Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il pastore battista Martin Luther King diventa, nella seconda metà degli anni Cinquanta, uno dei principali leader del movimento antisegregazionista dei neri d’America. La sua opera politica, caratterizzata dalla scelta della non violenza, si impone all’attenzione dell’opinione pubblica europea, suscitando un generale sentimento di ammirazione. Negli anni successivi al Nobel per la pace (1964), la sua immagine subisce un leggero appannamento. Dopo il suo assassinio, prende avvio un processo di trasfigurazione mitica che dissolve la sua reale fisionomia storica.
A partire dal dicembre del 1955 la popolazione nera di Montgomery, capitale dell’Alabama, mette in atto un boicottaggio dei mezzi di trasporto pubblico, che si protrae per tutto l’anno successivo. L’iniziativa, promossa dalla sezione locale dell’Associazione Nazionale per il Progresso della Gente di Colore (NAACP), a seguito dell’arresto di Rosa Parks, colpevole di non aver ceduto il posto a un bianco sul bus che la riportava a casa la sera del 1° dicembre 1955, mira a far cessare la segregazione razziale sugli autoveicoli pubblici: una della molteplici forme di discriminazione a danno dei neri. A Montgomery, infatti, come nel resto dell’Alabama, e in quasi tutte le città del Sud degli Stati Uniti, le norme municipali vietano alle persone di colore di accedere ai bar e ai ristoranti, utilizzare i bagni pubblici, bere alle fontanelle, frequentare i teatri, le piscine e altre strutture per il tempo libero, iscriversi negli istituti scolastici, riservati ai bianchi.
I figli degli schiavisti del Sud mantengono i figli degli schiavi ai margini della società americana, privandoli anche, in forza di leggi statali disciplinanti la registrazione nelle liste elettorali, dell’esercizio dei diritti politici che la Costituzione federale, emendata dopo la guerra civile (1865), attribuisce a tutti i cittadini maggiorenni. La durata e il successo organizzativo del boicottaggio antisegregazionista di Montgomery incoraggiano analoghe forme di protesta in altre città del Sud e proiettano la questione razziale statunitense, rimossa dalla cultura politica occidentale, all’attenzione dell’opinione pubblica europea.
I giornali del Vecchio Continente cominciano a dedicare brevi notizie di cronaca al movimento di emancipazione dei neri d’America, soprattutto allorquando i primi coraggiosi tentativi di superare effettivamente la segregazione scolastica, già dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema nel 1954, producono la reazione violenta dei razzisti contro gli studenti neri e la conseguente mobilitazione della polizia e dell’esercito. Quando nel dicembre del 1956 la Corte Suprema giunge finalmente ad affermare l’illegittimità della separazione razziale sui mezzi di trasporto pubblico di Montgomery, nelle pagine dei quotidiani europei appaiono le foto dei passeggeri degli autobus desegregati: bianchi e neri, seduti gli uni accanto agli altri. Nelle didascalie che accompagnano le immagini, non trova spazio il nome dell’uomo che, in quei giorni, l’America non razzista incorona come il principale artefice del successo (e l’America razzista addita già come un nemico da eliminare). È un pastore battista di 27 anni, colto e carismatico: Martin Luther King jr.
Nato ad Atlanta, cresciuto in una famiglia della media borghesia nera, laureato alla Crozer University (Pennsylvania) e addottorato a Boston, nel settembre del 1954 egli si trasferisce con la moglie Coretta a Montgomery, per assumere l’incarico di pastore presso la chiesa battista di Dexter Avenue. L’anno successivo, quando i leader politici e religiosi della comunità nera di Montgomery proclamano il boicottaggio dei bus, King accetta di presiedere la Montgomery Improvement Association (MIA), costituita per supportare, a livello organizzativo, l’iniziativa antisegregazionista.
Sotto la leadership del giovane pastore, che predica dal pulpito l’amore cristiano, invoca lo spirito di fratellanza tra gli uomini e si appella alla coscienza dell’America bianca, la protesta dei neri, pacifica, ordinata e tenace, conquista il sostegno dei bianchi integrazionisti. È un sostegno mediatico innanzitutto, ma anche finanziario; che registra contributi economici di varia provenienza, cui partecipano anche privati cittadini di alcune città europee. Due mesi dopo la conclusione vittoriosa del boicottaggio, l’America liberaldemocratica tributa a King un omaggio che ne amplifica la notorietà: il settimanale newyorkese “Time” gli dedica la cover story.
L’immagine di King accreditata dalla celebre rivista è quella dello studioso e dell’uomo di chiesa, alieno da ogni radicalismo, il cui agire politico si ispira alla parola di Cristo e all’azione di Gandhi; un uomo “che in poco più di un anno è passato dal nulla a essere uno dei più significativi leader della nazione”. Nonostante il rilievo assunto sulla scena politica americana, che continua a crescere negli anni successivi al trionfo di Montgomery, Martin Luther King resta, fino ai primi anni Sessanta, scarsamente conosciuto in Europa, dove passa quasi inosservato l’attentato alla sua vita del settembre 1958. Pochi mesi dopo l’India di Nehru accoglie King, in “pellegrinaggio” nella patria del profeta della non violenza, con gli onori riservati a un capo di Stato.
Nel periodo a cavallo tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, il movimento dei neri statunitensi per la conquista dei diritti civili progredisce in dimensioni, diffusione, radicamento e consapevolezza politica. I pastori protestanti svolgono un ruolo direttivo di primaria importanza. L’opzione non violenta di King, che nel 1957 fonda la Conferenza dei Dirigenti Cristiani del Sud (SCLC), conquista ampi consensi e determina la condotta della battaglia antisegregazionista, che si svolge nelle forme dei boicottaggi, dei sit-in, delle marce di protesta e dei freedom rides (viaggi della libertà), all’insegna dello slogan “black and white together”. La stampa europea non dà grande risalto alla lotta politica dei neri americani, se non quando la brutalità razzista trasforma le manifestazioni pacifiche degli integrazionisti in cruente tragedie. È quanto accade nel 1963 nella città di Birmingham, la “Johannesburg d’America”, dove King si trasferisce nell’aprile di quell’anno per mobilitare la comunità nera (140 mila persone) contro la discriminazione razziale. La repressione poliziesca delle marce di protesta organizzate da King è feroce. Per un mese, Birmingham è sulle pagine di tutti i giornali europei, che raccontano degli arresti di massa, delle cariche contro i manifestanti inermi, dell’uso selvaggio di idranti e sfollagente a scariche elettriche. È un’escalation, diretta dal capo della polizia “Bull” Connor, che raggiunge il suo culmine all’inizio di maggio, quando la “caccia al negro” di Birmingham assume le proporzioni della notizia di prima pagina, illustrata dalle foto di giovani militanti di colore, azzannati da pastori tedeschi aizzati da uomini bianchi in divisa. Settimana dopo settimana, la massa dei lettori europei familiarizza con il nome di Martin Luther King.
Il suo arresto, a differenza dei 12 già patiti negli anni precedenti, non passa questa volta sotto silenzio. Le sue parole di ferma rivendicazione dei diritti costituzionali dei neri, conculcati dalle leggi segregazioniste degli Stati del Sud, trovano spazio in tutte le cronache e colpiscono l’opinione pubblica europea. La sua determinazione nel proseguire la lotta e la sua inossidabile fede nella non violenza suscitano generale ammirazione. L’orrore destato dall’inciviltà della polizia razzista esalta, per contrasto, la figura del leader nero, la cui azione politica, intrisa della carica etica del cristianesimo, comincia ad assumere, nell’immaginario collettivo, un’aura di eroismo.
Pochi mesi dopo, il 28 agosto 1963, le immagini televisive di King, che dalla tribuna allestita di fronte al Lincoln Memorial di Washington rivolge vibranti parole di speranza ai 200 mila della marcia per i diritti civili, entrano nelle case delle famiglie americane ed europee. I corrispondenti da Washington registrano l’ovazione tributata dall’immensa platea al pastore battista. L’anno successivo Martin Luther King sbarca nel Vecchio Continente. Il 14 settembre è accolto con una cerimonia solenne a Berlino Ovest, dove tiene un discorso di fronte a 25 mila persone. Il giorno dopo si sposta nella parte orientale della città, per incontrarsi con il delegato delle chiese della DDR (Repubblica Democratica Tedesca): il coro della Marienkirche intona in suo onore Let my people go, un antico spiritual assunto tra gli inni della protesta nera.
Il 19 settembre il volto di King è nuovamente sulle prime pagine dei quotidiani italiani. Il giorno precedente, infatti, egli è stato ricevuto in udienza privata da Paolo VI, al quale ha domandato il sostegno della Chiesa cattolica per la causa dei neri americani. Il papa, riferiscono i giornali, ha manifestato a King sentimenti di stima, incitandolo a perseverare sulla strada della non violenza. Un mese dopo giunge dall’Europa un nuovo e più alto riconoscimento: King è insignito del Premio Nobel per la pace 1964. Il 10 dicembre, nell’auditorium dell’Università di Oslo, il presidente del Comitato per il Nobel, in un lungo discorso encomiastico, celebra il pastore battista come il “primo uomo, nel mondo occidentale, ad aver mostrato che una battaglia può essere vinta senza la violenza”. Con il Nobel per la pace si radica ulteriormente, in Europa, l’immagine del “Gandhi negro”, che, alla testa di un popolo che rivendica giustizia, si batte disarmato contro un avversario violento, alla cui forza fisica oppone la forza morale del messaggio evangelico dell’amore fraterno.
Alla costruzione di tale immagine contribuiscono anche i libri di King, Stride Toward Freedom (1958) e Strength to love (1963), che cominciano a comparire nei cataloghi degli editori europei, a partire dai Paesi scandinavi fino all’Olanda e all’Italia. Tuttavia il 1964, che si apre con la copertina del “Time” in cui King è proclamato man of the year e si conclude con l’apoteosi di Oslo, e che registra l’approvazione da parte del Congresso degli Stati Uniti del Civil Rights Act, obiettivo primario delle dimostrazioni pacifiche dei neri, è anche l’anno in cui l’Europa comincia a prestare orecchio alle critiche crescenti, da tempo diffuse negli ambienti dell’associazionismo nero (politico, sindacale, religioso e studentesco) nei confronti di King.
È la rivolta di Harlem, che apre la stagione delle estati violente nei ghetti metropolitani del nord, a sollecitare nuovo interesse e nuovi interrogativi da parte degli osservatori europei riguardo alla questione razziale statunitense (1964-1968). Le inchieste giornalistiche, ben più accurate delle superficiali cronache dal Sud razzista ora che il problema dei neri è esploso nel cuore civile dell’America liberaldemocratica, additano le profonde piaghe di una realtà sociale in cui l’assenza della segregazione legale non equivale affatto all’integrazione razziale: pari nei diritti, i neri delle grandi città del Nord restano lontanissimi dall’uguaglianza nelle opportunità rispetto ai bianchi. Anzi, sul piano del tenore di vita, il divario tra i due gruppi cresce anno dopo anno. La scoperta di questa realtà da parte dei media europei si accompagna, negli anni seguenti, a un ridimensionamento dell’immagine di King. La sua azione politica appare meno significativa. La sua leadership mostra i segni di un rapido declino. I suoi successi e le sue conquiste sono giudicate parziali o addirittura inconsistenti. Nel 1965, l’agosto di sangue di Los Angeles, dove i neri del ghetto di Watts insorgono in massa, rinforza, anche in Europa, gli argomenti e lo slancio polemico dei critici di King, che lo accusano di aver sprecato dieci anni di militanza politica mirando a obiettivi inidonei a produrre un reale miglioramento delle condizioni di vita dei neri. Al di là dei giudizi più ostili, dal momento in cui il Congresso accoglie le istanze del movimento per i diritti civili e lo scenario del conflitto razziale si sposta al Nord, Martin Luther King, l’uomo della lotta contro il segregazionismo degli Stati del Sud, comincia ad apparire a molti commentatori della vicenda politica americana come un personaggio sorpassato: il protagonista di una stagione conclusa.
La radicalizzazione della protesta nera, che periodicamente attizza nei ghetti la fiamma della guerriglia urbana, accresce l’influenza e la visibilità dei leader più estremisti. Quando il 21 febbraio 1965, una scarica di proiettili abbatte Malcolm X, strenuo oppositore degli ideali di integrazione razziale e dei metodi non violenti kinghiani, questi è all’apice della popolarità tra i neri degli slums. La sua eredità ideologica, che sollecita a concepire il problema razziale statunitense all’interno della realtà globale del dominio e dello sfruttamento coloniale capitalistico, è raccolta dal leader studentesco Stockley Carmichael, il quale nel giugno del 1966 lancia lo slogan “Black Power”, che rapidamente si diffonde tra quanti si riconoscono nel richiamo all’identità nera e nell’apologia della violenza come indispensabile strumento di lotta politica contro un sistema di oppressione basato sulla violenza.
Nello stesso anno, in California, Huey P. Newton e Bobby Seale fondano il rivoluzionario Black Panther Party. I nuovi soggetti dell’associazionismo politico nero si collocano su posizioni antitetiche rispetto a quelle di King, del quale sottolineano polemicamente l’appartenenza all’establishment, la subalternità culturale all’élite bianca, la funzione strumentale della sua leadership moderata rispetto alle esigenze di conservazione politica del potere bianco. Questa rappresentazione di King, codificata nella pubblicistica e nella retorica politica del radicalismo separatista nero già dai primi anni Sessanta, trova un potente riverbero in Europa nella seconda metà del decennio, dove precipita, talora, nella liquidazione sarcastica dello “Zio Tom” o del “leader nero per conto dei bianchi”. È all’interno dell’universo dell’estrema sinistra europea, ribollente di tensioni rivoluzionarie, di pulsioni volontaristiche, di istanze egualitarie, di ideali antimperialistici, di passioni terzomondiste, che l’americano “integrato” King comincia a essere visto con lo sguardo “apocalittico” dell’internazionalista Malcolm X. Gli studenti che nei cortei politici sfilano lungo le strade delle capitali europee, scandendo i nomi di Ernesto Che Guevara e di Ho Ci Minh, non si identificano nel moderato King ma nel rivoluzionario Carmichael, il quale nel 1967 visita il Vietnam del Nord e la Cuba di Castro.
Un simile punto di vista sul movimento politico dei neri americani resta, comunque, nettamente minoritario. Nella considerazione del grande pubblico King continua a incarnare un ideale schiettamente positivo: il giusto che persegue un fine di giustizia con giusti mezzi. Per questo l’assassinio di King, il 4 aprile 1968, desta sconcerto, indignazione e commozione. Da Memphis, la notizia rimbomba sui media europei; diventa il titolo di testa di tutti i quotidiani, che dedicano al tragico evento pagine di commenti e di cronaca anche nei giorni a seguire, quando la rabbia dei neri divampa per le strade delle città statunitensi. I rappresentanti politici dei Paesi europei rendono omaggio alla memoria del leader scomparso, esaltandone la “generosa ed eroica battaglia” per i diritti umani e per la pace. La morte violenta dell’apostolo della non violenza determina l’avvio di un processo di “monumentalizzazione”.
I tributi a King giungono dal mondo della letteratura, della musica e del teatro. I suoi libri si moltiplicano sugli scaffali delle librerie europee. Nel solo 1968, Stride Toward Freedom è tradotto in francese e in tedesco, Why We Can’t Wait (1964) in spagnolo e italiano, Where Do We Go from Here? (1967) in francese, tedesco e spagnolo, The Trumpet of Conscience (1968) in svedese, norvegese, spagnolo, francese e italiano. Più vasta ancora è la circolazione di Strength to love: nella sola Spagna, si contano 12 edizioni tra il 1969 e il 1975 (senza contare quelle in lingua catalana). Intanto proliferano le biografie a carattere agiografico, nelle quali l’esistenza di King appare, come già apparve a Salvatore Quasimodo dopo Memphis, “vicina al modello evangelico”: compresa la morte, che “ricorda la crocifissione”. Col passare del tempo la vicenda umana di King assume la dimensione del mito.
Egli diventa, per i credenti, un simbolo di autentica vita cristiana, per i laici, un’icona del pensiero democratico e progressista. Il “discorso del sogno”, pronunciato a Washington nel 1963, penetra nella memoria collettiva, travalicando il passaggio generazionale. We shall overcome, la “marsigliese della rivoluzione nera”, entra nel repertorio dei canti politici dei giovani europei. Il fascino di una vita vissuta nel nome di un ideale ispira anche la musica leggera. Nel 1984 la celebre rock-band irlandese U2 dedica a King il brano di chiusura (MLK) dell’album Unforgettable fire, la cui canzone di punta (Pride), cantata da milioni di ragazzi di ogni nazionalità, termina con la rievocazione “dello sparo […] nel cielo di Memphis” che stronca la vita dell’uomo venuto “nel nome dell’amore”. La trasfigurazione mitica di King finisce col produrre un’immagine che per la sua irenica perfezione è fatta per piacere a tutti. Lo stesso accade negli Stati Uniti, dove si spalancano per King le porte del pantheon nazionale. Contro la santificazione del leader nero si alza la voce di chi non accetta la mistificazione della sua opera e rifiuta l’ipocrisia del commemorarlo dimenticando chi fu realmente. Anche in Europa nell’ultimo quindicennio del secolo si manifesta il tentativo di restituire a King la sua fisionomia storica, ben più complessa e più radicale, della comoda rappresentazione corrente. Saggisti e biografi, spesso provenienti dall’universo delle comunità evangeliche, si impegnano nella riscoperta dell’“altro King”: il King rimosso e cancellato dei secondi anni Sessanta. È il King, scomodo, della critica al sistema economico occidentale, delle lotte sociali nei ghetti, della militanza politica alla testa degli affamati e dei reietti. È il King, scandaloso, dell’opposizione alla guerra del Vietnam, della dura polemica antimilitarista, della protesta contro i crimini di guerra e della denuncia della guerra come crimine. È il King, pericoloso, che qualcuno volle eliminare.