Marsilio Ficino
«Poesia, bellezza, amore sono i termini in cui si rivolge tutta la teologia ficiniana, se ben si guardi oltre la tenue superficie di una fragile architettura concettuale». Questo giudizio di Eugenio Garin coglie i motivi centrali di una filosofia innervata sulla conciliazione, in cui amore e desiderio del bello scandiscono l’ascesa dell’anima; ma va precisato che proprio in questo circolo di riflessione si radica il confronto con i temi della sapienza civile. Il lento, accorto affinamento con cui il sapiente si assimila a Dio fonda infatti una renovatio culturale e politica che si definisce però, drammaticamente, nel rapporto tra individuo, provvidenza e ‘vicissitudine’.
Marsilio Ficino, figlio del medico Dietifeci, nacque a Figline Valdarno il 19 ottobre 1433. La sua formazione si compì tra Firenze e Pisa; suo maestro agli studi filosofici fu il celebre medico Niccolò Tignosi da Foligno. Rientrato a Firenze dopo aver brevemente frequentato l’Università di Bologna, dal 1458 ebbe modo di rafforzare le relazioni con Cosimo de’ Medici (Cosimo il Vecchio). Dal 1462, il dono di una casa a Careggi avviò sotto il segno del patronato mediceo un progetto culturale destinato a offrire agli intellettuali del tempo le principali testimonianze del sapere che, secondo Ficino, era stato in origine intuito e trasmesso nella poesia dei prisci theologi e che in seguito, affinato e modulato da Platone in forme razionali, si era posto a fondamento delle molteplici scuole neoplatoniche.
Tra il 1462 e il 1468 Ficino si impegnò a tradurre Platone: interruppe però il lavoro per redigere, su richiesta dello stesso Cosimo, la versione latina del codice che il monaco Leonardo da Pistoia aveva riportato dalla Macedonia, e nel quale erano raccolti scritti di età alessandrina, all’epoca attribuiti all’antico sapiente egizio Ermete Trismegisto. Con la silloge di opere ermetiche, completata nel 1463, Ficino proseguì l’articolato confronto con il pensiero antico, scandito non solo da traduzioni, ma anche dalla stesura di opere originalmente connesse alle dottrine studiate: è il caso del De voluptate, nel quale risaltavano gli interessi del giovane Ficino per Lucrezio e l’epicureismo, ma anche del Commentarium in Convivium. In questo testo, composto nel 1469, rivisto nel 1475, e del quale Ficino redasse anche una versione in volgare, il recupero di Platone si iscrive in una filosofia della storia segnata dalla potente cesura fra l’antichità ispirata, cui la verità si era comunicata nel fuoco della poesia, e le epoche successive, segnate invece dal lavoro solerte con cui i filosofi si erano impegnati a cogliere ed esprimere razionalmente la rivelazione delle origini. Sulla medesima linea di riflessione insisteva ancora il De christiana religione – pubblicato nel 1474 in volgare, e successivamente, nel 1476, in latino –, incardinando la riscoperta del pensiero platonico nel ciclo che eternamente conduce dalle età ferree alle età auree, e individuando nella riforma filosofica il fondamento della renovatio religiosa. A temi simili, declinati in un contesto teorico ben più ampio ed elaborato, offrì ulteriore risalto l’opera principale di Ficino, la Theologia platonica, edita nel 1482.
Dopo Platone, Ficino affrontò i suoi epigoni, ancora una volta alternando traduzioni, commenti e stesura di opere originali: tra il 1488 e il 1489 si occupò dei testi di Giamblico, Proclo, Michele Psello, Senocrate, Sinesio di Cirene, Speusippo, Ermìa di Alessandria e pubblicò inoltre una silloge di testi attribuiti a Pitagora e Orfeo, traendo stimoli importanti dallo studio di questi autori. Nel 1489 i De vita libri tres presentarono infatti il modello di un’operatività magica fondata sulla dottrina di un ordine universale scandito dagli astri, il cui influsso si comunica sulla Terra donando ai corpi natura e qualità definite, e disegnando così una trama di influenze in cui può proficuamente inserirsi l’opera meditata del filosofo. Nel 1492 la renovatio culturale perseguita da Ficino trovò compimento con la traduzione delle Enneadi di Plotino; l’anno successivo, nel 1493, la versione latina dei testi di Porfirio e Atenagora e la pubblicazione del De sole et lumine segnarono l’estrema maturità di un autore che aveva certamente voluto proporsi come destinato «a rinnovare le cose antiche», ma che era stato tutt’altro che isolato: alla sua morte, a Careggi, il 1° ottobre 1499, la silloge degli Epistularum libri, stampata nel 1495 a Venezia, rivelava in Ficino il punto di riferimento imprescindibile per gli intellettuali italiani ed europei interessati agli studi platonici, e testimoniava un’attività vigilata e intensa di divulgazione in cui le epistole si erano alternate ad apologhi, traduzioni parziali, parafrasi e veri e propri saggi, alcuni dei quali – è appunto il caso del De raptu Pauli e del De sole et lumine – non a caso circolarono anche in forma autonoma.
Negli scritti di Ficino i richiami alla vita civile si dispongono apparentemente su due estremi senza mediazioni: da un lato, l’esaltazione platonica del filosofo-re e le pagine luminose in cui il proliferare di arti e invenzioni segnala, nelle diverse civiltà, l’eccellenza dell’unica natura umana; dall’altro, i toni cupi di una riflessione che nel mutare incessante di società e Stati coglie il limite destinato a rovesciare la libertà dell’anima in una schiavitù a cui solo il sapiente può sottrarsi. Ugualmente innervato su un modello di perfezione che sovrasta l’orizzonte incerto della storia, anche l’interesse che Ficino manifesta per le dottrine politiche di Platone sembra inscindibile dall’ammirazione per una politica in cui azioni pubbliche e private cospirano a riafferrare un sapere immutabile: difficile, dunque, sfuggire all’impressione che i temi civili siano volutamente ai margini di un discorso in cui il mondo contingente della politica non è se non lo sfondo effimero di una vicenda universale. Ma i riferimenti alla «civilis sapientia» contenuti nelle epitomi di Platone scandiscono una riflessione che – dall’Apologia di Socrate al Teagete, dal Filebo al Protagora, alla Repubblica – incardina l’arte politica nel ritmo profondo della comunicazione tra livelli dissimili dell’essere, individuando il vincolo strettissimo che congiunge provvidenza, vita degli Stati e azione del sapiente.
In un contesto tanto mutato, Ficino riversa così temi centrali della riflessione platonica nel fuoco di un discorso che muove dalle suggestive vicende di Prometeo e di Epimeteo, curvando però a obiettivi diversi il materiale evocato da Platone. Non si tratta soltanto di marcare lo scarto tra l’esistenza dei bruti, chiusi nel circolo ristretto della propria complessione corporea, e il consorzio umano, vivificato dalle arti: nella lettura di Ficino, i miti dei titani illuminano soprattutto la natura ancipite dell’uomo, posto al confine tra mondi diversi e capace di comunicare non solo con l’ordine dei demoni inferiori – rappresentati da Epimeteo – ma anche con Prometeo, e con le potenze che si situano ai gradi più alti della scala dell’essere. Proprio per questo, rileva Ficino, all’uomo non sono stati concessi soltanto gli strumenti naturali del corpo, e la conoscenza naturale delle arti, ma anche il «fuoco» divino della dialettica che, insegnando a discernere il vero dal falso, proietta la vicenda dell’uomo nell’orizzonte dell’eterno. Ma c’è un altro tema che Ficino sottolinea con forza, definendo le linee di un ragionamento che si riverbera continuamente da commento a commento: quando precisa che l’astuto titano «non ebbe potere di elargire la virtù civile», necessaria alla salvezza degli uomini, «poiché una simile virtù è prossima a Giove, dove a Prometeo non era dato di ascendere» (Opera quae hactenus extitere [1576], rist. anast. a cura di M. Sancipriano, 2° vol., 1962, p. 1298), la sapienza del mito non intende soltanto celebrare l’architettura sapiente che l’arte politica edifica accordando inclinazioni, caratteri e temperamenti vari e mutevoli. Secondo Ficino, il mito di Prometeo sancisce piuttosto la radicale frattura tra ‘arti umane’ e ‘sapienza civile’, facendo discendere l’efficacia del politico dal fuoco di una intuizione che non ha alcun rapporto con le potenze naturali dell’ingegno:
Attraverso Mercurio dunque – si legge nel commento al Protagora – vale a dire attraverso un angelo interprete della volontà divina, Giove ha inciso nelle nostre menti le leggi della scienza civile, i decreti della sua volontà (Opera quae hactenus extitere, cit., p. 1298).
La perizia nel governare discende così da una illuminazione, promana dai gradi più alti dell’essere, ed è indisgiungibile dall’esperienza della verità. Ficino lo ribadisce nell’epitome al Teagete, congiungendo in modo esplicito la «civilis sapientia» evocata dal dialogo al vaticinio e al «furor» di cui parla il Menone (p. 1132). E lo conferma ulteriormente nella parafrasi del Protagora, ripetendo che solo «per dono divino la provvidenza di Dio infonde negli animi temperati dei cittadini la conoscenza del bene in sé, e le leggi che indirizzano a quello» (p. 1132).
Lessico della politica e vocabolario della profezia coincidono, dunque, e i temi di Platone si tendono nel vivo di un discorso che accomuna ragione classica e rivelazione e segnala, al contempo, la sintonia profonda sottesa tanto alle parole disincantate con cui Socrate esortava a chiedere ai «demoni» quella capacità politica che né l’esperienza né le astrazioni filosofiche possono conferire, quanto alle riflessioni attribuite a Dionigi l’Areopagita, che in termini non dissimili definiva la gerarchia angelica dei principati, «ministri che per comando divino illuminano le menti dei buoni cittadini e dei principi legittimi a ben governare» (p. 1132). Si tratta, nell’uno e nell’altro caso, di confutare la pretesa insipiente di chi fonda la politica sull’ingegno umano, considerando che si possa «con le proprie forze governare rettamente e felicemente lo Stato, senza la grazia divina» (p. 1299). Una strategia costante, non soltanto di fronte a dialoghi dall’ispirazione marcatamente politica, ma sviluppata in forma carsica anche dove l’ispirazione civile sembra dissolversi in un resoconto erudito. È il caso dell’Apologia di Socrate, quando il commento di Ficino dilata il richiamo al demone socratico in una digressione dotta sulla natura dei demoni, intermediari e messaggeri tra dei e uomini. L’asse del ragionamento non riposa infatti nell’articolata distinzione di schiere che riflettono i diversi gradi dell’universo, né rimanda al nucleo di dottrine che si diffondono ininterrottamente dall’antichità al Medioevo. A Ficino interessa piuttosto dar risalto all’intimo legame tra politica e profezia, lungo un filo di riflessione che progressivamente si sposta dal tema dei demoni a quello della rivelazione, e converge, in ultimo, nel richiamo ai profeti ispirati, i quali, come attesta Avicenna, ugualmente «vedono le figure» e «odono le voci degli angeli» (Opera, cit., 2° vol., p. 1387). Una volta definito con mano sapiente il grandioso quadro cosmologico in cui le potenze intermedie – demoni o esseri angelici – sono chiamate a trasmettere i fondamenti del vivere civile, Ficino chiude dunque il discorso appellandosi al disegno provvidenziale che attraverso profezie, oracoli e vaticini costantemente indirizza l’umanità al suo fine naturale:
Come si dimostra nel Simposio e nelle Leggi, il genere umano, in quanto massimamente distante dal divino, richiede quale conciliatrice una natura intermedia come è quella del demone. Non senza ragione dunque la provvidenza divina […] pose sopra di noi demoni di natura prossima alla nostra quasi fossero nostri pastori, o come, si legge nel Cratilo, nostri governatori. Chiuso nella nebbia di questa ignoranza, agitato dalle innumerevoli avversità o deviato dalle lusinghe della fortuna, l’uomo non può infatti pervenire al fine che gli è proprio senza un aiuto continuo da Dio. Da qui dimostra dunque come Dio ci abbia affidato come rettori demoni di natura più pura che ci assistessero con vaticini, augurii, sogni, oracoli, parole, sacrifici, ispirazioni (p. 1388).
Interpretando il tema platonico del filosofo-re, Ficino non ha dunque dubbi, e sviluppa le dottrine platoniche con una ricca serie di esempi:
Quando il filosofo avrà contemplato Dio, che governa le realtà celesti, solo allora, e lui solo, potrà governare in modo divino le realtà terrene. In questo dunque Platone loda l’opera di Minosse, che per via di contemplazione precipuamente chiede a Giove le leggi […]. Per non dire poi che molti lodano Scipione, poiché si accostò al governo dello Stato con il magistero di Giove. E che dire poi di Numa Pompilio, il quale governò lo stato con leggi religiose? E le stesse leggi mosaiche, con cui divinamente si governava il popolo di Dio, non furono forse trasmesse agli uomini per insegnamento divino? (p. 1409).
Solo l’intervento costante della divinità, comunicata nelle forme del vaticinio, fonda la civiltà e conserva gli Stati: su questo Ficino insiste, e non senza motivo. Su un simile sfondo, la vicenda del saggio intento a scrutare le forze del cosmo per porle al servizio della propria deificatio non può essere in alcun modo interpretata nei termini di una fuga solitaria dal mondo umbratile, poiché è proprio in virtù di una simile, radicale, esperienza di sé che l’uomo si schiude ai doni del vaticinio, e acquista la capacità di operare efficacemente nel consorzio civile. Il destino del sapiente si fa così parte integrante del disegno provvidenziale che ininterrottamente offre agli uomini gli strumenti della vita civile. Perché per intrecciare di nuovo, attraverso il vaticinio, i fili spezzati della comunicazione tra uomini e dei non serve – e Ficino lo ha più di una volta sottolineato – l’inganno di Prometeo: si richiede invece l’opera accorta e meditata del filosofo, che sa inserirsi in modo proficuo nel circuito naturale, potenziando in maniera opportuna i canali naturali che predispongono l’uomo a farsi ricettacolo della rivelazione.
Su questa persuasione, la monumentale raccolta dell’epistolario getta però luci più cupe. Nel vivo dei rapporti che volta per volta le lettere intrecciano con interlocutori diversi – intellettuali, ecclesiastici, politici –, si incrina la fiducia nella possibilità di rinnovare l’età aurea attraverso il travaglio della filosofia. A testimoniarlo, una lettera all’amico Giovanni Cavalcanti istituisce fin dal titolo uno scarto insanabile tra il filosofo e il principe: la filosofia
nel trovare l’amore de la verità, desidera la tranquillità de l’animo, e la libertà de la vita. Ma appresso gli principi non habita la verità, ma bugie simulationi, dissimulationi, male parole, adulationi (Le divine lettere del gran Marsilio Ficino, tradotte in lingua toscana da Felice Figliucci senese, rist. anast. a cura di S. Gentile, 1° vol., 2001 [d’ora in avanti Lettere], f. 298v).
Alla libertà, che per il filosofo è «più cara d’ogni tesoro» si sostituisce così una «misera servitù», destinata a travolgere in una pari infelicità sudditi e tiranni. È un testo significativo, se si considera che termini quali tirannide, servitù, libertà sono certo metafore di opposte condizioni dell’anima, e modulano il tema classico della libertà interiore di cui gode il sapiente, estraneo agli artifici della vita di corte. Ma calate nel contesto politico della Firenze medicea, quei lemmi definiscono lucidamente precisi rapporti di forza tra il filosofo e i suoi corrispondenti. Non si tratta solo dell’amarezza di chi si sente escluso dai meccanismi del potere: vibra, nel testo, la denuncia di una crisi che torna costantemente a infrangere il legame di solidarietà civile e culturale destinato a congiungere, nel comune riconoscimento dell’unica sapienza originaria, filosofi, politici ed ecclesiastici. Svolgendo questi temi, le epistole di Ficino affrontano così il limite che si oppone all’opera rinnovatrice dell’uomo, e che continuamente si manifesta nel corso dei tempi: sfumano in tal modo le certezze manifestate nei commenti a Platone, e s’impone la dottrina cupa di una vicissitudine che travolge i disegni dell’uomo, esponendolo allo scacco.
Nella lettera indirizzata a Bernardo Bembo e intitolata Che la prosperità humana è fallace, Ficino non menziona la vicissitudine: ma il rimando topico alla fortuna dalle «dannose carezze» e «false promesse» è al servizio di un ragionamento incardinato sul ritmo circolare con il quale la provvidenza scandisce le vicende mondane:
La fatal legge de le stelle è in tal modo da la divina provvidenza temperata, che nel perpetuo corso de le cose celesti d’ogni quiete priva, come prima i pianeti al sommo de l’altezza, o de la dirittura loro sono arrivati a dietro ritornano (Lettere, 1° vol., f. 186r-v).
Non sono temi nuovi: nella Theologia platonica Ficino coglie nella vicissitudine una struttura portante del mondo naturale; la interpreta, però, quale testimonianza del vincolo d’amore per cui la natura emula l’immutabilità divina tornando perennemente a tessere le medesime realtà. Ma nella lettera a Bembo la vicissitudine segna un limite connaturato al finito, insito fin nei corpi perfetti dei pianeti, cui
ne più avanti procedere gli permette quella finita natura, ne manco un minimo tempe fermarsi gli concede in un medesimo luogo quella loro conditione del perpetuo moto (Lettere, 1° vol., f. 186v).
Lo stesso accade agli elementi, che «per il perpetuo correre de le sfere, sono […] continuamente rapiti» e declinano non appena giunti al «sommo grado de la lor natura»:
Onde quando queste qualità pare che assai crescano, alhora subbito mancano, il qual veloce scambiamento i quattro humori de i nostri corpi, e le complessioni seguitano (Lettere, 1° vol., f. 186v).
Da simili riscontri, l’occhio del filosofo passa a contemplare la vicenda dei singoli individui, travolti in una vicissitudine che accomuna momenti e condizioni dissimili:
Di qui nasce come si legge presso Hippocrate, che una perfetta sanità del corpo fallacissima è giudicata. Percioche appresso la natura vediamo, che doppo l’augmento, e il salire subbito, la diminutione, e il descendere ne segue, e quelle cose, che velocemente fioriscono, velocemente ancora si seccano; finalmente il troppo favore de la vana prosperità i vani animi de i mortali gonfia, e infermi li rende (Lettere, 1° vol., f. 186v).
Prosperità e buona sorte si risolvono dunque in un ritmo universale che condanna allo scacco: «in quello stesso momento» nel quale la prosperità
somma ne pare: e […] felicità la giudichiamo: subbito in contrario inordinatamente trabocca. Talche quello che da noi è felicità chiamato, è più tosto un certo principio di infelicità (Lettere, 1° vol., f. 186r).
‘Somma felicità’/‘principio di infelicità’: insistendo sull’occulto legame che si tende da un contrario all’altro, Ficino loda la prudenza mondana di Filippo II di Macedonia, attento a fuggire dagli estremi in cui si annidano i mutamenti:
Filippo re de i Macedoni, in quel medesimo giorno che ne i giuochi olimpij e insieme nel campo la vittoria riportò, e ancora il suo primogenito figliuolo Alessandro acquistò in così secondo favore di una troppa favorevole prosperità, non sanza cagione uno contrario vento temendo, O Iddio disse, Deh questo tanto bene con un picciol male ricompensami (Lettere, 1° vol., f. 187r).
A fare da contrappunto, la sorte di Alessandro Magno illustra invece l’inevitabile rovesciarsi della fortuna in eccesso, dell’eccesso in rovina: accecati dalla buona sorte, e «humana pensando ogni cosa esserli lecita» gli uomini
ne pericolo alcuno soprastargli pensono. Il che quasi al Re Alessandro si dice essere intervenuto. Onde con lor troppo libera licenza incontinenti doventano […] verso gl’huomini, ingiuriosi, superbi, e maldicenti, e gl’altri contra di loro d’odio, e d’invidia ripieni sempre inganni adosso gli pensano (Lettere, 1° vol., ff. 186v-187r).
Gli esempi congiunti di Filippo e Alessandro dimostrano così la debolezza della virtù umana e celebrano di contro la scelta sapiente di chi si ritrae dal mondo, circoscrivendo lo spazio in cui la fortuna può agire. Sono i consigli che Ficino illustra ai suoi corrispondenti; ma sono altresì le considerazioni che sostengono la lettura della Repubblica di Platone.
In un commento la cui struttura disomogenea sembra dissipare gli elementi peculiari della politica di Platone, agiscono strategie teoriche di lungo periodo: il perfetto equilibrio da cui discende la contemplazione dell’eterno non può, secondo Ficino, riposare sulla sola osservanza delle leggi, ma impone di abbandonare tutto quanto – attraverso l’eccesso – apra la via al mutamento, e consenta alla vicissitudine di esplicarsi senza ostacoli. Per questo giustifica l’abolizione della proprietà privata guardando al rapporto tra ‘crescita’ e ‘cambiamento’: dannoso per la concordia e i buoni costumi, l’eccesso è ugualmente fatale per la vita dello Stato, poiché rompendo gli equilibri fra le parti, apre la via alla decadenza. E per questo, ancora, celebra la perfetta razionalità di uno Stato perfettamente «mediocris aequalisque», respingendo una politica di espansione che inevitabilmente proietta nel circolo dei mutamenti. Dal commento a Platone alle epistole, Ficino continua a definire la perfetta azione politica nei termini di un contenimento consapevole dell’eccesso. Ma con una differenza: nelle epistole, nel vivo di un discorso che cerca di ricongiungere vicissitudine e provvidenza, vibra una nota amara e la pena del saggio, impotente di fronte al rovesciarsi delle sorti, svela una perdita che non viene mai completamente risarcita: «Non ancora se savii saremo – rileva Ficino –: similmente di pena ci empiremo» (Lettere, 1° vol., f. 187r).
Consapevole del ritmo universale, l’occhio del sapiente anticipa il corso da un contrario all’altro:
Di niuno è più debile la prosperità, che quella di colui a cui pare che ogni cosa prosperamente succeda. È cosa da prudente nel sereno aere il piovoso, e nel piovoso il sereno aspettare. Anzi niente in questa caliginosa vita sereno giudicare, se non quello che sotto una serena mente si ritruova. Da la parte di fuore una continua procella sempre ci batte, ma solo di dentro doviamo la tranquillità cercare (Lettere, 1° vol., f. 291r).
La prudenza insegna dunque a spiare il ritmo del mutamento, a cogliere l’inevitabile passaggio da un contrario all’altro: ma questo, a sua volta, significa prendere atto di come la vicissitudine non possa essere in alcun modo scalfita dall’impegno umano. Ficino lo ricorda con chiarezza nell’epistola Che di tutte le cose è lo scambiamento (Omnium rerum est vicissitudo), nella quale precisa come l’alternarsi degli imperi e il mutare della storia sia in tutto governato dal volere divino:
Dicono gli Poeti che Giove tolse a Saturno suo padre l’imperio. Et io penso che a questi tempi Marte, quasi di Saturno vindicatore, si habbi l’imperio di Giove usurpato (come gl’Astrologi dicono) gl’huomini religiosi sono da Giove significati e retti, e noi pur ogni giorno vediamo che i beni de i religiosi a i Martiali uomini trapassano. Ma Iddio voglia che il celeste Imperio scambievolmente vada succedendo, accioche si come a Marte gia più tempo ha Giove ceduto, così a Giove a qualche tempo cedere sia Marte sforzato. All’hora finalmente quando solo Giove regnerà, speriamo i pietosi uomini dover regnare. Il che forse prima che due anni trapassino, una gran coniuntione de i pianeti cagionerà, o per meglio parlare significherà (Lettere, 2° vol., ff. 81v-82r).
Occorre dunque attendere il mutamento, e limitare nel frattempo l’opera della fortuna, chiudendosi nella cittadella interiore:
Gl’è certo che io ho spesse volte avvertito, che colui che da cose esterne depende, sempre ansio, e pien d’affanni si vive; e spesse volte è ingannato. E solo colui tranquillamente, e certamente vive, che non ne le cose mortali, che di lui son fuore, ma dentro a se stesso con le cose eterne si vive, e mantiene (Lettere, 1° vol., f. 204r).
Per questo raccomanda di abbandonare «a la revolutione del mondo il corpo, come suo membro, e lascialo da lui sbattere dove più gli piace» (Lettere, 1° vol., f. 44r), ed esalta, simmetricamente, la virtù della pazienza, che sostiene l’accorta attesa del mutamento:
Questi secoli di ferro niente altro che male ci arrecano. Ne altro le muse ci ricordano che la patienza, virtù vera di sopportare i mali. Hora di quella alchimia ne farebbe di bisogno, che il ferro in oro convertisse. Accio che gli pessimi secoli, gli quali per le molte passioni e dolori di ferro ci si mostrano, almeno col dono della patienza d’oro doventassero (Lettere, 1° vol., f. 314r).
Distante tanto dall’‘eccesso’ di Alessandro quanto dalla scaltrezza di Filippo, la pazienza del saggio scaturisce da uno sguardo proteso oltre la vicissitudine:
A che de la nostra sorte o fortuna ci lamentiamo? A che mutar la fortuna temerariamente pensiamo? A che il fato piegare? O anima muta ti prego questo tuo giuoco, rivolta questa tua figura. Perche così la fortuna muterai, e piegherai il fato, e similmente subbito tutta la figura del Mondo in meglio ti si rivolterà (Lettere, 1° vol., f. 238v).
L’enfasi di Ficino ripropone così un tema centrale nell’epistolario: la vicissitudine mondana non può in alcun modo accogliere un principio di giustizia. E questo perché il gioco dei contrari, rifrangendosi nel mondo umano attraverso i rovesci di fortuna, è destinato a corrompere inevitabilmente la vita civile. Su questo insiste un’altra lettera indirizzata a Bembo, dal titolo Che la buona fortuna a i tristi è cattiva, e a i buoni la trista fortuna è buona, nella quale gli attributi tradizionali della fortuna – ‘cieca’, ‘invidiosa’ e ‘ambiziosa’ – acquistano risonanze peculiari per la forza con cui Ficino dispone ‘ragione’ e ‘fortuna’ su due poli che non ammettono mediazione:
Spesse volte la fortuna ha in odio e manda al basso colui, il quale è meritevolmente dal populo amato […] E per il contrario quello assai più spesso ama et estolle, il quale è ragionevolmente dal vulgo odiato (Lettere, 1° vol., f. 226v).
Una constatazione che subito si estende in un principio di carattere generale:
Avviene forse perche la fortuna non solo a la ragione è contraria e nemica, ma ancora dal principio del mondo e nimica del popolo ancora onde viene, che sempre il popolo è misero è sfortunato (Lettere, 1° vol., f. 226v).
Il luogo comune della ‘fortuna invidiosa’ si estende così all’intero universo civile, quasi manifestando l’opera di una forza avveduta e maligna:
Si potrebbe ancor dire che fusse ambitiosa e accio che ne a la virtù, ne al favore de gl’huomini ma a lei sola ogni gran fatto si attribuisca, ella, colui che gl’huomini per il più ragionevolmente al basso condotto veder vorrebbeno, con maravigliosi modi inalza e colui che in alto, e di sublime loco posto desiderarebbeno nel profondo de le miserie deprimendo abbassa (Lettere, 1° vol., f. 226v).
A tale persuasione Ficino contrappone però un ragionamento che spoglia la fortuna di ogni componente demoniaca, e coglie, di contro, il legame che la congiunge alla dialettica naturale dei contrari: «Ma non potremo noi dire – suggerisce – che ella cieca fusse e de la natura emula?» (Lettere, 1° vol., f. 226v). La fortuna asseconda i ritmi della natura, lotta contro il proprio opposto – la ragione – per dominare e assimilare a sé la ‘materia’ del consorzio civile:
Dove molta sapienza si vede, quivi pochissima sorte bisogna, dove poca sapienza si truova quivi la sorte assai signoreggia, e quantunque a le volte la fortuna con la sapienza si congiunga, non però insieme l’una e l’altra può regnare (Lettere, 1° vol., f. 227r-v).
La società si rivela così un campo di forze nel quale perennemente si confrontano fortuna e ragione:
Per il che la sorte, ai buoni huomini invidiosa, con tutte le sue forze si ingegna, e sforza che in nessun luogo regni la buona e santa ragione. Percioche ella vede che regnando quella, debbe ogni sua gloria et imperio perdere, spesse volte la sorte assai dona a colui, al quale poco la natura e la virtù ha fatto dono (Lettere, 1° vol., f. 227v).
In altre epistole, Ficino si è servito di questo modulo per contrapporre il sereno distacco della contemplazione all’impeto di una fortuna che signoreggia sui beni mondani. Ma in questa epistola a Bembo non è solo in questione la contrapposizione fra ‘interiore’ ed ‘esteriore’: a Ficino interessa dar risalto ai tratti oscuri di una società abbandonata al caso, nel vivo di un discorso che, attraverso la doppia immagine del ‘ridente’ Democrito e del ‘piangente’ Eraclito, evoca in toni plumbei il dramma di un consorzio civile nel quale non si dà – né può darsi – equilibrio alcuno tra ‘fortuna’, ‘virtù’, ‘ragione’, e celebra invece la scelta avveduta del saggio chiuso nella cittadella interiore:
Ne puoi in noi più che noi ci vogliamo, quando Dea ti facciamo o fortuna, et nel Ciel ci poniamo. Niuno è di colui piu infelice, che la vera felicità ne la fortuna pone. Niuno è di colui più felice, che […] del ridiculo pianto de la fortuna insieme con Democrito si ride, o vero il flebile riso de la medesima con Heraclito piagne (Lettere, 1° vol., f. 228r).
Il riferimento erudito al riso di Democrito e al pianto di Eraclito, frequente nell’epistolario, sembra certamente alludere a posizioni di carattere ascetico: ma nella filigrana delle immagini traspare forse una consapevolezza diversa. Lo testimonia un’altra lettera indirizzata a Bembo, intitolata Che l’è meglio stare fuor de la patria, che vederla mal condotta, nella quale Ficino richiama le vicende di un amico esule, al quale «non gl’è concesso, per non dir non gl’è lecito, soccorrerle, ne dissimulare gli piace, dove lo star lontano gli aggrada» (Lettere, 2° vol., f. 30v). Rispecchiandosi nella vicenda dell’amico, Ficino torna così a valorizzare un dato costante, insistendo sullo spazio irriducibile di indipendenza che la solitudine del filosofo difende accanitamente. Dalla forza dei tiranni il filosofo si preserva con l’isolamento, non, rileva duramente Ficino, con la dissimulazione. Separandosi dalla società, il saggio non si limita a difendere la propria libertà interiore, chiudendosi nella contemplazione del vero. Con la propria vita ritirata, sancisce invece, e difende, la libertà del proprio filosofare. Non è dunque un caso che nell’epistola Ficino rifiuti programmaticamente di dar risalto al distacco sereno dell’intellettuale e, quasi anticipando le osservazioni del lettore, subito noti che certamente «gli Filosophi non hanno questi pensieri, ne pigliano queste fatiche, ne tal affanno la lor quiete perturba» (Lettere, 2° vol., f. 30v). Poi però, di seguito, mostra come la quiete del filosofo sia in realtà profondamente diversa dalla contemplazione distaccata di un mondo corrotto:
Egli certo (se elegger potesse) piu tosto con Democrito insieme vorrebbe da la città lontano, da la sommità di qualche monte de li sciocchi Abderitani popoli ridersi, che con Heraclito, da una torre, de gl’Efesii mal capitati piangersi. Ma egli è tale, che in questa cosa sola almeno per una certa natura Giesu immiterà. Giesu dico, che de la misera sorte di Gierusalemme sopra un monte si lamenta. E che ancora Pittagora, Platone, Aristotile, hora vuol seguitare, che da la brutta faccia di Athene si fuggirono. Finalmente per non esser Socrate si studia (per dir cosi) Aristotile. E voi (come io penso) sapete per qual cagione Aristotile doppo la morte di Socrate lasciato Athene, in Calcide se ne andasse (Lettere, 2° vol., ff. 30v-31r).
Nel pianto di Eraclito, che il fulmineo cortocircuito sovrappone al lamento di Cristo su Gerusalemme, vibra così un sentimento di simpatia profondo. A Eraclito, non al beffardo e arrogante Democrito, guarda infatti Ficino, confermando così, nel richiamo al filosofo solitario, isolato ma non incurante delle lotte civili, il vincolo inscindibile tra il saggio e la sua città.
È la provvidenza che conduce, attraverso vaticinio e sapienza civile, il cammino dell’uomo verso la civiltà; e solo la provvidenza sblocca il confronto tra fortuna e ragione riconoscendo ed esaltando il merito. Contrapponendosi alla fortuna, la provvidenza divora però lo spazio dell’azione umana: osteggiato «in mirabili modi» dalla fortuna, il merito individuale si esalta, a giudizio di Ficino, solo per un decreto, ugualmente «mirabile», della provvidenza:
la Providenza divina a le volte, altri, contra ogni favor de la fortuna da una somma altezza ad una et infima bassezza trabocca; altri, contra il maligno empito de la medesima mirabilmente in alto inalza (Lettere, 1° vol., f. 227r).
Stravolgendo la vicissitudine dei contrari, la provvidenza interviene così a governare il corso della storia:
Sono stati a certe età e secoli, certi grandi e potenti huomini come certi humani Iddii, e come certi divini huomini, ma piu rari assai che le fenici non sono, gli quali non la fortuna, ma la divina provvidenza fa grande. Questi tali sono per manifesti segni conosciuti. Percioche eglino son tali, che de la cagion de la prosperità loro, a la sorte niente attribuiscano, et similmente una poca cosa a la humana virtù non riferiscono e a la divina virtù assai attribuiscono, e tanto col volto verso ciascuno humani si mostrino, quanto sopra tutti con la mente sono divini (Lettere, 1° vol., f. 227v).
L’indole meschina e indegna dei favoriti dalla fortuna testimonia potentemente la frattura tra società e ragione:
Questi tali, fuor de la dignità loro, in degnità posti, fanno che le dignità stesse l’avvenire de i buoni huomini non siano degne: fanno ancora che a le volte, ne da divina provvidenza il mondo ne da humana prudenza gl’huomini governarsi: ma a caso si creda (Lettere, 1° vol., f. 227r).
Trastullo di una sorte ‘nemica della virtù’, o strumento di una provvidenza che improvvisamente illumina il mondo, la vicenda dell’uomo entro la ‘rivoluzione del mondo’ appare comunque contrassegnata da una radicale passività. Ecco dunque che la sorte dell’‘uomo divino’ è definita e ordinata, fin dall’origine, dal decreto divino: per questo nella lettera al cardinale Raffaele Riario Ficino tesse le lodi di una grandezza futura che non è auspicata da buone qualità o gesta già compiute, ma che trova piuttosto il suo fondamento nell’opera della provvidenza:
Primieramente un così eccelso grado di dignità, ne a li meriti vostri attribuir vogliate, gli quali per dire il vero in così pochi anni de la vostra tenera età tanti esser non possono. Né ancora a la fortuna o a la sorte. Perche i sacrati misterii e i divini ordini, non da la temerità de la fortuna, ma da l’eterna sapienza di Iddio procedono. La divina providenza adunque ha ordinato nel suo propio grembo, e solo di sacrati cibi, da le fasce nutrirsi un perfetto pastore del Christiano greggie a li nostri secoli (Lettere, 1° vol., f. 303r).
Ecco che il destino del tiranno è già iscritto, dalla nascita, nello squilibrio e nell’eccesso di una costituzione viziosa, poiché «la fortuna se alcuno che grande sia, desidera huomo far diventare, lo fa prima doventare una gran bestia di venenoso fastidio gonfiata» (Lettere, 1° vol., f. 227r).
Nella vicenda del tiranno, il richiamo all’«emulazione della natura» – che nella Theologia platonica conferisce toni suggestivi alle pagine in cui Ficino descrive un’arte capace di assimilarsi al mondo divino – si rovescia nell’immagine drammatica di una fortuna che attraverso l’eccesso esaspera l’urto dei contrari. Di nuovo, è sul rapporto di continuità tra opera della fortuna, eccesso e mostruosità che batte, consapevolmente, l’accento: «Tale che e ne la natura e nel ingegno, e nel volto prima nascersi, mostra uno esser Tiranno, che ne la Tiran[ni]de sia posto» (Lettere, 1° vol., f. 227r). Un modulo cui Ficino conferisce esplicito risalto con un lessico permeato dalla tradizione medica e dalla fisiologia degli umori:
Se dove è un gonfiamento, non è sanità, certo è che niuno che gonfiato e superbo sia, può negare di non essere insano, e niuno che insano e profano, sia pio tanto che ancora bestiale non possa esser detto (Lettere, 1° vol., f. 227v).
Il ribollire degli umori scandisce così l’opera della fortuna, e individua, nei corpi di uomini e Stati, il momento cruciale in cui il vigore si muta in malattia, la prosperità in declino. Non sorprende dunque che il ritratto fosco di Girolamo Savonarola sia costruito sui toni dell’eccesso, della crescita patologica:
non è qui il caso di discutere per quali ragione invece astrologi e platonici avrebbero potuto congetturare che Savonarola fosse gonfiato da molti e diversi o infausti influssi degli astri (Apologia Marsilii Ficini pro multis Florentinis ab Antichristo Hyeronimo Ferrariense hypocritarum summo deceptis ad Collegium Cardinalium, in P.O. Kristeller, Supplementum ficinianum, 1937, p. 77).
Gonfiamento, insania, superbia: su un unico filo di riflessione, Ficino fa convergere il lessico religioso della «luciferea superbia» e il registro medico degli umori da cui germinano le passioni, e con cui la natura, si è visto, ‘gonfia’ di ‘veleno’ il corpo del tiranno. È un modo di procedere sintomatico: a Ficino non interessa penetrare nell’intimo del frate, sondarne l’animo e coglierne i tumulti e le passioni. Gli preme, all’opposto, segnalarne i tratti disumani, riducendolo a massa di umori ribollenti, che in modo irriflesso e automatico defluiscono all’esterno propagando il male. In questa riflessione, tesa a sottrarre il demagogo al mondo dello spirito per sommergerlo nei ritmi della natura e nella potenza dei contrari, il ritratto del frate subisce una ulteriore metamorfosi: diventa infatti la «torpedine marina» che intorpidisce lo spirito degli ascoltatori (Apologia, cit., p. 78).
Sui poteri magici della torpedine, Ficino si era già soffermato nel De vita; ma il tema rimanda altresì a Platone, e al paragone che compare in un passo importante del Menone, quando il giovane tessalo, incapace di reagire alle domande incalzanti di Socrate, osserva come il filosofo «sia del tutto simile, nell’aspetto e nel resto, alla piatta torpedine marina». Nel testo di Platone, l’immagine di un torpore che coinvolge a un tempo ragione ed eloquenza segnala efficacemente l’effetto straniante del dubbio; con uguale precisione, Ficino segnala come il veleno della torpedine-Savonarola colpisca e ottunda a un tempo l’acume della mente e la prontezza dell’agire: ma le analogie sono al servizio di un ragionamento che imprime a tutto il discorso una torsione netta. Non si tratta di dar risalto all’effetto venefico e straniante di un dubbio che, alla fine, si fa strumento di verità: il confronto con la bestia segnala invece la profonda, radicale disumanità di Savonarola, del tutto estraneo alle forme di una comunicazione che, facendo perno sulla potenza immateriale dell’anima, dischiude alla sapienza civile della profezia.
In una sintesi originale che polarizza temi platonici tutto intorno alla dottrina della vicissitudine, si definiscono così i tratti di una riflessione che fonda la sapienza politica e la prosperità degli Stati sull’opera del filosofo, e sul vincolo che il sapiente riesce a stringere tra la propria azione e i disegni imperscrutabili della provvidenza. Un motivo, questo, che certo tende a sfumare di fronte al vigore con cui Ficino esalta i tratti radicali di una conversione destinata a culminare nella deificatio, ma che percorre costante, dall’inizio alla fine, tutto l’arco della sua riflessione.
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Apologia Marsilii Ficini pro multis Florentinis ab Antichristo Hyeronimo Ferrariense hypocritarum summo deceptis ad Collegium Cardinalium, in P.O. Kristeller, Supplementum ficinianum, 2° vol., Firenze 1937, pp. 76-79.
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