PIAZZA, Martino
PIAZZA, Martino. – Nacque con ogni probabilità a Lodi tra il 1475 e il 1480. Suo padre Gian Giacomo, era esponente di una facoltosa famiglia soprannominata dei Toccagni, con possedimenti nei territori di Turano (oggi Turano Lodigiano) e Bertonico; suo fratello minore Alberto (v. voce in questo Dizionario) fu anch’egli pittore.
La prima attestazione dell’attività artistica di Martino risale al 1497, data in cui risulta aver eseguito due perduti stendardi, commissionatigli dall’ospedale di Lodi per la locale chiesa di S. Gualtiero (Marubbi, 2000, p. 67). Già a quella data Martino risulta sposato con Angela, figlia del pittore Bassiano da Treviglio, presso cui, verosimilmente, parrebbe essersi formato, e che, nello stesso documento, viene esplicitamente nominato come suo suocero (ibid.). Agli stessi anni sembra risalire la nascita del figlio Callisto (v. voce in questo Dizionario), seguito, forse alcuni anni più tardi, dai più giovani Cesare e Scipione; tutti, a loro volta, pittori e continuatori dell’attività paterna. Una successiva traccia documentaria, risalente al 1502 (Marubbi, in I Piazza, 1989, p. 350), lo segnala come abitante presso la vicinia di San Gemignano, luogo in cui è documentata la sede della sua bottega.
Nel 1506, insieme al collega lodigiano Giovan Pietro Carioni, anch’egli allievo di Bassiano da Treviglio, ricevette pagamenti dai fabbricieri della chiesa dell’Immacolata Concezione a Rivolta d’Adda «pro [...] mercede depingendi dictam ecclesiam» (Marubbi, 2000, p. 67); la somma era stata divisa a metà tra i due artisti. Il documento aiuta a gettare luce sulla formazione artistica di Martino, chiarendo in parte anche il quesito attributivo sul ciclo di Rivolta d’Adda, cui il nome dell’artista era già stato accostato in passato (Romano, 1982, riprendendo una precedente intuizione – in seguito rettificata in favore di Zenale – di Maria Luisa Ferrari cit. in Marubbi, 2000, p. 68; anche Moro, 1997, p. 95, aveva correttamente individuato i modi della bottega piazzesca, pensando però al fratello Alberto). In effetti i dipinti murali (che meriterebbero un attento studio con un’annessa ipotesi di distinzione delle mani; v. Marubbi, 2000) mostrano alcuni caratteri che sarebbero tornati poi di frequente nel percorso di Martino, con una superficiale infarinatura vinciana (evidente nei volti grotteschi inseriti nei clipei della volta) interpretata con una sensibilità arguta e spigolosa, non priva di influssi zenaliani. Tratti analoghi sono presenti nella Madonna col Bambino tra i ss. Elisabetta e Giovannino della Galleria nazionale d’arte antica in palazzo Barberini a Roma, senz’altro successiva al 1501 (la postura del Bambino ricorda infatti quella della Madonna dei fusi di Leonardo) e quasi concordemente accolta nel novero degli autografi di Martino.
Non ci sono altre tracce documentarie dell’artista fino al 1511, quando uno strumento notarile ne attesta il pagamento di un livello perpetuo in un territorio campestre già di pertinenza della famiglia della moglie (Marubbi, in I Piazza, 1989, p. 350).
Il 5 dicembre 1514 Martino, insieme al fratello Alberto, fu contattato per generiche opere di pittura nel santuario dell’Incoronata di Lodi. La fonte archivistica (peraltro nota solo dalla trascrizione di Paolo Camillo Cernuscolo, 1642) non specifica né l’eventuale conclusione della trattativa né quali fossero i termini del lavoro; di solito l’atto viene messo in relazione con i quattro affreschi con Storie dei ss. Antonio abate e Paolo eremita, ritrovati nel 1870 sotto le tele eseguite solo qualche decennio più tardi da Callisto e Scipione Piazza nella cappella a sinistra dell’ingresso. A questo ciclo frammentario (oggi staccato e ricoverato presso il Museo civico di Lodi) è ricollegabile un secondo documento, anch’esso trascritto da Cernuscolo, che mette in relazione i dipinti (senza però specificarne l’autore) con un lascito di Giovanni Antonio Berinzaghi del 1513 per la propria cappella nella stessa chiesa.
Il primo dei due istrumenti non va inteso come strettamente probante in senso attributivo; tant’è che il ciclo pittorico è stato assegnato, in passato, a personalità diverse (Roberto Longhi, 1942, ad esempio, pensava a un artista di area pavese, tra Bernardino Lanzani e Pietro Francesco Sacchi; ipotesi ripresa in Romanini, 1950, p. 129 e, inizialmente, in Sciolla, 1971, p. 15). Bernard Berenson (1907, 1968, p. 335) e Federico Zeri (1979, 1988, p. 355) propendevano per un’esecuzione del solo Martino, mentre l’idea di un’opera di collaborazione (risalente a Caffi, 1877, p. 125), è stata ripresa da Moro (1987b, p. 108), che, assegnando a Martino il paesaggio – ricco di spunti leonardeschi – e al fratello Alberto l’esecuzione delle figure, provava per la prima volta a proporre un’ipotesi di distinzione delle mani. Pur nella difficoltà di trovare risposte certe, bisogna comunque accettare il fatto che la maniera artistica con cui sono condotti gli affreschi – legati per via documentaria al lascito del 1513 (e alla data 1514 siglata nella partitura architettonica della cappella) – risulta ampiamente compatibile con lo stile piazzesco (Natale, in I Piazza, 1989, p. 101).
Nel 1516, tra i mesi di giugno e settembre, Martino è documentato diverse volte a Lodi per questioni di compravendite e affitti di terreni; nel primo di questi due atti notarili (Marubbi, in I Piazza, 1989, pp. 350 s.) sono citati anche il fratello Alberto (come non ancora emancipato) e il padre (che risulta all’epoca aver spostato il suo domicilio fuori città, a Turano).
Sono pochi gli appigli per far luce sull’attività pittorica di Martino: in sostanza la ricostruzione del resto del suo catalogo ha come punto di partenza tre sole opere, non databili con certezza, ma accomunate dalla tipologia della firma – espressa in varianti sempre molto simili – a piccole lettere capitali dorate. Si tratta della tavola con il S. Giovanni Battista alla fonte della National Gallery di Londra, siglata con il monogramma «MPP» sormontato da una «T» alata (indicante probabilmente il soprannome familiare «Toccagni»), e di due opere di cronologia leggermente posteriore, quali la piccola Adorazione del Bambino nella Pinacoteca Ambrosiana (firmata con il solo monogramma «MPP») e un’altra Madonna col Bambino e s. Giovannino di collezione privata (con un analogo monogramma alato formato dalle lettere «T» e «P»). A questi dipinti, identificati, a metà del XIX secolo, da Otto Mundler (1855-1858, 1985), sono state accostate, per via stilistica, diverse altre opere (molte in Moro, 1997), tra le quali la citata tavoletta con la Madonna col Bambino e i ss. Elisabetta e Giovannino di palazzo Barberini a Roma (la cui attribuzione venne proposta per la prima volta da Berenson, 1932, p. 336) e la più tarda tavoletta con l’Adorazione dei pastori (in collezione privata; segnalata da Moro, 1987b, p. 105), datata 1518 e accolta, in seguito, dalla maggior parte della critica. Ultimo tassello del percorso è lo scomparto di polittico della Pinacoteca di Brera con S. Giovanni Battista, datato 1519. Sempre al 1519 (28 febbraio), risalirebbe, secondo quanto scrive Cernuscolo (1642, c. 12v) l’incarico per la pittura di un gonfalone per il santuario dell’Incoronata, intrapreso insieme al fratello Alberto; tuttavia, come attesta il mandato di pagamento per un primo acconto, emanato il giorno precedente, l’opera venne eseguita unicamente da quest’ultimo (Marubbi, in I Piazza, 1989, p. 351).
Altri dipinti di piccole dimensioni, ascrivibili al catalogo piazzesco per la vicinanza al gruppo dei dipinti siglato con piccole lettere capitali dorate, sono la Madonna col Bambino e s. Giovannino dello Szépmuvészeti Műzeum di Budapest (Suida, 1929, 2001, p. 279; Moro, in I Piazza, 1989, pp. 113 s.) e la Visione della Vergine del Museum of art di San Diego, CA (Tempestini, 1976, p. 57; Moro, 1987b, pp. 106 s.; Id., in I Piazza, 1989, pp. 169, 279), i cui tratti meno aspri e più tondeggianti, ammessane la paternità comune, potrebbero essere interpretati come segno di una cronologia più tarda. La difficoltà di scandire ad annum questo gruppo di opere rende però difficile un’esatta ricostruzione del percorso del pittore. Osservando, a ogni modo, lo scarto di stile tra la già ricordata Madonna di palazzo Barberini, ancorabile a una datazione precoce, e la più tarda Adorazione del 1518, connotata da una ricerca di ritmi fluidi, con figure allungate ed eleganti panneggi arcuati, non sarebbe nemmeno impossibile immaginare, in prossimità di questa data, un’ipotetica svolta nello stile di Martino che possa comprendere, del tutto o in parte, molte delle opere già assegnate al corpus del fratello (Pavesi, 2012, pp. 176 s.); anche se la questione andrà ridiscussa dopo che si sarà fatto luce sulla figura – recentemente emersa dai documenti e in precedenza del tutto sconosciuta – del già citato Carioni (Marubbi, 2000, p. 72). Accanto alla proposta di individuare una fase tarda dell’artista fra i leonardeschi di stretta osservanza (nello specifico fra i numerosi copisti della S. Anna; Moro, 1997, pp. 81 s.), non andrebbe nemmeno esclusa la possibilità di ritrovare la mano di Martino (ed eventualmente dello stesso Carioni) anche in opere lodigiane a supporto mobile di respiro monumentale, magari eseguite a più mani, come l’ancona della già citata cappella Berinzaghi all’Incoronata o il polittico Galliani della chiesa lodigiana di S. Agnese, datato 1520.
Sembrerebbe coincidere con una data non troppo lontana dalla metà del secondo decennio anche il problematico affresco staccato, oggi in cattive condizioni, con la Madonna col Bambino e un donatore, proveniente da S. Maria alla Fontana a Lodi (oggi depositato presso il Museo civico della stessa città), assegnato, con varie oscillazioni da parte della critica, a Martino (Moro, 1987b, p. 106) o a un artista lodigiano anonimo (Sciolla, 1989b, p. 87). Sembra databile agli stessi anni anche l’Adorazione dell’Ambrosiana, opera tra le più elevate realizzazioni di Martino, capace di coniugare, attraverso una minuta e raffinatissima tecnica esecutiva, spunti leonardeschi e zenaliani, declinati con una sensibilità quasi pinturicchiesca nella resa delle lumeggiature in oro sulle preziose tonalità verdi e azzurrine del paesaggio, ricco peraltro di ricordi nordici e di libere citazioni düreriane (dalla serie di incisioni della Marienleben edita nel 1511; Dell’Acqua, 1967, p. 512).
Una peculiare sfaccettatura dello sperimentalismo della fase matura è visibile nel S. Giovanni di Brera, connotato dall’unione tra la fluida eleganza delle pieghe arcuate del panneggio e la tetragona espansione muscolare dell’anatomia; la datazione certa (al 1519) del dipinto permette di operare un interessante confronto proprio con la più composta e pacata Incoronazione della Vergine (Lodi, santuario dell’Incoronata) del fratello Alberto (Tanzi, 1988). Non manca neppure, in una piccola Madonna di collezione privata, la citazione di uno spunto raffaellesco, ripreso dalla Madonna del Cardellino (Mundler, 1855-1858, 1985, p. 147).
Risale all’agosto del 1520 il documento (Marubbi, in I Piazza, 1989, p. 353) che registra un viaggio a Cremona di Martino per collaudare i due affreschi con l’Ecce Homo e il Cristo davanti a Pilato del Romanino in cattedrale (firmati e datati 1519), attestando anche, al contempo, il consolidarsi del prestigio dell’artista al di fuori dei confini lodigiani (la deposizione di uno dei fabbricieri del duomo cremonese, nota fin dal XIX secolo, è stata sempre trascurata dalla letteratura critica sui Piazza – fino, in sintesi, a Marubbi (1989) – a causa di un banale errore di trascrizione: «Martinum Guadagnum» in luogo di «Martinum Tochagnum».
Il 22 aprile 1522 Martino ricevette un pagamento per una Madonna ad affresco (oggi perduta) sulla facciata del Monte di Pietà a Lodi (Caffi, 1877, p. 128).
Mancano dati certi per un’esatta ricostruzione dell’attività di Martino nell’ultima parte della sua carriera. Il problema principale per la comprensione della sua personalità, ancora in parte sfuggente, è sempre stato quello della difficoltà nel mettere a fuoco i caratteri propri di un pittore la cui immagine continua a essere legata – da consuetudini di bottega, oltre che da un’antica e consolidata tradizione storiografica – a quella del fratello minore. Spesso accomunati nelle fonti antiche – solitamente più interessate alla figura del figlio di Martino, il più celebre Callisto – e differenziati in maniera poco convincente a partire dai primi, pionieristici studi moderni (Rio, 1857; Caffi, 1877), Alberto e Martino Piazza, sono stati oggetto dei numerosi contributi recenti di Moro (1984-1985, 1987a, 1987b, 1988, 1989, 1997), che, differenziandone per la prima volta le personalità, i percorsi artistici e gli stili autonomi, ne ha individuato le effettive differenze di statura e temperamento. Emerge, in Martino, una più spiccata propensione sperimentale (con esplicite citazioni dalla grafica nordica) e un chiaro interesse leonardesco, declinato in un’indole più pungente e arguta.
Non si conoscono il luogo, presumibilmente Lodi, e la data di morte dell’artista. Il 1° marzo 1523, come attesta il documento (Marubbi, in I Piazza, 1989, p. 353) di ammissione della figlia Caterina tra gli scolari dell’Incoronata (in cui è citato come «quondam»), l’artista risulta già morto.
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