Lutero, Martino
Teologo e iniziatore della Riforma in Germania (Eisleben 1483-ivi 1546). Figlio di un minatore divenuto agiato imprenditore, studiò a Magdeburgo, Eisenach e nell’univ. di Erfurt (1501-05), laureandosi magister artium; si iscrisse poi alla facoltà giuridica ma, con decisione inattesa e per un voto fatto quando fu quasi colpito da un fulmine, entrò (1505) nel convento degli agostiniani di Erfurt; lesse soprattutto la Bibbia e Agostino, proseguì gli studi filosofici e, ordinato sacerdote (1507), iniziò quelli teologici sotto il segno dell’occamismo tardoscolastico. Fu chiamato (1508) a insegnare l’etica di Aristotele nella nuova univ. di Wittenberg fondata dal principe elettore di Sassonia Federico il Savio; tornato a Erfurt (1509) per leggervi le Sentenze di Pietro Lombardo e inviato a Roma (inverno 1510-11), venne poi richiamato a Wittenberg dove, divenuto sottopriore (nel 1515 sarebbe divenuto vicario provinciale dell’ordine) e dottore in teologia, assunse (1512) la cattedra di esegesi biblica, che avrebbe tenuto fino alla morte. La teologia di L., elaborata nei commentari biblici (fondamentali i Dictata super Psalterium, 1513-16, e le lezioni sull’Epistola ai Romani, 1515-16) e in dispute accademiche, scritti di edificazione, prediche, epistole, fu caratterizzata sin dall’inizio dalla polemica contro la teologia scolastica e occamistica, che L. accusava di pensare Dio e l’uomo in modo filosofico e cioè nella loro essenza metafisica; ciò implicava da una parte un’esaltazione pelagianizzante della bontà dell’uomo anche dopo il peccato d’origine, e dunque della sua libertà nel cooperare con la grazia alla propria salvezza, e dall’altra un’egoistica tendenza a vedere in Dio il termine degli sforzi intellettuali dell’uomo e il premio dei suoi meriti morali. L. invece seguiva Agostino nell’affermare che il libero arbitrio è radicalmente corrotto nell’uomo decaduto, tanto più dominato dall’amore di sé quanto più crede di poter avanzare meriti davanti a Dio, e che dunque la salvezza è soltanto opera della grazia, ma ripensò tale dottrina dando rilievo esclusivo a una visione di Dio e dell’uomo diversa da quella filosofica e anzi specificamente cristiana; la Scrittura infatti, e soprattutto Paolo, considerano Dio e l’uomo non in sé stessi ma nella loro relazione, nell’essere di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio: l’uomo è peccatore e bisognoso di giustificazione coram Deo («davanti a Dio») e Dio è, in Cristo, giustificatore e redentore pro nobis («per noi»). Mentre dunque la teologia tradizionale considerava giustizia e peccato come attributi di sostanze, Dio e l’uomo, comunque esistenti e buone in sé stesse, L. vide che nella Scrittura giustizia e peccato indicano i due modi del riconoscimento fra Dio e l’uomo in cui consiste il loro essere e non essere per l’altro: il peccato è infatti l’incredulità dell’uomo che, non riconoscendosi bisognoso di giustificazione, non riconosce Dio come suo giustificatore né Dio lo riconosce giusto; la giustizia è invece la fede con cui Dio porta l’uomo a confessare il peccato e a confidare nel perdono, facendosi così riconoscere come giustificatore e riconoscendolo giusto. Se la Scrittura parla di Dio e dell’uomo non nel loro essere in sé ma nel loro esistere per l’altro nel reciproco riconoscimento, il centro della teologia cristiana è allora la giustificazione per fede, cioè l’opera con cui Dio diviene Dio pro nobis e l’uomo passa dal non essere coram Deo, il peccato, all’essere della iustitia fidei; nella fede si decide dunque dell’essere e del non essere di Dio e dell’uomo, ed è questo il senso dei noti paradossi luterani secondo cui la fede crea l’uomo in Dio e Dio nell’uomo. Tale concetto di fede, come discrimine fra la teologia fondata sulla Scrittura e quella viziata dalla filosofia, avrebbe condotto L., anche per le esigenze della polemica anticattolica, a ricollegarsi alla tradizione mistico-teologica tedesca e a contrapporre la teologia germanica a quella latina; d’altra parte esso implicava un concetto di essere che proprio attraverso L., che pur ne trasse solo le implicazioni teologiche, era destinato a segnare il pensiero moderno e gli sviluppi della filosofia tedesca. La fede come essere di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio è per L. fides Christi, nel senso che è l’opera di Cristo nell’uomo: mentre infatti la Legge rivela all’uomo il suo peccato e il castigo di Dio e lo conduce alla superbia di volersi giustificare adempiendo la Legge o di accusare Dio perché non può adempierla, il Vangelo della Croce di Cristo rivela invece la misericordia di Dio per il peccatore che confida in Lui. Nella Disputatio Heidelbergae habita (1518) L. rifiutò la teologia scolastica come theologia gloriae, quella cioè che vuole comprendere la gloria di Dio a partire dalla creazione, perché essa è possibile anche senza la grazia e conduce l’uomo a insuperbire; a essa contrappose la theologia Crucis che riconosce per fede l’amore di Dio per noi nascosto sotto l’apparenza contraria e rivelato paradossalmente, negative, nella croce: le croci che ci infligge nascondendo la sua misericordia sotto il castigo, ma soprattutto la Croce di Cristo che nasconde la sua gloria sotto l’impotenza. La rivelazione negativa della Croce, dove Dio muore alla sua gloria perché l’uomo muoia alla sua superbia e viva nell’amore, è perciò anche effettiva, nel senso che opera essa stessa la fede con cui la si accoglie e realizza effettivamente ciò che rivela, la giustificazione; la Croce e il Vangelo, nell’operare in noi la fede, realizzano l’esistenza di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio nell’amore reciproco, e per mezzo loro Cristo diviene Dio pro nobis, nel senso che in Cristo l’uomo riconosce Dio come suo giustificatore, e l’uomo diviene Cristo coram Deo, nel senso che Dio non riconosce né imputa all’uomo il peccato che confessa ma la giustizia di Cristo in cui crede; così la giustificazione avviene sola fide o, come L. non si stancava di ripetere, sola gratia, solo Christo, sola Scriptura, e in essa si realizza il «grazioso scambio» fra il peccato dell’uomo e la giustizia di Dio, secondo la parola di Paolo «il giusto vivrà per fede» (Rom. 1,17). Tale nucleo della teologia di L. si definì già negli anni precedenti la disputa sulle indulgenze; la certezza della sua conformità alla Scrittura consolò sempre L. nelle tentazioni spirituali, acute in specie negli anni cruciali della Riforma, circa la sua salvezza e le sue responsabilità verso il popolo cristiano. Fin dal 1516 L. predicò contro le indulgenze poiché insegnano a fuggire non il peccato ma la sua pena, cioè l’umiliazione del pentimento e la croce della penitenza, e a confidare non nel perdono di Dio ma in un atto esteriore; e mentre il domenicano J. Tetzel promuoveva in modo assai spregiudicato una vendita straordinaria di indulgenze, frutto di un accordo fra Leone X, il primate di Germania Alberto di Magonza e la banca Fugger, L. intervenne: il 31 ott. 1517 rese pubbliche le 95 tesi, considerate l’atto di nascita della Riforma, rivolte contro la prassi delle indulgenze, la dottrina del tesoro dei meriti della Chiesa su cui essa si fonda, il preteso potere del papa sulle anime del purgatorio e la venalità della curia romana. Redatte in forma provocatoria e in latino per suscitare una discussione fra dotti su una materia ancora aperta, le tesi vennero invece subito tradotte in tedesco e diffuse in tutta la Germania e nell’Europa colta destando grande scalpore; e mentre L. pubblicava un’esposizione popolare della questione priva di spunti polemici, e nella Disputatio Heidelbergae habita esponeva in forma purissima ai confratelli la teologia della Croce che ne era il fondamento, i domenicani sassoni lo denunciarono per eresia e attacco all’autorità papale. Convocato a Roma per discolparsi, L. si appellò a Federico il Savio, che sarebbe sempre stato suo prudente protettore, chiedendo un processo imparziale in Germania, e ottenne un incontro ad Augusta con il legato papale cardinal Gaetano; il colloquio fallì, poiché L. chiedeva di essere confutato sulla base della Scrittura, mentre Gaetano esigeva la semplice ritrattazione e affermò comunque che il papa è superiore alla Scrittura; L. allora si appellò a un concilio universale, mentre Gaetano chiese a Federico, che rifiutò, di consegnarlo a Roma come eretico; il papa d’altra parte aveva bisogno dell’elettore per condizionare l’elezione imperiale, e si tentò una conciliazione, ma nella disputa di Lipsia (1519) con J. Eck L. negò che il primato della Chiesa di Roma fosse di diritto divino e, accusato di tendenze hussite, affermò che il Concilio di Costanza aveva errato nel condannare Hus, che il papa e i concili potevano errare e che infallibile era solo la Scrittura; ormai la questione delle indulgenze era superata da altre ben più gravi che investivano i fondamenti stessi della Chiesa occidentale. In alcuni sermoni sui sacramenti (1519-20) L. ribadì che l’efficacia del sacramento dipende non dall’atto in sé, ma dalla fede che Dio opera in chi lo riceve, e in Von den guten Werken (1520) imputò alla Chiesa di rinnovare, con l’esteriorità della sua prassi liturgica e devozionale, il legalismo giudaico, e respinse l’accusa di rifiutare le opere in nome di una fede morta e inefficace: le opere buone non sono infatti quelle che l’uomo compie nella pretesa di giustificarsi, ma quelle che Dio compie attraverso di lui mentre lo giustifica, e in tal senso l’unica vera buona opera è la fede in Cristo, da cui procedono tutte le opere dell’amore. In Von dem Papsttum zu Rom (1520) affermò poi che la vera Chiesa è quella invisibile fondata sulla fede, attaccando la Chiesa papale esteriore e fondata su dottrine umane: se infatti ogni autorità viene da Dio, e se la theologia Crucis insegna a non ribellarsi ai tiranni, croci imposte da Dio ai peccatori per condurli all’umiltà, ciò non poteva valere per la tirannia spirituale, e il papato sarebbe stato l’Anticristo se si fosse considerato superiore alla Scrittura e avesse voluto stabilire nuovi articoli di fede. Gli eventi precipitavano: il processo romano si concluse il 15 giugno con la bolla Exsurge Domine di Leone X che impose a L., sotto pena di scomunica, di ritrattare 41 proposizioni, e mentre la bolla era in viaggio L. pubblicò due dei suoi cdd. tre scritti riformatori, An den christlichen Adel deutscher Nation e De captivitate babylonica ecclesiae praeludium, cui sarebbe seguito il trattatello De libertate christiana. Nel primo invitava l’imperatore, i principi, i cavalieri (che da tempo gli offrivano protezione e appoggio militare) e tutti i laici con responsabilità politiche a convocare un concilio di riforma della Chiesa, affermando che ogni credente è sacerdote, contro il presunto primato dei chierici sui laici, e che la Scrittura gli è aperta, contro la pretesa papale all’infallibilità e al diritto esclusivo d’interpretare la Scrittura e di convocare i concili; L. proponeva fra l’altro il ritorno del papato a funzioni solo spirituali, una maggiore autonomia delle chiese nazionali, l’abolizione del celibato per i parroci e la loro elettività da parte delle comunità. Assai più audace era il secondo scritto, che attaccava i sacramenti come canale privilegiato della grazia e dunque le prerogative della Chiesa che li amministra; L. rifiutò i sacramenti non istituiti da Cristo, cioè ordine, cresima, matrimonio ed estrema unzione, e mantenne solo battesimo ed eucarestia (anche la confessione rimase, ma solo come rinnovamento della promessa di perdono), ammettendo la presenza reale di Cristo nel pane e nel vino ma rifiutando la dottrina della transustanziazione e della messa come sacrificio; in particolare l’abolizione dell’ordine sacro confermava la dottrina del sacerdozio universale e abbatteva le pretese teocratiche della Chiesa. Erasmo da Rotterdam, che aveva fino allora guardato a L. con prudente simpatia, osservò che la rottura era ormai irreparabile e con lui molti umanisti presero le distanze da L.; d’altra parte, malgrado le iniziali convergenze nella critica alla corruzione della Chiesa e nell’appello a un rinnovamento della vita cristiana, L. aveva sempre sentito Erasmo troppo tiepido sulla centralità di Cristo e della grazia. Lo scritto sulla libertà del cristiano sviluppava poi la tesi secondo cui il cristiano in virtù della fede è interiormente libero da tutti in tutto, e in virtù dell’amore che da essa procede si fa esteriormente servo di tutti in tutto; e appunto in nome della libertà cristiana, e di una coscienza inquieta ma sempre più chiara del compito a cui si sentiva chiamato dalla Scrittura, L. insorse contro quello che, nella durissima Responsio ad Ambrogio Catarino (1521), additava ormai come l’Anticristo. Il 10 dic. 1520, alla scadenza del termine concessogli dalla Exsurge Domine, L. bruciò la bolla papale, e il 3 genn. 1521 la bolla Decet romanum pontificem lo scomunicò; L. venne invitato comunque alla Dieta imperiale di Worms, ma il 18 apr. davanti a Carlo V rifiutò ancora una volta di ritrattare a meno di essere convinto «mediante la Scrittura e la chiara ragione». La frattura con la Chiesa era ormai definitivamente consumata: il 26 aprile l’Editto di Worms mise L. al bando dall’impero, e mentre rientrava a Wittenberg Federico il Savio fece simulare il suo rapimento e lo fece mettere al sicuro nel castello della Wartburg. La Riforma protestante nasceva dunque su questioni teologiche, ma soprattutto dopo Worms essa divenne anche una grande questione politica, in cui si intrecciavano la convinzione sincera e l’opportunismo: Carlo V e alcuni principi tedeschi l’avversarono duramente, ma altri principi e alcune città l’accolsero, e i sentimenti antiromani conquistarono comunque vasti strati della popolazione; L. stesso appariva ormai come un eroe nazionale tedesco, grazie anche alla formidabile vena di polemista cui spesso indulgeva e alla rapidissima diffusione a stampa dei suoi scritti e della libellistica e iconografia popolare su di lui. Ma sebbene il movimento da lui suscitato stesse avendo sviluppi imprevedibili, l’interesse di L. era e restava religioso: la sua opera sarebbe stata rivolta d’allora in poi all’edificazione della Chiesa «evangelica» (L. non volle mai che si parlasse di Chiesa luterana) e alla precisazione della sua dottrina sulla base dell’articolo fondamentale, la giustificazione per fede, e dei suoi segni efficaci, l’annuncio della Parola, il battesimo e la Cena del Signore. Ciò gli appariva ormai necessario non soltanto in funzione antiromana, ma anche di fronte agli sviluppi del movimento riformatore di cui egli, scomunicato e bandito, non aveva potuto assumere personalmente la guida; a partire dal 1519 la Riforma si diffuse infatti in Svizzera, in Germania e nella stessa Wittenberg in forme diverse e spesso distorte rispetto alle intenzioni di L.; e l’esigenza di chiarire e ordinare la sua dottrina si espresse anche nei Loci communes rerum theologicarum (1521) di F. Melantone, umanista e grecista divenuto il suo più devoto amico e stretto collaboratore. Nei dieci mesi trascorsi alla Wartburg, L. fra l’altro tradusse in tedesco il Nuovo Testamento (1522), e nel De votis monasticis prese posizione contro il monachesimo enunciando la tipica concezione luterana della vocazione cristiana, da realizzarsi nella vita familiare, lavorativa, civile ed ecclesiale; egli stesso, che ancora non pensava al matrimonio, si sarebbe sposato nel 1525 con una ex monaca, Caterina von Bora, da cui avrebbe avuto sei figli, e la sua famiglia avrebbe costituito per secoli il modello della famiglia patriarcale protestante. L. tornò nel marzo 1522 a Wittenberg, dove nel frattempo i conventi si svuotavano, i preti si sposavano e dove i riformatori, sotto la guida di A. Carlostadio, già collega di L. all’università, avevano introdotto ardite innovazioni nel culto e provocato tumulti iconoclastici; L. placò gli animi e allontanò Carlostadio, ma dovette presto affrontare la questione assai più grave rappresentata da T. Müntzer. Questi subordinava il valore della Scrittura all’ispirazione diretta da parte dello Spirito Santo, e come fondatore di una Chiesa di eletti chiamati a instaurare il regno di Dio sulla terra e a sterminare gli empi si mise a capo di un moto di contadini costituendo un esercito dedito all’incendio e al saccheggio. L., inizialmente favorevole alle rivendicazioni dei contadini, si irrigidì però davanti alle violenze e alla pretesa di giustificarle con il Vangelo; già nel 1523 (Von weltlicher Obrigkeit, wieweit man ihr Gehorsam schuldig sei) aveva ribadito che la ribellione all’autorità politica si giustifica solo quando essa minacci la coscienza cristiana facendosi tirannia spirituale; ora, dopo vani appelli alla pace, nel violentissimo libretto Wider die räuberischen und mörderischen Rotten der Bauern (1525), invocò il soffocamento della rivolta nel sangue, e poco dopo i principi cattolici e luterani sconfissero i contadini, giustiziarono Müntzer e repressero il moto con spaventosa durezza. L., accusato dai cattolici di aver gettato il germe della sedizione, cominciava paradossalmente a sentirsi e ad apparire come un conservatore non soltanto sul piano politico, ma anche su quello religioso; da una parte infatti egli insistette sempre nella polemica antiromana, e in risposta a un attacco di Erasmo pubblicò il celebre trattato De servo arbitrio (1525), in cui ribadiva in termini definitivi, e con accenti assai vicini a quelli dell’ultimo Agostino, la schiavitù della volontà umana, l’insondabilità della volontà assoluta di Dio e la doppia predestinazione; ma dall’altra egli si trovava ormai in una posizione dottrinale intermedia fra il cattolicesimo e le altre correnti della Riforma. Emblematica a questo proposito fu la controversia sulla Santa Cena con gli svizzeri, protrattasi fra il 1527 e il 1544 e già anticipata da scritti contro Carlostadio e gli altri «ispirati» che disprezzavano i segni sacramentali visibili; contro Zwingli che affermava la presenza solo spirituale di Cristo nella Santa Cena, L. difese invece con profonde ragioni teologiche e speculative (Vom Abendmahl Christi, Bekenntnis, 1528) la lettera dell’evangelico «questo è il mio corpo» e la presenza reale di Cristo. Anche nella ricostruzione della Chiesa evangelica in Sassonia L. si distaccava sia dalle tendenze teocratiche di Zwingli sia dal settarismo degli anabattisti, finendo però con l’attenuare la distinzione fra Chiesa e Stato e con l’attribuire di fatto al principe cristiano un ruolo che avrebbe mantenuto ben oltre l’emergenza dei primi anni e fin nella Chiesa di Stato luterana: egli avrebbe dovuto non solo amministrare i beni della Chiesa, ma sorvegliarne la dottrina, la liturgia e i costumi, formarne e autorizzarne i ministri e imporre l’uniformità del culto pubblico. D’altra parte fin dal 1522 la difesa della Riforma era nelle mani dei principi e delle città luterani e le sue vicende si intrecciavano con le guerre fra Carlo V, la Francia e i turchi; nel 1529 la Germania era divisa in due campi avversi e il partito protestante, così chiamato dalla «protesta» presentata alla seconda Dieta di Spira (1529), si stava organizzando, malgrado il fallimento del colloquio di Marburgo fra L. e Zwingli e dunque di un’ipotesi di alleanza fra riformati tedeschi e svizzeri; dopo il fallimento di un nuovo tentativo di conciliazione con i cattolici alla Dieta di Augusta (1530) i protestanti, uniti religiosamente nell’adesione alla Confessio augustana redatta da Melantone, e militarmente, malgrado la riluttanza di L. ad approvare la difesa armata del Vangelo, nella Lega di Smalcalda (1531) sotto la guida di Filippo d’Assia, combatterono contro le forze cattoliche fino al 1555, quando la Pace di Augusta sancì la definitiva divisione religiosa della Germania. L. intanto si dedicava a dotare la nuova Chiesa degli strumenti pastorali necessari perché la Parola di Dio vi potesse agire: in Deutsche Messe und Ordnung Gottesdiensts (1526) definì i caratteri della liturgia luterana, in lingua volgare; del 1529 sono Deutsch Katechismus e Der kleine Katechismus, limpide esposizioni della fede basate sui dieci comandamenti, il Credo, il Pater noster e i due sacramenti; raccolse inoltre nella Kirchenpostille le sue prediche per l’intero anno liturgico, compose inni e riformò radicalmente l’uso liturgico della musica e del canto; le più grandi cure, tuttavia, furono rivolte da L. alla traduzione della Bibbia (Biblia, das ist die gantze Heilige Schrifft Deudsch) che, apparsa nel 1534 e continuamente rielaborata fino al 1545, costituisce un documento altissimo per profondità teologica e sensibilità pastorale, nonché uno dei capolavori della letteratura tedesca. L’avallo dato alla bigamia di Filippo d’Assia (1540), unito a dure prese di posizione contro gli anabattisti e gli ebrei, gettano certamente un’ombra sugli ultimi anni del riformatore; fino alla morte L. continuò comunque a insegnare e a predicare, a condurre polemiche dottrinali e dispute accademiche, a scrivere commentari biblici (da ricordare le Operationes in Psalmos, 1519-21, il grande commentario ai Galati, 1531, e quello alla Genesi, 1535-45), lettere pastorali, istruzioni spirituali, trattatelli su varie questioni, senza contare le vivacissime e a volte grossolane Tischreden, raccolte da ospiti e allievi fra il 1529 e il 1546.