Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Heidegger ha lasciato il suo segno indelebile su tutto il pensiero contemporaneo ponendo nuovamente l’antica domanda sul significato di “essere”, non come un concetto astratto e intemporale, ma così come esso emerge fenomenologicamente dalla nostra esistenza temporale e finita. Per questo egli ha ripensato l’essenza stessa dell’uomo non più come l’animale dotato di ragione, ma come il luogo in cui accade la verità, ossia si disvela la presenza velata delle cose presenti. Nell’evento di appropriazione di uomo ed essere si decide per lui tutta la storia dell’occidente come storia della metafisica e si può ascoltare – come un appello che ci reclama – il destino della nostra epoca, quella segnata dal dominio planetario della tecnica e dal nichilismo compiuto. Una concezione che Heidegger ha guadagnato attraverso un enorme lavoro di rilettura degli autori più importanti della storia della tradizione filosofica e con un’attenzione particolare al linguaggio e alla poesia, così come all’arte e al sacro.
Martin Heidegger
L’ovvietà dell’essere è solo apparente, § 1
L’“essere” è un concetto ovvio. In ogni conoscere, in ogni asserzione, in ogni comportamento che ci pone in rapporto con l’ente, in ogni comportamento che ci pone in rapporto con noi stessi si fa uso dell’“essere”, e l’espressione è “senz’altro” comprensibile. Tutti comprendono che cosa significhi: “Il cielo è azzurro”, “Sono contento” e così via. Ma questa comprensione media dimostra soltanto un’incomprensione. Essa rende manifesto che in ogni comportamento e in ogni modo di essere che ci ponga in relazione con l’ente in quanto ente si nasconde a priori un enigma. Il fatto che già sempre viviamo in una comprensione dell’essere e che, nel contempo, il senso dell’essere continua a restare avvolto nell’oscurità, attesta la necessità fondamentale di una ripetizione del problema del senso dell’“essere”.
M. Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 2005
Martin Heidegger
L’esserci, § 5
Nel delineare i compiti relativi alla “posizione” del problema dell’essere si è chiarito che non basta stabilire quale sia l’ente da interrogarsi per primo, ma che occorrono anche il possesso esplicito e la sicura garanzia della giusta via d’accesso a questo ente. Abbiamo già discusso quale sia l’ente che assume il ruolo principale in seno al problema dell’essere. Ma come può questo ente, l’Esserci, riuscire accessibile e, per così dire, esser preso di mira nell’interpretazione che lo comprende?
Il primato ontico-ontologico che si dimostrò proprio dell’Esserci potrebbe sviarci nella falsa opinione che questo ente sia anche il primo a esser dato in sede ontico-ontologica, non solo nel senso di una sua afferrabilità “immediata”, ma anche nel senso di una altrettanto “immediata” accessibilità al suo modo di essere. Certamente l’Esserci non solo ci è onticamente vicino, o anche il più vicino di tutto, ma noi stessi siamo rispettivamente l’Esserci. Nonostante ciò, o proprio per ciò, esso è ontologicamente ciò che vi è di più lontano da noi. Certo, rientra nel suo essere più proprio di avere una comprensione di tale essere, nonché di mantenersi già sempre in un certo stato di interpretazione del proprio essere. Ma con ciò non si vuole assolutamente dire che questa più prossima interpretazione pre-ontologica di se stesso possa fungere da filo conduttore adeguato, quasi che tale comprensione dell’essere debba scaturire da una riflessione tematicamente ontologica della più propria costituzione dell’essere. L’Esserci, piuttosto, a causa di un modo di essere che gli è proprio, tende a comprendere il proprio essere in base all’ente a cui costantemente e innanzi tutto si rapporta per essenza, cioè in base al “mondo”. Fa parte dell’Esserci, e perciò della comprensione d’essere che gli è propria, ciò che noi mostreremo come il riflettersi ontologico della comprensione del mondo sulla interpretazione dell’Esserci.
M. Heiddeger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 2005
Martin Heidegger nasce a Meßkirch il 26 settembre 1889. Iniziati gli studi teologia (durante i quali legge Il molteplice significato dell’ente secondo Aristotele di F. Brentano), lascia dopo due anni per filosofia.
Nel 1913 presenta una tesi di dottorato su La dottrina del giudizio nello psicologismo, e nel 1915 lo scritto per l’abilitazione su La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto. La lezione per la libera docenza è su Il concetto di tempo nella scienza della storia. Nel 1914 si arruola volontario nella prima guerra mondiale, ma è congedato per motivi di salute. Nel 1917 sposa una giovane protestante, Elfriede Petri.
Nel 1919 diventa assistente di Husserl a Friburgo. Nel 1923 viene chiamato all’università di Marburgo, dove resterà sino al 1928. Qui avviene l’incontro amoroso con Hannah Arendt. Nel 1927 appare Essere e tempo.
Nel 1928 è chiamato a Friburgo come successore di Husserl. Nel 1933 assume il Rettorato (con un discorso su L’autoaffermazione dell’Università tedesca) e aderisce al Partito nazionalsocialista. Resterà in carica meno di un anno.
Caduto il regime, viene interdetto (fino al 1949) dall’insegnamento. Nel 1947 appare la Lettera sull’“umanismo”, in cui si rende nota la cosiddetta “svolta” del suo pensiero. I suoi interventi più importanti sono raccolti in quattro volumi: Sentieri interrotti (1950); Saggi e discorsi (1954); In cammino verso il linguaggio (1959) e Segnavia (1967). Ma bisogna ricordare anche le Dilucidazioni sulla poesia di Hölderlin (1944); Che cosa significa pensare? (1954); Il principio di ragione (1957); L’abbandono (1959) e il Nietzsche (1961).
Pochi giorni dopo la sua morte (Friburgo, 26 maggio 1976) appare l’intervista Ormai solo un Dio ci può salvare.
A partire dal 1975, su disegno dello stesso Heidegger, inizia presso l’editore Klostermann di Francoforte la pubblicazione dell’edizione completa (Gesamtausgabe) delle sue opere. A tutt’oggi è stata pubblicata più della metà dei 102 volumi previsti, suddivisi in 4 sezioni: I. Scritti pubblicati in vita; II. Corsi universitari; III. Trattati inediti, Conferenze, Pensieri; IV. Indicazioni e Appunti.
L’attività di ricerca del giovane Heidegger segue tre direzioni:
1. un attraversamento critico della fenomenologia husserliana, intesa come l’unico metodo adeguato per sviluppare la ricerca filosofica – a patto però di non intenderla più come un’analisi dei vissuti di coscienza, ma come un’interpretazione dell’essere stesso della vita, o meglio come il modo in cui la vita comprende se stessa;
2. la riscoperta del cristianesimo primitivo (soprattutto attraverso le lettere di san Paolo) come una modalità originaria di fare esperienza della finitezza dell’essere umano, cioè della sua temporalità e storicità – a patto però di intendere il cristianesimo non come farebbe un fedele, ma come farebbe un ateo;
3. l’appropriazione del pensiero di Aristotele (soprattutto nell’Etica nicomachea e nella Fisica), come una descrizione di quel movimento che costituisce l’essere della vita umana – a patto dunque di non seguire più l’interpretazione neo-scolastica di Aristotele come preparazione alla teologia rivelata.
In ciascuna di queste tre direzioni possiamo ritrovare le due questioni che impegnano esplicitamente, anche se in forme di volta in volta differenti, tutti i corsi tenuti da Heidegger negli anni Venti, e cioè: a) Che cos’è la filosofia? e b) Qual è il modo di essere della vita? Chiedere cosa sia la filosofia non è una domanda accademica, perché la filosofia è di per sé una modalità peculiare con cui la vita comprende se stessa; e viceversa chiedere com’è la vita non è una domanda “personale” o “emotiva”, ma squisitamente ontologica.
La coappartenenza di queste due domande viene contrassegnata da Heidegger con un concetto originale rispetto a quelli che la storia del pensiero gli metteva a disposizione: il concetto di “vita fattuale”. La “fatticità” (Faktizität) della vita non va intesa né come condizioni oggettive della vita (un “dato di fatto” di tipo biologico o storico, o uno stato di cose “effettivo”) né con i condizionamenti soggettivi o psicologici dell’io (le aspettative, i timori, i progetti che ciascuno di noi nutre), perché in questi casi la vita sarebbe concepita a partire da qualcosa di altro o diverso da sé. Essa significa piuttosto un modo d’essere originario della vita, e cioè il “come” essa vive ogni suo contenuto o situazione. In questo “come” Heidegger individua il livello ontologico più proprio dell’uomo: esso non coincide né con la coscienza, né con l’io, e non è comprensibile né con la metafisica né con la psicologia, ma solo attraverso quella più radicale e originaria considerazione della vita che è la fenomenologia.
Husserl aveva aperto a Heidegger una strada nuova rispetto a quell’alternativa tra idealismo e realismo, ma da subito era diventato chiaro all’allievo che le indicazioni fondamentali del Maestro dovevano essere portate a una radicalità che rendeva necessario superarlo, o almeno prendere un’altra strada rispetto alla sua. Tutto si giocava nel modo di intendere l’origine: Husserl aveva messo a tema una “fenomenologia dei vissuti” dell’io, e in particolare nella VI Ricerca logica (cui Heidegger presterà sempre un’attenzione particolare) aveva parlato della capacità dell’io di cogliere, con un atto di “intuizione” o di “percezione” categoriale, la struttura essenziale degli oggetti sensibili, quindi il loro “essere” ciò che sono. In questo egli aveva certamente indicato, almeno agli occhi di Heidegger, il livello ultimo o originario della filosofia, individuato appunto in un atto intenzionale dell’io in cui si rendeva presente, come suo riempimento, l’essenza della cosa stessa. Ma poi Husserl, con la pubblicazione delle Idee (1913) aveva curvato la sua indagine in senso idealistico e trascendentale, identificando l’origine fenomenologica nella coscienza pura, cioè in quello che restava dopo aver operato la sospensione (epoché) del mondo così come esso ci si dà abitualmente e la sua “riduzione trascendentale” a contenuto immanente nella coscienza.
E qui Heidegger non può più seguire il Maestro, perché questo esito di tipo idealistico-trascendentale gli sembra annullare proprio la novità e la radicalità del vedere fenomenologico. Bisogna dunque intendere e praticare la fenomenologia in maniera più radicale dello stesso Husserl, cercando non nella coscienza pura ma nella vita fattuale – sempre di per sé orientata a un rapporto con il mondo, e anzi costituente essa stessa un mondo – il terreno originario della filosofia. La vita non va ingabbiata all’interno di strutture concettuali elaborate dalla nostra mente: al contrario, essa porta dentro di sé le categorie più adeguate per essere compresa, giacché le strutture della vita fattuale sono sempre strutture auto-comprendentesi (L’idea della filosofia e il problema della visione del mondo, 1919); così che, se la scienza tratta tutto come “cose” e parla su di esse, la vita le “vive” (Problemi fondamentali della fenomenologia, 1919-1920).
Analizzando l’esperienza descritta in alcune Lettere di san Paolo (nel corso del 1919-1920 intitolato Introduzione alla fenomenologia della religione), Heidegger mette a fuoco il concetto di tempo così come è inteso, o meglio “vissuto” dalle comunità proto-cristiane, e cioè non come una semplice cornice all’interno della quale si svolgono gli eventi della vita, ma come la modalità più specifica dell’essere della vita stessa, che è appunto “fattuale” non perché “ha” il tempo, ma perché “è” il tempo. Questa temporalità – e con essa la finitezza della vita umana – non va intesa però come il segno del suo carattere creaturale, e quindi del suo rapporto di dipendenza dall’essere eterno (Dio), ma al contrario come il fatto che la vita è originariamente un rapporto con se stessa, vale a dire non è qualcosa di “dato” o di “presente”, ossia non è un semplice “ente” già costituito in sé, che poi entri in rapporto con ciò che è altro da sé (il mondo, gli altri uomini, Dio), ma “è” temporalmente, cioè consiste nel movimento mai concluso di pervenire a sé stessa.
Nell’esperienza della vita fattuale emerge un modo diverso di concepire il tempo, rispetto al modo “cronologico”, con cui noi abitualmente lo “contiamo” (come quando impieghiamo un certo tempo, o perdiamo tempo ecc.). Nella sua interpretazione di Paolo, Heidegger mostra come la seconda venuta di Cristo (o parusìa) sia vissuta non come il rapportarsi a un evento futuro che debba ancora accadere, ma come una dimensione specifica con cui il cristiano vive il suo presente, continuamente de-centrato da sé stesso, in questo caso vivendo nella sobrietà e vegliando nell’attesa. Paolo non dice mai “quando” avverrà la seconda venuta che il cristiano attende; piuttosto egli individua in questa attesa il “come” della vita.
Questa interpretazione del nesso tra il tempo e la vita viene radicalizzata nella lettura che Heidegger farà dell’XI libro delle Confessioni di Agostino, lì dove si pone la domanda su “che cos’è il tempo”: la cosa più ovvia e scontata che ci sia, e insieme quella più difficile da definire nella sua essenza. La risposta data da Agostino è che il tempo non è qualcosa di misurabile in sé o un semplice metro di misura delle cose che passano, perché esso è misurato solo nello spirito (animus), e più precisamente ciò che misuriamo sono le impressioni che le cose che passano lasciano nello spirito. Heidegger interpreta questa posizione agostiniana così: “Io misuro il “sentirmi” nell’esistenza presente, non le cose che passano affinché esso sorga. È il mio “sentirmi” che misuro […] quando misuro il tempo” (vsi veda la conferenza del 1924 su Il concetto di tempo). Il tempo, dunque, appartiene alla struttura originaria della vita, come esperienza della propria fatticità.
Eppure questa scoperta, una volta divenuta oggetto della teologia e della metafisica, ha perso secondo Heidegger la sua novità e la sua radicalità; e proprio per salvaguardarla bisogna ripensarla attraverso categorie filosofiche pre-cristiane. Per capire sul serio Paolo e Agostino (e quei pochi altri che hanno compreso in maniera autentica questa esperienza religiosa, come Lutero o Kierkegaard) bisogna ritornare ad Aristotele.
Nel pensiero aristotelico accade secondo Heidegger la più decisiva auto-interpretazione della vita nei termini del “movimento”. Proprio in considerazione di questa strutturale “motilità”, il nome stesso di vita fattuale cede il posto a un nome più specifico e meno equivocabile, quello di “esserci” (Dasein) o “esistenza” (Existenz), che alla fine verrà a sostituire del tutto il precedente. Allo stesso tempo, la fenomenologia, intesa appunto come auto-interpretazione dell’esserci, assume sempre più decisamente il nome di “ermeneutica della fatticità”.
Aristotele costituisce una presenza costante e decisiva in molti dei corsi tenuti da Heidegger negli anni Venti, poiché nei testi del filosofo greco – soprattutto nell’Etica Nicomachea, nella Metafisica, nel De anima e nella Fisica – egli ritrova i concetti più appropriati per descrivere come si muove la vita. E la vita si muove sempre “prendendosi-cura” di qualcosa, cioè riferendosi sempre a oggetti, situazioni, dati presenti nel mondo (in ciò che Heidegger chiama un “commercio” con il mondo, ossia un “avere a che fare” con le cose), ma tendendo anche sempre a identificarsi con queste cose e quindi a perdersi in esse, perendo con ciò la specificità del suo essere. Heidegger ne parla come di una tendenza a “cadere in rovina” o a “rovinare”, che non è una situazione occasionale o accidentale, ma appartiene alla vita come una sorta di “forza di gravità”, che la porta naturalmente a cadere e a decadere. Tale “forza di gravità” è il “come” strutturale dell’esistenza, quindi il perdersi o l’estraniarsi della vita appartiene al suo stesso essere. Da questo cadere dell’esistenza emerge – senza che intervenga nulla a invertire la prima tendenza, bensì come una naturale inversione del movimento esistenziale, quasi l’oscillazione di un pendolo – una sorta di “contromovimento, come preoccupazione da parte della vita di non perdere se stessa”, ed è qui che la vita “si temporalizza” (si veda il Natorp-Bericht), cioè emerge il carattere storico del suo essere.
La chiarificazione ontologica dell’esserci ha mostrato che il vero tema della fenomenologia è il modo in cui l’esserci comprende l’essere, cioè la domanda sull’essere – più precisamente, la domanda sul senso dell’essere.
Il passaggio dall’ermeneutica della fatticità alla questione esplicita sul senso dell’essere viene guadagnato da Heidegger nell’intenso lavoro dei suoi corsi universitari a Marburgo, che culminerà nella redazione di Essere e tempo. Sempre seguendo il filo rosso della fenomenologia, egli si confronta con, e si appropria di alcuni momenti essenziali della storia della filosofia: anzitutto Aristotele e Kant, ma anche Platone, Tommaso d’Aquino, Suárez, Descartes, Leibniz e Hegel, che rappresentano ai suoi occhi esperienze originarie del pensiero ontologico. Essi attestano ciò che nella storia dell’ontologia è rimasto per lo più intuito o intravisto, ma non radicalmente interrogato, ossia la differenza tra l’esserci (ossia l’esistenza dell’uomo) e l’essere di tutti gli altri enti, che si svela però solo alla luce di una più radicale differenza, quella tra l’ente e l’essere.
Il punto di partenza di tutta l’intrapresa di Essere e tempo è il riconoscimento della dimenticanza della questione dell’essere, dissimulata sotto una coltre di pregiudizi, in base ai quali si crede di aver già risolto e archiviato il problema, spegnendo l’inquietudine che invece esso sempre provoca in chi lo prenda sul serio. Un primo pregiudizio consiste nel pensare che quello di “essere” sia il concetto “più generale” di tutti, nel senso che attraversa e oltrepassa tutti i generi dell’ente (è trans-generico o trascendentale come lo chiamavano i medievali) e che proprio per questo esso sia di per sé il più “indeterminato” di tutti. Ma questo non vuol dire affatto per Heidegger che esso sia anche il più chiaro, non bisognoso di ulteriori discussioni. Al contrario: “il concetto di ‘essere’ è il più oscuro di tutti” (Essere e tempo, § 1).
Un altro pregiudizio è quello per cui “essere” sarebbe un concetto indefinibile a motivo della sua generalità, cioè del fatto che, a differenza degli enti determinati, all’essere non si possono attribuire dei predicati. Ma per Heidegger “l’indefinibilità dell’essere non dispensa dal problema del suo senso; al contrario, lo rende necessario” (ivi). Infine si ritiene correntemente che “essere” sia un concetto ovvio, poiché esso viene continuamente usato in ogni nostro rapporto con gli enti: ma proprio questo “attesta la necessità fondamentale di una ripetizione del problema del senso dell’“essere”.
È così delineato il tema fondamentale della ricerca filosofica, la quale dev’essere intesa come un’ontologia, ma in un’accezione appunto non scontata e non ovvia, dal momento che la sua attenzione non è rivolta semplicemente all’“essere” come tale, bensì più propriamente al problema del senso dell’essere, o più sinteticamente alla “questione dell’essere” (Seinsfrage). Ma per comprendere la domanda sull’essere bisogna analizzare l’essere stesso della domanda. La formula: “Che significa essere?” è identica dunque a quella “Che vuol dire domandare?”.
Ora, quando si domanda di qualcosa o su qualcosa, lo si domanda sempre a qualcuno (in termini formali, il “domandato” richiede sempre un “interrogato”), e quando la nostra interrogazione assume il tratto di una ricerca esplicita – cioè tematizzata o teorizzata in quanto tale – emerge proprio quello a cui si mirava (il “ricercato”). Questo significa che il domandare autentico è sempre orientato a partire da ciò che esso cerca, e da quest’ultimo si lascia guidare. Applicata alla questione sull’essere, tale dinamica sta a dire che ciò che si domanda è l’essere, quello a cui si domanda, cioè l’interrogato, è l’esserci, mentre il ricercato è il senso dell’essere. Il baricentro del domandare è costituito da quello che viene interrogato; ma nel caso specifico della domanda sull’essere, l’interrogato, ossia colui a cui si domanda, è quello stesso che pone la domanda.
Per questo, con una formula che ritornerà spesso per definire l’esserci, Heidegger afferma che “per questo ente, nel suo essere, ne va di questo essere stesso” (Essere e tempo, § 4), o detto più semplicemente, ciò che è in questione o di cui si tratta in esso è sempre il suo stesso essere. Questa relazione all’essere tipica dell’esserci prende il nome di “comprensione dell’essere”. Non bisogna pensare a questa comprensione come a un’attività conoscitiva esplicita da parte di un soggetto, poiché il comprendere “è” l’essere dell’esserci.
Questo spiega il motivo per cui l’essere dell’esserci – e solo esso – viene chiamato da Heidegger “esistenza”: a differenza degli enti meramente “presenti” nel mondo, che sono quello che sono, e basta, l’“essenza” dell’esserci invece consiste proprio nell’ex-sistere, nello stare fuori rispetto a se stessa, cioè nel non chiudersi mai in quello che è, ma nel vivere come apertura di una possibilità di se stesso. “Esserci” non indica dunque qualcuno che “è” in una maniera già determinata (come succede per tutti gli enti diversi da esso), bensì l’“avere-da-essere” quello che è, cioè la sua possibilità – una possibilità non ancora realizzata, ma che non potrà realizzarsi mai, perché se ciò avvenisse, l’esserci si ridurrebbe anch’esso a un ente naturale o mondano. In altri termini, la vita dell’uomo non ha semplicemente delle possibilità ma “è” essa stessa possibilità. Secondo Heidegger questo carattere fondamentale dell’esserci non è accessibile solo ad un’indagine teoretica, ma anche nella vita quotidiana: anche in questo secondo caso noi abbiamo a che fare con una comprensione, che Heidegger denomina “comprensione esistentiva”, per distinguerla da quella “comprensione esistenziale” in cui l’essere dell’esserci viene tematizzato in un’ontologia esplicita.
Proprio perché l’ontologia si basa su di un fondamento pre-ontologico (vale a dire la comprensione esistentiva che l’esserci ha di se stesso), essa viene chiamata da Heidegger “ontologia fondamentale”; ma il termine significa anche che essa fornisce il fondamento a tutte le altre scienze. Di conseguenza, per sviluppare un’ontologia scientifica bisogna partire da un’analisi dell’essere dell’esserci, cioè dell’esistenza: “l’ontologia fondamentale, da cui soltanto tutte le altre possono scaturire, deve esser cercata nell’analitica esistenziale dell’esserci”.
L’impianto iniziale di Essere e tempo prevedeva due parti, dedicate rispettivamente ai “due compiti” della ricerca sul senso dell’essere: 1) l’analitica dell’esistenza come preparazione per comprendere il senso dell’essere in generale in base al tempo e 2) la distruzione della storia dell’ontologia (ma si arresterà senza neanche portare a termine la prima parte).
A differenza dalla concezione tradizionale dell’uomo, che sarebbe stato interpretato sempre a partire dagli enti non-umani e non dalla sua specificità ontologica (come nella classica definizione dell’uomo come “animale dotato di ragione”), l’esistenza invece non è un concetto di tipo generico, sotto il quale siano ricompresi i singoli individui, ma è un “esser-sempre mio”, cioè l’essere di ogni singolo esserci, il quale “ha da essere” se stesso nella modalità dell’appropriazione a se stesso o dell’espropriazione da se stesso, ossia nell’“autenticità” o nell’“inautenticità”. Queste due modalità d’essere non vanno intese in senso morale, ma come puri fenomeni strutturali. Anzi, per essere fedele al modo in cui gli esserci vivono quotidianamente, l’analisi dovrà partire proprio dalla modalità “inautentica” (cioè non pienamente appropriata a se stessa) dell’esistenza.
Di qui deriva anche il fatto che per Heidegger non solo le categorie tradizionali, ma in generale tutte le “categorie” risultano inadeguate a cogliere i caratteri dell’esistenza, in quanto esse sono le “determinazioni d’essere degli enti non conformi all’esserci”. L’auto-comprensione ermeneutica dell’esserci non usa categorie, ma si esplicita attraverso quelli che Heidegger chiama “gli esistenziali”, appunto perché non sono le modalità con cui la nostra conoscenza chiama l’esserci, ma le modalità d’essere dell’esserci stesso.
Ora, per Heidegger l’essere dell’uomo non è riducibile nei termini di un “io” soggettivo o di una coscienza rispetto alla realtà oggettiva. L’esistenza umana o esserci ha piuttosto il carattere di un “essere-nel-mondo”. La stessa scrittura evidenzia qui che non vi sono prima l’esserci e il mondo, che poi entrerebbero in contatto tra loro, ma che il fenomeno è del tutto originario. Il “chi è” dell’esserci e il “che cos’è” del mondo sono una cosa sola (cioè l’esistenza). Non si tratta dell’ovvia constatazione che ogni uomo vive sempre in condizioni determinate spazio-temporalmente, ma della scoperta di ciò che rende originariamente possibile una tale prossimità.
Il mondo dunque possiede una struttura ontologica che è qualcosa di ben diverso dall’essere un semplice dato spaziale presente fuori di me: essa costituisce piuttosto un “esistenziale”, ed è chiamata da Heidegger “mondità”. E gli stessi enti che si incontrano nel mondo non vanno concepiti alla maniera cartesiana, come oggetti contrapposti a un soggetto, ma al contrario sulla base di quella struttura d’essere dell’esserci che consiste nel “prendersi cura” degli enti intramondani.
Nel prendersi cura dell’esserci, ogni cosa viene innanzitutto utilizzata – all’interno di una totalità di cose – come uno “strumento” o un “mezzo-per…” qualcos’altro. Questo vuol dire che l’originario modo d’essere dell’ente intramondano consiste nella sua “utilizzabilità” (Zuhandenheit) e non in quella “sostanzialità” con cui esso è stato per lo più teorizzato nella tradizione metafisica.
Solo perché l’esserci comprende già sempre gli enti nel loro esser-utilizzabili, esso può giungere a una comprensione tematica o teoretica degli enti, cioè considerali nel loro “esser-presente-sottomano” (Vorhandenheit), in cui emerge la “semplice presenza” di un ente, astratto dall’insieme dei rimandi in cui è per lo più incontrato all’interno del mondo (come quando per esempio tematizziamo un martello, definendolo nelle sue caratteristiche ontiche, interrompendo per svariati motivi l’uso che ne facevamo come un utilizzabile). La conoscenza teoretica degli enti è dunque una modalità derivata, non originaria, del rapporto dell’esserci agli enti.
Se la modalità primaria di esistere dell’esserci è un “esser-presso” gli utilizzabili intramondani, essa comporta al tempo stesso un “con-essere” con gli altri esserci”. E se il rapporto dell’esserci con i primi è identificato come un “prendersi cura”, il rapporto con i secondi è chiamato da Heidegger un “aver cura”. Questo spiega il fatto che nella quotidianità media dell’essere nel mondo l’esserci è sempre con-gli altri, senza però distinguersene, ma partecipando a quella sfera della “pubblicità”, cioè della vita livellata e omologata pubblicamente, in cui nessuno è veramente se stesso e tutti seguono quello che “si dice” o “si pensa” o “si fa” comunemente. Anche questa spersonalizzazione dell’individuo nella neutralità della massa è però un fenomeno originario (o meglio, un “esistenziale”), e non può essere liquidato come una mera tendenza negativa: anzi, perché l’esserci possa appropriarsi a “se stesso” deve sempre, necessariamente, attraversare la dispersione del “si stesso”, e l’autenticità potrà essere raggiunta solo come un contro-movimento rispetto all’inautenticità.
Quando dunque si pronuncia il nome esserci si intende sempre l’“in-essere” o meglio l’“essere-nel” mondo, non come la sua chiusura in qualcosa di determinato e insuperabile, ma al contrario come la sua “apertura”: “l’espressione ‘ci’ significa questa essenziale apertura” (Essere e tempo, § 28) nel senso che l’esserci apre la possibilità del mondo, con tutti i suoi molteplici significati: l’esserci non si apre a qualcosa d’altro da sé, ma coincide esso stesso con la sua apertura. Questo “ci” non lo si è mai una volta per tutte, come una struttura naturale innata, ma si ha sempre da-esserlo: cioè l’esistenza non “è”, se non esistendo, fuoriuscendo dalla realtà effettiva verso la possibilità.
Heidegger indica due modi fondamentali in cui l’essere sperimenta il suo “in-essere”, ossia la sua apertura, e cioè il sentirsi situato e il comprendere. Il sentirsi situato è quello “stato d’animo” o “tonalità emotiva” fondamentale con cui l’esserci si avverte assegnato a se stesso, e cioè consegnato al mondo. Heidegger lo definisce anche l’“esser-gettato” dell’esserci. Ma ciò in cui esso è gettato non sono semplicemente le cose e le situazioni del mondo (cioè i condizionamenti della vita), ma al contrario il fatto di non poter mai essere qualcosa di determinato, ma di poter solo aver-da-essere. In questa fatticità costitutiva dell’esserci esso si sente irrimediabilmente se stesso, senz’alcuna provenienza e senz’alcuna finalità che sia altro dal proprio stesso nudo esistere.
Ma già in questa “gettatezza” si evidenzia un contro-movimento: l’esserci infatti non è solo destinato ad aver-da essere se stesso ma, in quanto tale, progetta le sue possibilità, non solo in quanto ha dei progetti o pianifica l’esistenza, ma più radicalmente perché il suo stesso essere ha la modalità del comprendere e del progettare. Questa tendenza alla comprensione viene chiamata da Heidegger “esistenzialità” e consiste nel fatto che l’esserci ha il carattere della possibilità. Quest’ultima però non va intesa in senso “modale” (cioè il possibile come il non ancora realizzato o l’opposto del necessario), bensì in senso esistenziale: “l’esserci è la possibilità dell’esser libero per il più proprio poter essere” (Essere e tempo, § 31), cioè dell’esistere in vista di sé; ma il “ciò-in-vista-di-cui” l’esistenza si progetta non è altro che la comprensione del proprio essere come gettato nel mondo, con gli altri esserci e presso gli enti che si incontrano nel mondo. Così, l’esserci è sempre un “progetto gettato”, è sempre “più” delle sue determinazioni come ente, ma “mai di più di quanto fattualmente sia” (ivi). L’esserci, insomma, non è mai più di se stesso.
Solo in quanto l’esserci comprende il proprio essere come gettato nel mondo può comprendere gli enti intramondani, interpretando il senso del loro essere (che, come si è detto, può essere l’utilizzabilità, la semplice presenza sottomano o l’essere degli altri esserci). E più in particolare, è solo all’interno di questa apertura del “ci”, cioè nel progetto gettato dell’esserci, che la comprensione si articola come un “discorso” e un “linguaggio”.
Ma con l’analitica dell’esistenza Heidegger non vuole semplicemente descrivere una struttura ontologica determinata una volta per tutte, bensì il suo accadere, il suo pervenire a se stessa, e quindi anche il suo perdersi. Per questo, accanto alla fatticità (esser-gettato) e all’esistenzialità (comprensione e discorso), egli individua come terza dimensione ontologica dell’esserci il “decadimento”, che intende come il “modo fondamentale dell’essere della quotidianità”, in cui l’esserci “si è già sempre dismesso da se stesso come autentico poter-essere, ed è decaduto nel “mondo” (Essere e tempo, § 38), smarrendosi negli enti di cui si prende cura. Heidegger ha descritto questa condizione ontologica del decadimento attraverso analisi divenute famose su alcuni fenomeni tipici della quotidianità media, come la “chiacchiera” (cioè comprendere tutto e parlare su tutto presumendo di aver già compreso sin dall’inizio ciò di cui si parla, senza appropriarsene veramente); la “curiosità” (come un volere vedere per il solo gusto di vedere, senza comprendere ciò che è visto) e l’“equivoco” (quando tutto sembra genuinamente compreso, afferrato ed espresso, e invece non lo è; oppure non sembra tale ma lo è).
Il decadimento non va confuso con l’esser-gettato: quest’ultimo infatti è la modalità autentica con cui l’esserci accade, appropriandosi a se stesso, mentre il primo è la modalità inautentica (benché anch’essa originaria e “positiva”) con cui l’esserci accade disappropriandosi da se stesso. Il vero problema dell’analitica dell’esistenza è quello di considerare come una “unità ontologica” i fenomeni della fatticità, dell’esistenzialità e del decadimento: e si tratta di un problema appunto perché non si può riunificarli in base a concetti esterni a questi stessi fenomeni, ma immedesimandosi con il modo in cui l’esserci si comprende o non si comprende in se stesso e da se stesso.
La via scelta da Heidegger consiste nell’individuare un’esperienza fondamentale dell’esserci, in cui tale unità possa emergere, vale a dire lo stato d’animo fondamentale dell’“angoscia”. Non si tratta di considerare l’esserci dal punto di vista “emotivo” o “affettivo” rispetto ad altri punti di vista o facoltà “intellettuali” o “razionali”. L’angoscia è una tonalità emotiva prettamente ontologica, in cui l’esserci si “accorda” alla sua situazione più propria: a differenza dalla paura, che esprime sempre il timore per qualcosa di determinato, e costituisce una fuga davanti a un ente minaccioso, l’angoscia invece è una “fuga dell’esserci davanti a se stesso, in quanto poter-essere-se-stesso autentico”, cioè una fuga dallo stesso essere-nel-mondo come tale. Ciò davanti-a-cui l’angoscia retrocede non è questo o quell’ente ma è il suo nudo esser-gettato nel mondo, che lo fa sentire spaesato in mezzo a tutti gli enti intramondani e del tutto isolato in se stesso. Nella quotidianità dispersiva, infatti, l’esserci si “tranquillizza” aggrappandosi di volta in volta agli enti intramondani e sentendo se stesso a partire da essi; è proprio quando si appropria di se stesso, invece, che l’esserci avverte l’angoscia, data dal fatto che il suo poter-essere non troverà mai compimento in nessuna realizzazione ontica: l’esistenza non potrà mai realizzarsi come essere-utilizzabile o presente-sottomano. E quindi, paradossalmente, proprio in quanto è-nel-mondo l’esserci è ontologicamente solo se stesso e solo in se stesso.
Facendo leva sulla tonalità emotiva dell’angoscia Heidegger ritiene di poter cogliere la costituzione unitaria dell’essere dell’esserci, nella coappartenenza originaria delle sue tre dimensioni ontologiche fondamentali:
1) essere-avanti-a-sé: l’esserci è l’ente che comprende l’essere, e in questo senso esso è un progetto che “è già sempre ‘al di là di sé’; non in quanto si comporta rispetto ad altri enti diversi da sé, ma in quanto essere-per il poter-essere che esso stesso è”;
2) essendo-già-in-un-mondo: l’esserci comprendente l’essere non è mai “un soggetto “senza mondo”, ma “è già da sempre gettato in un mondo”;
3) esser-presso gli enti intramondani: l’esistere fattuale “è anche già sempre immedesimato con un mondo di cui si prende cura”, e in questo esser-presso esso decade, cioè fugge dalla sua fatticità.
Questa struttura ontologica, “essere-avanti-a-sé-già-in (un mondo) in quanto esser-presso (l’ente che si incontra nel mondo)” è definita dal termine “cura” (Essere e tempo, § 41). Questa struttura dell’esserci porta però dentro di sé un problema aperto, ancora non risolto: come si concilia il fatto che l’esserci è una “totalità unitaria” e al tempo stesso esso è un ente che manca sempre di qualcosa (cioè è sempre un aver-da-essere)?
Heidegger cerca di risolvere questo delicato problema, partendo ancora una volta dalla motilità propria dell’esserci, il cui essere non è già-dato una volte per tutte, ma consiste nel pervenire a se stesso, nell’appropriarsi di sé. Così, l’essere una totalità, da parte dell’esserci, dev’essere inteso come una possibilità, e cioè come il suo “poter-essere-un-tutto” (Essere e tempo, § 46). Come si fa a comprendere e a sentire la vita come una totalità compiuta, se ancora non si è giunti alla propria fine? Solo “alla fine” questo potrà realizzarsi. E d’altra parte, quando l’esserci giunge alla fine (cioè quando muore) egli semplicemente cessa di esistere. Bisognerà dunque riconoscere secondo Heidegger che l’“essere alla fine” dell’esserci non è qualcosa che non c’è ora e accadrà in seguito, ma è una struttura ontologica tipica dell’esistenza, che va intesa dunque – in quanto tale – come un “essere per la fine”, e più radicalmente come un “essere-per-la-morte”. In senso ontologico-esistenziale (e non certo in senso biologico) la morte sta a significare che il mancare è la possibilità più propria dell’esserci: non il mancare di qualcosa, ma il mancare come differenza del proprio essere dall’essere degli enti intramondani.
In sintesi, l’essere per la morte non ha niente a che fare con il fatto che prima o poi dobbiamo morire, ma è una caratteristica peculiare dello stesso esserci vivente, che proprio in quanto esiste “precorre” la morte. Qui ci troviamo di fronte all’unico caso in cui l’essere per una possibilità non mira alla realizzazione di quest’ultima, ma a mantenerla proprio come possibilità. In termini più espliciti, l’essere-per-la-morte significa che l’esserci è un ente che non si può realizzare come tutti gli altri enti, e la cui realizzazione coincide dunque con la sua impossibilità. Nel precorrimento della morte si svela “la possibilità dell’incommensurabile impossibilità dell’esistenza”.
Ma se l’essere-per-la-morte evidenzia la possibilità dell’esistenza autentica, come si spiega il fatto che quotidianamente tale possibilità è coperta e occultata dalla distrazione dei nostri commerci con l’ente e nella dispersione della pubblicità? E soprattutto, come si potrà invertire la tendenza inautentica e tornare ad appropriarsi autenticamente di sé? Lo si può fare, afferma Heidegger, solo con una “decisione” dell’esserci stesso, assumendo l’angosciosa libertà per la morte – cioè per la propria impossibilità – come una “decisione” autentica, che lo porta a precorrere o anticipare la morte. Solo in questa “decisione anticipatrice”, in cui l’esserci risponde a qualcosa come la “voce della coscienza”, esso esiste in maniera radicalmente propria, cioè autentica.
In questa decisione per se stesso come impossibile possibilità, emerge il senso più profondo (e normalmente più nascosto) della motilità dell’esistere, vale a dire la temporalità. Le tre dimensioni ontologiche unificate nella cura – dimensioni che l’esserci ha-da essere costantemente passando dall’inautenticità all’autenticità – corrispondono alle tre “estasi” del tempo: passato, presente, futuro.
1) L’esserci è sempre un “avanti a sé”, cioè perviene a se stesso in base al progetto del suo più proprio poter-essere, e questo “lasciarsi pervenire a se stesso” è “il fenomeno originario dell’ad-venire” (Essere e tempo, § 65). Questo vuol dire che il futuro non è il momento in cui l’esserci perverrà a se stesso, perché esso vi è già sempre pervenuto, semplicemente esistendo (come aver da-essere). L’esserci “è” quindi costitutivamente il proprio “futuro”.
2) Il progetto dell’esserci perviene a se stesso come all’esser-gettato nel mondo, ma “l’assunzione dell’esser-gettato è possibile solo per il fatto che l’esserci ad-veniente [futuro] può essere il suo più proprio “come già sempre era”, cioè il suo esser-“stato” [passato]”, facendo così scaturire il passato dall’avvenire.
3) Il pervenire a se stesso che ritorna all’esser-gettato si struttura come un esser-presso gli enti che si incontrano nel mondo, ma “l’attivo lasciar venire incontro ciò che si presenta nel mondo, è possibile solo in una presentazione di questo ente”, e cioè nell’orizzonte di un originario “presente”.
Come sappiamo già dai primi corsi degli anni Venti, per Heidegger l’esserci è temporale, non semplicemente perché esiste nel tempo, ma perché la temporalità è il suo stesso modo d’essere: l’esistenzialità è originariamente l’ad-venire del futuro; la fatticità è costitutivamente l’esser-stato del passato; il decadimento è strutturalmente il presentarsi del presente. Ognuna delle tre dimensioni temporali è letteralmente un’“estasi”, vale a dire una “fuoriuscita” (in greco ekstatikòn) permanente verso le altre: segno che l’esserci è l’ente “trascendente” per eccellenza, nel significato specifico che trascende sempre se stesso verso se stesso. Così, a livello esistenziale, la successione ordinaria del tempo (passato-presente-futuro) viene capovolta: è dal futuro (cioè dalla possibilità dell’impossibilità) che scaturisce il tempo.
Il senso temporale dell’essere dell’esserci è ciò che emerge anche da una ripetizione dell’analisi della quotidianità media dell’esserci (e quindi viene attestato pure dalla condizione dell’inautenticità): questo permette di comprendere la concezione ordinaria del tempo legata agli enti intramondani (vale a dire il tempo degli orologi), e costituisce infine la matrice per un’adeguata comprensione della storia (intesa innanzitutto come la “storicità” temporale dell’esserci, che è la chiave per interpretare anche la grande storia del modo).
La fine della prima parte di Essere e tempo (quella che doveva portare dalla temporalità dell’esserci al tempo come significato originario dell’essere stesso) e l’intera seconda parte (dedicata alla Distruzione della storia dell’ontologia) non saranno più pubblicate, anche se alcuni corsi universitari alla fine degli anni Venti, come I problemi fondamentali della fenomenologia (1927) e Kant e il problema della metafisica (1929) ne costituiscono un abbozzo. Dall’inizio degli anni Trenta, invece, il pensiero di Heidegger comincia a maturare quella che egli stesso, nella celebre Lettera sull’“umanismo” del 1946, ha definito come una “svolta”.
Rispondendo a una domanda postagli da Jean Beaufret – “Come ridare un senso alla parola “umanismo?”, particolarmente avvertita nella cultura europea dopo la seconda guerra mondiale, specie nell’ambito del pensiero esistenzialistico – Heidegger insiste sul fatto che il concetto stesso di “umanità” è del tutto inadeguato a cogliere l’essenziale livello ontologico che contrassegna l’ente-uomo. In tutte le varie interpretazioni dell’umanità (dall’antichità classica sino al Novecento) si è sempre partiti da “un’interpretazione già stabilita della natura, della storia, del mondo, del fondamento del mondo, cioè dell’ente nella sua totalità” – e quindi da una metafisica.
Qui il termine “metafisica” indica la tradizione in cui viene dimenticata la questione della verità dell’essere, vale a dire “l’essere come tale” o “la differenza tra l’essere e l’ente”. Tuttavia, per poter riproporre tale questione non basta abbandonare la metafisica (dato che anche le posizioni anti-metafisiche rimangono sempre all’interno dell’oblio “metafisico” della verità dell’essere), ma si deve andare al fondo nascosto di essa, per pensare – dentro la metafisica – ciò che la metafisica stessa non ha pensato o ha impedito di pensare.
Se dunque con l’analitica dell’esserci Heidegger aveva pensato l’uomo in maniera diversa dalla tradizione metafisica, alla fine egli aveva scoperto che la metafisica in realtà coincide con l’esserci stesso, il quale – proprio come la tradizione metafisica – dimentica e dà per scontato il senso originario dell’essere, ma al tempo stesso ne riapre continuamente la domanda. Così l’esserci va reinterpretato come il luogo di apertura della verità dell’essere – o come Heidegger si esprime, della “radura dell’essere”. Questo, scrive Heidegger 20 anni dopo la pubblicazione di Essere e tempo, ha impedito di passare dalla seconda alla terza sezione della prima parte dell’opera: “Qui tutto si capovolge. La sezione in questione non fu pubblicata perché il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato questa svolta e non ne veniva a capo con l’aiuto del linguaggio della metafisica”. Ma “questa svolta non è un cambiamento del punto di vista di Essere e tempo”, bensì l’accesso a quell’esperienza fondamentale da cui era nascostamente partita l’opera maggiore, e cioè l’esperienza dell’“oblio dell’essere” (Lettera sull’“umanismo”).
L’oblio dell’essere non è però soltanto una dimenticanza dei filosofi ma un carattere essenziale della metafisica intesa come l’accadimento dell’uomo. In altri termini, esso non è un solo un modo sbagliato o insufficiente di comprendere l’essere, ma fa parte essenziale della sua verità. Perciò si potrà passare dall’oblio dell’essere al “pensiero dell’essere”.
Il punto in cui – sempre a detta di Heidegger – questa “svolta” dalla questione sul senso dell’essere alla questione sulla verità dell’essere si è prodotta sono due scritti risalenti al 1930-1931, anche se pubblicati successivamente. Nel primo – il testo rielaborato di una conferenza sul tema Dell’essenza della verità – Heidegger parte dalla concezione tradizionale della verità come adaequatio rei et intellectus, intesa in maniera ormai ovvia come la conformità di una cosa data al concetto della sua essenza pensato dalla ragione ed espresso in un’asserzione logica.
Ma in base a che, si chiede Heidegger, un’asserzione può concordare con una cosa, visto che si tratta di due enti diversi tra loro, vale a dire una “rappresentazione” conoscitiva e la cosa stessa rappresentata? In realtà, l’apparire della cosa che noi asseriamo vera “si attua entro un aperto, la cui apertura non è creata dal rappresentare”, ma è resa possibile da un “rapporto” più originario, quello che Heidegger chiama il “comportarsi” (da non intendersi in senso morale, ma come la stessa apertura costante in cui qualcosa può venirci incontro). È quest’“aperto”, non l’asserzione, il luogo proprio della verità, ed è solo nel comportarsi che nasce l’accordo tra l’asserire rappresentativo e la cosa: esso si origina nel nostro “essere liberi per ciò che è manifesto in un’apertura”, tanto da fare dire ad Heidegger che “l’essenza della verità, compresa come conformità dell’asserzione, è la libertà” (Dell’essenza della verità, § 3).
Se noi concepiamo la verità come qualcosa di “imperituro ed eterno” e la libertà come il mero “arbitrio dell’uomo” questa affermazione può sembrare contraddittoria, ma bisogna provare per Heidegger a cambiare il nostro modo di pensare, e intendere la libertà come “il lasciar-essere l’ente”, e la verità – seguendo l’etimologia del termine greco alétheia, composto di alfa privativo (=non) e lethe (=nascondimento) – come “dis-velamento” o “svelatezza”. Quest’ultima va intesa come “un venire alla presenza che si schiude” da parte dell’ente in totalità, ed è “custodita” nell’esistenza dell’uomo, e cioè dalla sua stessa libertà, come “il lasciarsi coinvolgere nello svelamento dell’ente in quanto tale”.
Questa considerazione della verità porta con sé due importanti conseguenze: la prima è data dal particolare rapporto che vige tra l’uomo e l’essere, che non è più inteso da Heidegger nei termini della “comprensione” di cui parlava Essere e tempo, ma piuttosto come lo stare esposti nell’aperto del disvelamento. La seconda è che custodire la verità da parte della libertà dell’esserci, non vuol dire solo permettere all’ente di venirgli incontro, ma anche e soprattutto lasciare nel nascondimento – cioè nella “velatezza” – l’ente in totalità, vale a dire l’essere stesso. Si tratta di una delle idee più caratteristiche del pensiero heideggeriano dopo la “svolta”, e cioè che la verità non coincide mai solo con il manifestarsi delle cose, ma – attraverso e dentro quest’ultimo – anche con il manifestarsi di un non-manifestabile, dello svelarsi di ciò che resta velato, non nel senso che passi dal velamento allo svelamento, ma nel senso che esso si disvela proprio in quanto velato. In termini paradossali, bisogna dunque affermare, secondo Heidegger, che al fondo della verità vi è una “non-verità” che non è opposta alla prima, ma al contrario appartiene alla sua essenza e ne costituisce il suo originario “mistero”.
In una originale lettura del mito della caverna, narrato da Platone nella Repubblica, Heidegger vi ritrova il momento epocale del passaggio dalla concezione della verità come “svelatezza” (alétheia) a quella di verità come idèa, “visività”, in cui si compie ogni apparire degli enti. “Le idee sono ciò che ogni ente è”, e “l’idea di tutte le idee consiste nel rendere possibile l’apparire di tutto ciò che è presente in tutta la sua visività”. E difatti il “bene” (cioè la massima idea) sarebbe per Platone “ciò che fa risplendere tutto ciò che può risplendere” (corsivo nostro). In questo si produce il fatto più decisivo dell’intera tradizione metafisica: “l’idèa diviene padrona dell’alétheia”.
A partire da questo spostamento inizierà ad affermarsi una concezione del vero sempre più identificato con ciò che è “corretto” all’interno di un’asserzione, quindi come un prodotto delle nostre rappresentazioni. Heidegger vi trae una conclusione che poi continuerà ad approfondire negli anni seguenti: da Platone, attraverso Tommaso e Descartes, per arrivare sino a Nietzsche, la correttezza del rappresentare e il riferimento alle idee come “valori” costituisce il tratto caratteristico dell’“umanità occidentale”, come la massima dimenticanza del “mistero” dell’essere, cioè del suo velamento. Agli occhi di Heidegger, “quel mutamento dell’essenza della verità è presente come la realtà fondamentale della storia universale del globo terrestre che avanza verso la fase estrema dell’epoca moderna”; questa realtà “domina ogni cosa”, ed è dovuta a “una decisione sull’essenza della verità che non dipende dall’uomo, ma è già stata presa in precedenza”.
Questa concezione della verità costituisce il cuore di quell’opera “segreta” che Heidegger redasse per se stesso tra il 1936 e il 1938, sotto il titolo di Contributi alla filosofia (Dell’evento) concependola come la sperimentazione di un pensiero “altro” – sia nella genesi che nelle categorie – rispetto alla metafisica.
L’idea fondamentale seguita da Heidegger nei Contributi è che si debba concepire l’essere non più, metafisicamente, come la “presenza” dell’ente, ma come un accadimento che si sottrae all’esser-presente e anche alla comprensione che può averne l’uomo (inclusa la comprensione dell’essere di cui parlava Essere e tempo): giunti infatti alla fine della metafisica, cioè al momento del suo dominio più pieno (che vuol dire, come vedremo, l’epoca del nichilismo), il pensiero scopre che gli enti sono stato “abbandonati” dall’essere, e che grazie a questo abbandono si può imporre il dominio degli enti, cioè la riduzione del mondo a calcolabilità, macchinazione, organizzazione tecnica, il cui rovescio sta nell’imporsi della cultura, dell’antropologia e dei valori, come schemi di occultamento della verità.
Ma quello che Heidegger vuole proporre non è un’ennesima analisi sulla “crisi” dell’epoca moderna, quanto piuttosto individuare, proprio nell’abbandono degli enti da parte dell’essere (cioè nella mancanza di un senso del mondo che sia altro dall’imporsi dell’ente-presente, rappresentabile e manipolabile) un tratto essenziale della verità nascosta dell’essere, che consiste proprio nel ritrarsi rispetto all’ente. Non è che l’essere se ne vada da qualche altra parte o resti nascosto in un luogo sottratto alla nostra vista, che dunque noi dovremmo riconquistare: piuttosto l’essere “è” o meglio “si essenzia” nel “sottrarsi” (l’“essenza” viene qui pensata da Heidegger in senso verbale, come il movimento di un darsi che non si può chiudere e determinare mai un “dato”). In poche parole, il pensiero dell’altro inizio pensa l’essere non come qualcosa che si ritrae ma come la stessa ritrazione o sottrazione, e quest’ultima, tuttavia, non come un’assenza, ma come il misterioso appello rivolto all’uomo: come il modo in cui l’essere stesso si appropria dell’(all’)uomo e l’uomo può appropriarsi di se stesso.
Per indicare che il termine “essere” (Sein) significa ormai qualcosa di diverso rispetto alla tradizione metafisica, Heidegger lo scrive qui secondo la grafia arcaica (Seyn); ma anche l’“esserci” non va più pensato come l’ente comprendente o “progettante” l’essere, ma come la “radura per il nascondersi” dell’essere, luogo in cui viene custodito l’evento del ritrarsi dell’essere, cioè la sua verità. E difatti nella già citata Lettera sull’“umanismo”, per chiarire la “svolta” del suo pensiero, Heidegger dirà che l’“esser gettato” di cui parlava l’analitica esistenziale è dovuto al fatto che l’esserci è nel “getto” dell’essere stesso, cioè è proprio quest’ultimo a gettarlo in quello che esso è.
Perciò se da un lato bisogna “oltrepassare” (überwinden) la metafisica, andando oltre le sue modalità di pensare l’essere a partire dall’ente (e con ciò dimenticarlo), dall’altro non si potrà mai fuoriuscire dal suo oblio, né strappare all’oblio qualcosa che è stata obliata. Se l’oblio custodisce la ritrazione dell’essere (o meglio, l’essere come ritrarsi continuo), allora la metafisica andrà solo “superata” (verwinden), così come si dice che si è superata una fase critica o ci si è rimessi da una malattia o si è mandata giù una difficoltà. In poche parole: ciò che si deve pensare è lo stesso oblio che si verifica nella metafisica.
Se la verità dell’essere è ciò che fonda ogni epoca storica determinandone il tratto essenziale e il destino necessario, qual è il tratto della nostra epoca, e quale il suo destino?
Il tratto essenziale della nostra epoca consiste nel carattere metafisico e il suo destino sta nella tecnica, intesa come il compimento della metafisica come nichilismo. Contrariamente a quanto si pensa abitualmente, la tecnica per Heidegger non è una semplice conseguenza delle applicazioni della scienza al mondo della natura, bensì costituisce un tratto caratteristico dell’essere degli enti nell’epoca della metafisica. Analogamente a quello che dirà anche del nichilismo, la tecnica che domina il mondo occidentale non inizia per Heidegger quando tramonta l’antica concezione metafisica della realtà, ma appartiene all’essenza stessa di tale concezione, e quindi il suo dominio pervasivo altro non è che il compimento della metafisica.
La nostra epoca è chiamata l’epoca della tecnica in virtù di un’organizzazione sempre più pianificata del mondo, come strumento di una manipolazione calcolata della realtà naturale e di quella culturale e sociale da parte dell’uomo. Ma la funzione strumentale e la finalità antropologica della tecnica non sono assolutamente sufficienti a penetrare nella sua essenza. La vera questione per Heidegger non riguarda ciò che un’umanità storica vuole realizzare con la tecnica e neppure qual è la responsabilità di tipo morale degli uomini di fronte alle sempre più estese applicazioni della tecno-scienza. Piuttosto ci si deve chiedere come si dà l’essere nell’epoca della tecnica dispiegata, e quale appello esso rivolge all’uomo.
Poiché la tecnica è un modo del disvelamento della verità dell’essere, l’essenza della tecnica non è qualcosa di tecnico. La tecnica moderna per Heidegger è anzitutto “un modo del disvelare”, che non consiste semplicemente nella produzione delle cose, ma piuttosto “provoca” l’uomo a rapportarsi agli enti identificando il loro svelamento con l’utilizzo che se ne può fare come materiale d’uso, riserva da sfruttare per la costruzione, “fondo” accumulato per l’impiego. L’insieme di tutti i modi in cui l’uomo è chiamato a “porre” (stellen), disporre (bestellen), produrre (herstellen), e così via, in riferimento alla natura intesa come fondo (Bestand) utilizzabile, viene chiamato da Heidegger il Ge-stell, che potremmo tradurre come “impianto” o “imposizione”.
Ciò significa che tutte le nostre attività, i progetti e le macchinazioni sono prese già dentro un appello dell’essere. Questo appello è pericoloso e ambiguo, perché da un lato l’umanità occidentale sembra essersi totalmente dispersa nella frenesia della tecnica, senza poter più ritrovare la sua essenza, dimenticando quel nascosto che lascia disvelarsi gli enti (cioè l’essere stesso); ma dall’altro lato proprio nell’imposizione tecnica si manifesta che l’oblio dell’essere non è la conseguenza del dominio manipolativo dell’uomo, ma costituisce un modo originario di dis-velarsi dell’essere – appunto come obliato. E quindi, paradossalmente, nel domino tecnico del mondo, nella riduzione di tutto a calcolo, si rende presente un più originario dominio dell’essere stesso, quell’“incalcolabile” che si cela in ogni disvelamento dell’ente impiegato dall’impianto.
Heidegger dunque non rifiuta affatto la tecnica; al contrario, invita ad approfondire il mistero ambiguo che essa veicola, perché proprio attraverso l’“impianto” può tralucere nella nostra epoca la verità dell’essere. Bisogna dunque pensare che “l’essenza della tecnica alberghi in sé la crescita di ciò che salva”, e quindi guardando a fondo l’impianto – inteso come un destino del dis-velamento – potrà forse “apparire nel suo sorgere ciò che salva” (secondo il verso famoso di Hölderlin, secondo cui “dov’è il pericolo cresce anche ciò che salva”).
Per Heidegger l’epoca della tecnica dispiegata è anche l’epoca in cui si manifesta l’essenza del nichilismo: un’essenza che non nasce dalla dissoluzione dei grandi sistemi metafisici, ma al contrario è presente sin dall’inizio della storia della metafisica, ed è quasi incubata in essa, nella misura in cui la metafisica si è sempre e solo occupata dell’essere dell’ente, tralasciando la questione dell’essere stesso.
Il nichilismo può essere inteso fondamentalmente in due modi: uno è quello descritto e canonizzato da Nietzsche, come la svalutazione di tutti i valori; l’altro è quello che cerca di cogliere la sua essenza metafisica. Nietzsche stesso, secondo Heidegger, con la sua concezione del nichilismo (e del superamento di esso) ha pensato esplicitamente quel tratto fondamentale della metafisica occidentale che è la riduzione dell’essere a ente e della verità dell’ente a valore. Non solo dunque i vecchi valori svalutati, ma anche i nuovi valori posti dalla volontà di potenza (quali la vita potenziata al massimo del superuomo o l’eterno ritorno dell’eguale o l’opera d’arte) rimangono essenzialmente metafisici. E proprio il “nichilista perfetto” Nietzsche, colui che aveva ingaggiato una lotta senza quartiere contro Platone, responsabile a suo dire di aver inventato l’idea di una verità soprasensibile, è considerato da Heidegger come “il platonico più sfrenato della storia della metafisica occidentale” (La dottrina platonica della verità).
La storia del nichilismo e la storia della metafisica si coappartengono in maniera essenziale, o meglio la prima costituisce il movimento nascosto all’interno della seconda: se la metafisica infatti è la storia della dimenticanza dell’essere, il nichilismo è “la storia nella quale dell’essere stesso non ne è niente” (Nietzsche, libro II, cap. 7). Qui Heidegger si distacca da tutte le altre concezioni del nichilismo come crisi, perdita, negatività e distruzione: quello che sembrerebbe infatti una perdita è in realtà una possibilità di portare in primo piano quel “niente” che è propriamente l’essere, e cioè permette di pensare paradossalmente ciò che esso stesso nega. Il “nichilismo autentico”, come lo chiama Heidegger, è quello in cui è pensato finalmente ciò che nella metafisica restava “impensato”.
E se finora la metafisica è sempre stata intesa come “onto-teo-logia”, cioè come trattazione dell’ente in quanto ente, e insieme del fondamento dell’ente (individuato sempre in un ente “sommo”), ora essa va pensata come la storia dell’assenza o mancanza dell’essere stesso: esso è quel “sottrarsi” che “reclama l’essenza dell’uomo come l’asilo dell’avvento dell’essere”.
La scelta di non voler superare il nichilismo, ma di insistervi per ritrovare in esso il “luogo” della manifestazione dell’essenza dell’essere in termini di “assenza”, ritorna in un dialogo di Heidegger con lo scrittore e filosofo tedesco Ernst Jünger. Se per Jünger il nichilismo è una condizione di alienazione e di “svanimento” da superare, per Heidegger esso è il “luogo” in cui noi stiamo da sempre in quanto uomini: luogo dell’appartenenza originaria dell’essere e del niente. In quanto tale, “l’essenza del nichilismo non [è] niente di nichilistico”, ma riguarda “l’essenza dell’essere”, e perciò essa potrà essere pensata solo quando “si abbandoni il linguaggio della metafisica”. In breve, questa essenza non-nichilistica del nichilismo consiste nel fatto che tra l’essere e l’uomo vige un rapporto vicendevole, come una coappartenenza di “chiamata” e di “ascolto”: l’uomo è ri-chiamato e re-clamato dall’essere proprio come niente (cioè come ciò che si sottrae rispetto all’ente), e lo serba nel suo ascolto originario. L’essenza del nichilismo è dunque – analogamente a quello che succedeva con la tecnica – la sottrazione dell’essere (per indicare la quale Heidegger usa ora la scrittura). Non si può uscire dall’oblio, ma ci si può raccogliere in esso, quasi affondare nella dimenticanza, perché risuoni l’appello di una voce che non c’è. La salvezza dal nichilismo va dunque intesa da Heidegger come salvezza del nichilismo, cioè la custodia della chiamata silenziosa del niente.