), altra rist. Paris 2000.
Per la biografia di F. si veda: C. Vasoli, Ficino Marsilio (Marsilius Feghinensis), in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 47° vol., Roma 1997, ad vocem.
Per gli studi critici si vedano: C. Vasoli, Riflessioni sugli umanisti e il principe: il modello platonico dell’«ottimo governante», in Per Federico Chabod (1901-1960). Atti del Seminario internazionale, a cura di S. Bertelli, 1° vol., Lo Stato e il potere nel Rinascimento, Perugia 1982, pp. 147-68, in partic. pp. 158-63; S. Gentile, Ficino e il platonismo di Lorenzo, in Lorenzo de’ Medici. New perspectives, ed. B. Toscani, New York 1993, pp. 23-48.