MARTINO I, papa, santo
MARTINO I, papa, santo. – Nacque a Todi in data imprecisata.
La sua vicenda si configura come un capitolo dei complessi e travagliati rapporti teologico-politico-ecclesiastici tra Costantinopoli e Roma alla metà del sec. VII. Alla luce del suo svolgimento, questa storia dev’essere considerata il risultato di due processi storici che si sovrappongono e interagiscono: da un lato le ultime, grandi controversie cristologiche (dispute sul monoenergetismo e monotelismo); dall’altro, l’assioma dell’unità dell’Impero, principio politico costantemente minacciato dai conflitti sugli orientamenti teologici e dagli scismi religiosi, in un’epoca che non distingueva tra questioni ecclesiastico-religiose e politico-statali.
I problemi teologici e politico-ecclesiastici con cui M. I si misurò affondavano le loro radici nel periodo del pontificato di Onorio I. Quest’ultimo aveva aderito avventatamente alle tesi di Costantinopoli nella spinosa discussione cristologica e, schierandosi così con gli avversari del concilio di Calcedonia, aveva indotto i rappresentanti più autorevoli dell’opposizione orientale (cioè i difensori di Calcedonia) ad adoperarsi subito dopo la sua morte per ottenere da Roma una revisione della posizione da lui assunta, tentativo, questo, che – se coronato da successo – si sarebbe tradotto contemporaneamente in un antagonismo politico di Roma nei confronti di Costantinopoli.
Il primo successo conseguito da questa fazione può essere individuato nell’elezione di Teodoro I, che si adoperò per costituire in Roma un attivo centro dell’opposizione. A tal fine si può supporre che il papa, insieme con Massimo il Confessore, concepì il disegno di assicurarsi l’appoggio di un sinodo regionale, progetto che fallì in un primo tempo per la morte del vescovo di Roma.
Dopo la morte di Teodoro I (14 maggio 649) venne scelto senza indugio come suo successore Martino da Todi, già apocrisario, che fu consacrato il 5 luglio – senza attendere l’indispensabile approvazione di Costantinopoli – appena sette settimane dopo la morte del predecessore. M. I – un atto inconsueto nella sua urgenza – si affrettò a convocare immediatamente un sinodo romano (Le Liber pontificalis, pp.336s.), che si riunì in Laterano il 5 ottobre per concludersi dopo quattro sedute.
Dopo la presentazione degli atti sinodali – che per dimensioni e impianto sono paragonabili ai testi dei concili ecumenici e sono proposti in due lingue – e le parole introduttive del «primicerius», M. I aprì la prima seduta (5 ottobre) con una retrospettiva sulla disputa cristologica dall’epoca di Ciro di Alessandria (412-444) alla rottura delle relazioni. Richiamandosi a passi dei Padri, prese una posizione critica nei confronti dei monoteliti («una volontà in Cristo»), per poi illustrare come l’atteggiamento dei latini rispetto a tale questione fosse stato, in totale contrasto con l’Oriente, coerente e costante (Concilium Lateranense a. 649, pp.2-29). Nella seconda seduta (8 ottobre), con l’apertura delle discussioni vere e proprie, venne ascoltata innanzitutto una relazione di Stefano di Dor, che come una sorta di testamento esponeva la dottrina ortodossa delle «due volontà» nella concezione di Sofronio di Gerusalemme. Seguirono l’acquisizione e la pubblica lettura di una petizione polemica dei monaci greci di Roma contro il Typos del 648, da considerarsi un prodotto mendace del patriarca Paolo II, non dell’imperatore Costante II. Per finire furono acclusi agli atti gli appelli del vescovo di Cipro e dei vescovi africani, dopodiché il papa concluse i lavori (ibid., pp.31-109). Nella terza seduta (17 ottobre) vennero letti e discussi – accompagnati da interventi di M. I – scritti appartenenti al materiale sia degli ortodossi sia dei monoteliti, raccolto a Roma dai monaci greci presumibilmente già sotto Teodoro I (ibid., pp.111-175). Nella quarta seduta (19 ottobre) si continuò dapprima secondo il procedimento consueto, ma in seguito la discussione si estese anche al patriarca in carica Paolo II e al Typos imperiale del 648 (nel Typos si riconosceva un’intenzione positiva, ma il sinodo non era disposto a ignorare i suoi effetti contraddittori). In un secondo tempo, l’attenzione fu rivolta al materiale opposto, quello ortodosso, ai simboli di Nicea, Costantinopoli (I), Efeso, Calcedonia, nonché ai dogmi fissati dal secondo concilio di Costantinopoli. Su questa base Massimo di Aquileia confutò come eresia la dottrina dell’«unica volontà» (ibid., pp.177-245). Nella quinta e ultima seduta (31 ottobre), prima furono presentati e letti i passi dei Padri favorevoli alla dottrina delle «due volontà», ma venne poi dato spazio anche ai passi in senso contrario addotti dagli eretici. Per finire, M. I, procedendo per tesi, mise a confronto le antiche posizioni eretiche con quelle dei monoteliti. I metropoliti di Aquileia-Grado e di Sardegna, nonché il papa, pronunciarono i discorsi finali; il sinodo si concluse con la professione di fede di tutti i partecipanti. I risultati della discussione vennero raccolti in venti canoni-anatematismi, dei quali i canoni X (dottrina delle «due volontà») e XI (dottrina delle «due energie») sono i più significativi (ibid., pp.247-401).
Il lasso di tempo intercorso tra l’elezione di M. I e l’apertura del sinodo – se si getta un pur rapido sguardo sulla mole degli atti sinodali – è stato così eccezionalmente breve che M. I appare, piuttosto che il promotore, colui che porta a compimento un sinodo già ampiamente preparato da Teodoro, da Massimo e dagli altri monaci greci di Roma. È possibile documentare in modo chiaro anche l’influenza di Massimo: è attestato che ventisette delle centosessantuno testimonianze dei Padri raccolte negli atti si trovano anche nei suoi scritti. Inoltre, almeno due dei venti canoni sinodali, nella loro formulazione, sono ascrivibili direttamente a lui, e si tratta significativamente dei canoni X e XI, centrali sul piano teologico (Riedinger, 1982, pp.118s.).
Non era sfuggito neppure alle precedenti ricerche come Massimo avesse preso attivamente parte sullo sfondo, insieme con i monaci greci, ai preparativi del sinodo, sebbene non sia comparso durante le sedute, secondo le informazioni fornite dagli atti. Ma solo grazie alla nuova edizione degli atti medesimi (Acta conciliorum oecumenicorum, s. II, 1) è emerso con chiarezza quanto sia stata ampia e sostanziale la portata dell’influenza di questi monaci. Riedinger è riuscito a fare una scoperta rivoluzionaria: gli atti del sinodo lateranense del 649 non consistono, come si era supposto fino ad allora, in un testo originario in latino con la sua trascrizione autorizzata in greco, bensì in un testo originario in greco, redatto da monaci orientali e trascritto successivamente in latino da membri bilingue della loro cerchia. Nella traduzione degli atti – com’è stato provato in modo definitivo – la direzione procedeva palesemente dal greco al latino e non viceversa (Riedinger, 1976, p.37). Da minuziose ricerche relative al rapporto tra la versione latina e quella greca degli atti si è ricavato che, prescindendo dal 12% di testi originali in latino, per la restante parte complessiva in latino – ossia l’88% degli atti – si tratta di latino tradotto da un originale greco, ad opera di greci bilingue. E all’interno di questo blocco in latino tradotto dal greco bisogna includere anche i discorsi dei partecipanti al concilio, nonché l’epistula encyclica di M. I (in Acta conciliorum oecumenicorum, s. II, 1, pp.404-421; Riedinger, 1982, p.115). Di conseguenza, gli atti del sinodo lateranense del 649 non sono, né dal punto di vista formale, né da quello contenutistico, il risultato di discussioni su punti controversi teologici o politico-religiosi affrontate nel corso di un sinodo, ma formulano piuttosto la posizione teologica dei diteliti, secondo quanto già esposto nelle sue linee essenziali negli scritti di Massimo. Gli argomenti e le posizioni sembrano essere stati semplicemente trasposti nella forma di atti sinodali per assicurarsi il consenso di un sinodo e attribuire così alla propria posizione un significativo e ufficiale peso politico-ecclesiastico (Riedinger, 1981, p.181).
In questa prospettiva si ripropone il problema dell’effettivo svolgimento del sinodo e della parte assegnata a Martino I. In mancanza di una documentazione diretta delle fonti, è corretto avanzare mere ipotesi in proposito. Quindi, in conclusione, non trova risposta l’interrogativo se ai latini, nelle cinque sedute, siano stati letti e in seguito sottoposti alla firma solo i testi latini (tradotti) – senza dibattere i problemi – (Riedinger, 1982, pp.118s.), o se i latini abbiano presentato da sé le loro parti di testo, abbiano partecipato anche alle discussioni durante le sedute e alla fine abbiano apposto la firma in calce a testi i cui contenuti erano loro in ogni modo familiari (cfr. anche Conte, pp.142-146).
L’effettivo svolgimento del sinodo lateranense dell’ottobre 649 – malgrado tutte le controversie sulla sua preparazione – in linea di massima non è mai stata messa in discussione dagli studiosi. Questa posizione trova il suo fondamento nella menzione del sinodo in Massimo, ma anche nella lista autentica delle firme. In considerazione della sua struttura costitutiva, quest’assemblea era palesemente un sinodo provinciale romano, esteso solo ad alcuni altri gruppi di metropoliti d’Italia (malgrado la sua amplificazione a fini propagandistici da parte di Massimo, il quale in seguito parlò di questo sinodo come del VI concilio ecumenico). Tra i partecipanti di altri distretti metropolitani d’Italia si possono documentare solo Massimo di Aquileia-Grado e Deusdedit di Cagliari; Mauro di Ravenna – che all’epoca apparteneva all’ambito metropolitano di Roma – giustificò la sua assenza con le difficoltà che i Longobardi gli creavano nel vescovado. Non erano presenti rappresentanti proveniente dall’area di dominazione longobarda, né dal resto dell’Occidente. Dei vescovi africani solo pochi vengono menzionati come membri dell’assemblea e oltre a costoro è citato in veste di ospite solo Stefano di Dor (Concilium Lateranense a. 649, pp.390s.).
I risultati del sinodo, soprattutto il ripudio dell’Ekthesis e del Typos, ma anche la scomunica dei patriarchi costantinopolitani a partire da Sergio inasprirono enormemente, com’è ovvio, il contrasto fra Roma e Costantinopoli, portando a un’ulteriore politicizzazione del problema. Ciò nonostante, non è a questa circostanza – almeno non ufficialmente – che si devono far risalire i motivi della sorte di M. I (che in seguito fu accusato di alto tradimento, ma non a causa di giudizi politico-ecclesiastici inopportuni o di errori religiosi). Costantinopoli aveva visto – a ragione – la prima insubordinazione di M. I nella sua consacrazione a vescovo di Roma, poiché era avvenuta senza attendere l’approvazione dell’imperatore. E Costante II aveva reagito prontamente. Ancor prima della conclusione del sinodo lateranense (31 ott. 649), Olimpio, da poco nominato esarca d’Italia, era stato raggiunto dalla disposizione imperiale di arrestare M. I con l’aiuto della milizia romana; l’ordine tuttavia non fu eseguito. Infatti Olimpio approfittò del generale clima d’incertezza e – come altri esarchi prima di lui – si dichiarò sovrano d’Italia e restò al potere fino al 652. Durante questo periodo M. I rimase palesemente nella sede episcopale di Roma senza incontrare opposizione, circostanza decisiva che darà all’imperatore l’opportunità di muovere un’accusa di alto tradimento contro Martino I (Le Liber pontificalis, pp.337s.). In base alle fonti non è chiaro fino a che punto M. I fosse coinvolto negli eventi e nei rapporti che accompagnarono l’usurpazione: se intrattenesse stretti legami con il ribelle Olimpio, o se addirittura avesse preso parte attiva al suo insediamento e al suo predominio – come in seguito gli verrà imputato nel processo per alto tradimento – o se, secondo quanto dichiarò in sua difesa (Commemoratio, coll. 593s.), avesse dovuto soccombere inerme all’usurpatore che comandava le milizie di Roma e di Ravenna (i dettagli del successivo destino di M. I, a prescindere da ciò che narrava il Liber pontificalis, poterono essere noti a Roma nella seconda metà del sec. IX soltanto mediante le traduzioni di Anastasio Bibliotecario).
Dopo la morte di Olimpio, che cadde in battaglia contro gli Arabi in Sicilia (652), Teodoro Calliopa divenne nuovo esarca d’Italia e procedette senza indugio contro M. I, considerato reo di alto tradimento sulla base di un’accusa di annosa complicità con Olimpio. Quando Teodoro, il 15 giugno 653, giunse in prossimità di Roma, M. I – presentendo la minaccia – abbandonò la residenza vescovile e, già allora infermo, si ritirò insieme col suo clero al riparo della vicina basilica lateranense. Il giorno seguente, una domenica, l’esarca non eseguì l’arresto perché probabilmente temeva la reazione dei Romani, riunitisi per assistere alla messa in Laterano. Ma lunedì 17 giugno si presentò il chartularius con alcuni altri, per cercare – peraltro senza successo – nella residenza vescovile armi e pietre da getto. In seguito una squadra armata irruppe nella basilica lateranense, abbattendo con gran frastuono candele e lumi sugli altari, e consegnò a presbiteri e diaconi gli ordini scritti dell’esarca: M. I era da considerarsi deposto e doveva essere condotto a Costantinopoli; sarebbe stata effettuata una nuova elezione. A condizione che il suo clero potesse accompagnarlo, M. I si dichiarò pronto a presentarsi nel palazzo del governo sull’Aventino. Da lì, nella notte tra il 18 e il 19 giugno, venne condotto in segreto su una lettiga fino al Tevere e – senza bagaglio né seguito – accompagnato in barca a Porto. Undici giorni più tardi fu raggiunta la base navale di Miseno e il 1° luglio la nave con il prigioniero fece vela verso Costantinopoli. Durante i tre mesi e mezzo di viaggio, passando per Naxos e Abylos, M. I non poté scendere a terra, perché non doveva avere contatti con l’esterno. Solo a Naxos gli fu concesso per la prima volta di fare qualche bagno. Il 17 settembre raggiunsero la città imperiale. Fino a sera il prigioniero, privato della sua dignità, venne lasciato sull’imbarcazione, e poi fu condotto dalle guardie in barella nel carcere di Prandearia, dove seguirono novantatré giorni di isolamento. Il 20 dicembre (venerdì) finalmente fu avviato il procedimento davanti al sacellarius con la partecipazione di testimoni. Dall’interrogatorio si deduce che l’accusa era incentrata esclusivamente sull’alto tradimento («Non inferas nobis hic de fide; de duellio nunc scrutaris», Commemoratio, col. 594) e si evitò accuratamente di far riferimento a problemi teologici e a posizioni di fede. L’interrogatorio si concluse frettolosamente, fu pronunciato il verdetto di condanna a morte, fecero il loro ingresso gli aiutanti del carnefice che spogliarono M. I dei suoi abiti ecclesiastici, gli misero la gogna e lo trascinarono attraverso la città fino al pretorio. Con le gambe e le ginocchia sanguinanti, sfinito e a malapena in grado di salire i gradini, fu rinchiuso nella prigione di Diomede dove, ormai pronto a morire, apprese quella sera stessa dell’intercessione del patriarca Paolo II, il quale, sul letto di morte – sarebbe morto otto giorni più tardi – aveva ottenuto dall’imperatore la commutazione della pena per Martino I. Seguirono comunque altri ottantacinque giorni di reclusione.
Durante la prigionia comparve sulla scena l’ex patriarca, Pirro, che si adoperava per essere reintegrato nella sua carica. Egli riuscì a ottenere un nuovo interrogatorio di M. I in carcere, con l’intento di dimostrare che, a Roma, nel 645-646, la sua abiura del monotelismo gli era stata estorta con la forza da papa Teodoro, un piano che il prigioniero, pronto al supplizio e alla morte, contrastò impavidamente.
Il 17 marzo 654 a M. I fu comunicata la sentenza definitiva: l’esilio a Cherson sul Mar Nero. Otto giorni dopo la partenza segreta del prigioniero dalla capitale, venne reso noto il verdetto. Il 15 maggio M. I giunse a Cherson.
Si sono conservate due lettere di M. I risalenti al periodo dell’esilio (ep. 16, giugno 654; ep. 17, settembre 655), che rivelano come egli attendesse dagli amici romani l’invio di generi di prima necessità, poiché in quel luogo inospitale e remoto mancavano pane, cereali, vino e olio. Dalle lettere trapela anche l’amara delusione a proposito del suo clero, dei suoi fratelli, amici e congiunti a Roma, che sembravano averlo dimenticato e che, secondo le sue stesse parole, non desideravano più sapere se fosse ancora vivo o già morto (ep. 17). Egli appare duramente colpito anche dalla notizia della nomina del suo successore nella sede episcopale di Roma (Eugenio I).
M. I morì il 16 sett. 655, e alcuni suoi fedeli lo seppellirono davanti alle mura di Cherson nella basilica di S.Maria ad Blachernas.
La Commemoratio, resoconto di parte ma ricco di informazioni sul processo e l’esilio di M. I, è uscita dalla penna di uno di quei fedeli. Lo scritto si diffuse in Occidente, a Roma e in Africa e fornì al partito antimonotelita la versione accreditata della sorte di Martino I. Nella Commemoratio egli appare come il papa universale, perseguitato dall’imperatore, impegnato nella giusta battaglia – essendo stato scelto da Dio come difensore della verità – e che non teme il martirio. Dieci anni dopo la morte di M. I comparvero a Cherson i primi pellegrini, monaci greci e allievi dell’apocrisario Anastasio. Riferirono già di grandi miracoli avvenuti sulla sua tomba, portarono con sé un lembo del suo sudario e una scarpa come reliquie, e con un memoriale polemico-propagandistico (Hypomnesticum) posero le basi per il giudizio delle Chiese su Martino I.
La Chiesa romana lo venera come martire e in origine celebrava la sua festa il 12 novembre. Dal 1969 anche l’Occidente onora la memoria di M. I il 13 aprile, nello stesso giorno della Chiesa greca.
Tra le testimonianze relative all’epoca di M. I va ricordata la raffigurazione dei Padri della Chiesa dipinta nell’abside di S.Maria Antiqua a Roma (attuale S.Francesca Romana) e probabilmente il dipinto dei Sette Dormienti che decora uno degli ambienti, oggi sotterranei, relativi all’oratorio della diaconia di S.Maria in via Lata su cui rimangono tracce di scrittura greca (Andaloro). È poi da segnalare che nella biografia del pontefice contenuta nel Liber pontificalis la basilica del Laterano, che era stata sempre definita Costantiniana, prende la denominazione di «ecclesia Salvatoris» (I, p.338). M. I è raffigurato in un affresco databile all’inizio del XIV secolo nella cappella di S.Martino nella chiesa di S.Francesco ad Assisi come papa con il bastone crociato (Künstle).
Sulla base delle fonti non è ancora possibile chiarire in modo univoco il rapporto del pontefice con l’esarca usurpatore Olimpio. Resta invece indiscusso il comportamento dignitoso di M. I durante il processo e l’esilio. La posizione dogmatica che egli rappresentò (dienergismo e ditelismo) venne infine riconosciuta dal VI concilio ecumenico (680-681) di Costantinopoli (Acta Conciliorum oecumenicorum, s. II, 2, 1-3).
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