Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il marxismo del Novecento, rappresenta, nelle sue varie declinazioni, una presa di distanza critica dal determinismo economico tipico della Seconda Internazionale e dell’interpretazione leniniana, che, a eccezione della posizione althusseriana, si concretizza nel tentativo di elaborazione teorica del ruolo della coscienza e della soggettività all’interno dei processi storici. Centrale, in contrapposizione alle posizioni evoluzioniste e kantiane, è la ripresa (a eccezione sempre di Althusser e del marxismo analitico) di tematiche hegeliane e dialettiche che insistono sul carattere di processualità del reale attraverso conflitti e contraddizioni. Si parte, con Korsch e Lukács, dal recupero del concetto di totalità e di unità di teoria e prassi per approdare, con Bloch, alla rivalutazione del concetto di possibilità e di utopia concreta. Gramsci fornisce un contributo fondamentale allo studio delle dinamiche sovrastrutturali e culturali, definendo il concetto di egemonia. In una netta rottura rispetto agli autori precedenti, la Scuola di Francoforte – Horkheimer, Adorno, Fromm – esprime un forte pessimismo nei confronti di qualsiasi progetto concreto di emancipazione e, avvalendosi del recupero della psicanalisi, studia le dinamiche psicologiche profonde del dominio nella società capitalistica,visto come qualcosa di intrascendibile. Nell’ambito della scuola, Marcuse è il solo a rivalutare l’importanza di valori estetici ed edonistici come meccanismo di opposizione a questa logica di asservimento. Il punto di arrivo del marxismo novecentesco sono le posizioni di Althusser e del marxismo analitico (J. Elster, J. Roemer, G. Cohen). Althusser, contro tutta la tradizione precedente, critica il concetto di soggettività in qualsiasi sua forma, rivendicando alle analisi di Marx un radicale antihegelismo, antiumanesimo e antistoricismo, e il marxismo analitico, che riesamina i concetti più importanti della tradizione marxiana alla luce della teoria della scelta razionale e dell’individualismo metodologico.
Gyorgy Lukàcs
La reificazione del lavoro
A proposito di questo fatto fondamentale bisogna notare anzitutto che attraverso di esso all’uomo viene contrapposta la propria attività, il proprio lavoro, come qualcosa di oggettivo e di indipendente, che lo domina mediante leggi autonome che gli sono estranee. E ciò accade sia soggettivamente che oggettivamente. Dal punto di vista oggettivo, sorge un mondo di cose già fatte e di rapporti tra cose (il mondo delle merci e il loro movimento sul mercato) regolato da leggi le quali, pur potendo a poco a poco essere conosciute dagli uomini, si contrappongono ugualmente ad essi come forze che non si lasciano imbrigliare e che esercitano in modo autonomo la propria azione. [...] L’aspetto soggettivo consiste invece nel fatto che, in una economia completamente mercificata, l’attività umana si oggettiva di fronte all’uomo trasformandosi in merce.
G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, Milano, Sugarco, 1974
Jurgen Habermas
L’etica del discorso
Che cosa vuol dire etica del discorso? [...] Chiamiamo punto di vista morale (moral point of view) quello in base al quale le questioni morali possono venire giudicate “imparzialmente”. [...] Nelle argomentazioni i soggetti partecipanti devono partire dal fatto che in linea di principio tutti gli interessati partecipano come liberi ed eguali a una ricerca cooperativa della verità, nella quale può essere ammessa solo la costrizione dell’argomento migliore. Il discorso pratico vale come una forma esigente della formazione argomentativi della volontà, che (come la posizione originaria di Rawls) deve garantire, solo sulla base di presupposti universali della comunicazione, la giustezza (o lealtà) di ogni possibile accordo conseguito in queste condizioni.
“Moralità ed eticità. Le obiezioni di Hegel a Kant sono pertinenti anche contro l’etica del discorso”, in Etiche in dialogo. Tesi sulla razionalità pratica, a cura di T. Bartolomei Vasconcelos e M. Calloni, Torino, Marietti, 1990
Gli sviluppi più significativi del marxismo del Novecento possono essere interpretati globalmente come una presa di distanza dalla dimensione deterministica e oggettivistica che comincia a imporsi pur con diverse varianti, nei primi anni del secolo, nella visione della Seconda Internazionale, in particolare ad opera di Karl Kautsky (La concezione materialistica della storia, 1927), e nella elaborazione teorica di Lenin (Stato e rivoluzione, 1917; L’imperialismo, 1917).
Queste concezioni vedono al centro della storia uno sviluppo incessante e unilineare delle forze produttive. Questo sviluppo, nella variante leniniana, crea contraddizioni sempre più acute con la base ristretta dei rapporti di produzione capitalistici, contraddizioni sulle quali si innesterà al momento opportuno l’azione del proletariato, portato alla coscienza di classe e guidato dal partito; nella variante kautskiana, avviene invece in maniera evolutivamente piana senza salti o conflitti, fino al momento in cui il proletariato, anche in questo caso portato a consapevolezza dal partito, prenderà il potere con mezzi legali e parlamentari. Una variane ulteriormente riformistica è quella di Eduard Bernstein, il quale vede nel socialismo la realizzazione nella realtà sociale dell’imperativo categorico kantiano che impone di trattare l’altro sempre come fine e mai come mezzo. La via al socialismo sarà allora una via pacifica, legale e parlamentare che si concretizza nella possibilità per la classe operaia di partecipare in misura sempre crescente alla ricchezza e al benessere della società capitalista.
Un tratto comune (a eccezione di Althusser e del marxismo analitico) al marxismo filosofico del Novecento, in particolare in contrapposizione alle posizioni evoluzioniste e kantiane, è la ripresa di tematiche hegeliane e dialettiche, cioè di una visione del reale che ne mette in risalto la processualità e il divenire attraverso il darsi di conflitti e contraddizioni che impediscono forme di stasi e di irrigidimento.Viene inoltre ritenuta fondamentale la dimensione di una soggettività “agente” irriducibile a meccanismi oggettivi.
Il rifiuto delle impostazioni economicistiche e deterministiche sopra richiamate trova una prima espressione significativa nelle opere di Karl Korsch e György Lukács. Korsch (Marxismo e filosofia, 1923), rivendica al marxismo la necessità della presa di distanza dalle partizioni teoriche del pensiero borghese sulla società in varie discipline (economia, diritto, teoria della politica, filosofia) e la capacità di proporsi sempre come unità di teoria e prassi.
Anche secondo Lukács (Storia e coscienza di classe, 1923), la visione “borghese” isola complessi parziali di fatti – economia, diritto, politica – e ne fa oggetto di scienze particolari, come se fossero dati naturali e assoluti. Essi sono invece globalmente il prodotto dell’attività dell’uomo. Il presentarsi dei dati in questa forma reificata è tipico della società capitalistica dove il processo sociale è sfuggito al controllo dell’uomo. A questa visione parcellizzante deve essere opposto il punto di vista della totalità, che considera l’insieme di oggettualità particolari analizzate dalle varie scienze quali prodotti di una matrice comune, cioè l’attività umana, e li vede sempre come momenti di un processo storico. Questa totalità può essere colta solo da una posizione soggettiva che rappresenti a sua volta una totalità, quindi dal punto di vista di una classe sociale. Questa classe sociale, però, non deve essere per così dire “irretita” dal punto di vista parziale dei singoli settori di ricerca i quali, proprio perché studiano i fenomeni nella forma che abbiamo visto, finiscono con il difendere inconsapevolmente interessi particolari.
Solo il proletariato come classe occupa una posizione all’interno della realtà sociale che permette di cogliere questa totalità correttamente. Per esso, infatti, è una necessità essenziale, legata alla sua sopravvivenza, comprendere sia la propria situazione di classe all’interno della società capitalistica, sia questa forma sociale nel suo complesso quale premessa della propria azione autoemancipatrice. Lukács, anche per non essere costretto a rinunciare alla sua attività nel partito comunista, svolgerà una severa autocritica delle posizioni espresse nel libro, definite eccessivamente idealistiche.
Nella tarda maturità, Lukács proporrà un’Ontologia dell’essere sociale, pubblicata postuma. La realtà viene vista come stratificata in livelli: inorganico, organico, sociale. Ognuno di essi presuppone il precedente ma presenta categorie a esso irriducibili (quello che in termini contemporanei viene definito rapporto di “sopravvenienza”). La categoria distintiva dell’essere sociale è quella del lavoro e della posizione teleologica. Su di essa si strutturano poi le categorie etiche del dover essere e del valore (l’Ontologia doveva costituire la base preparatoria di un’Etica).
Un’antitesi ben più radicale di quella di Lukács a forme di economicismo e di determinismo la troviamo in Ernst Bloch (Spirito dell’utopia, 1918; Il principio speranza, 1953-1959; Ateismo nel cristianesimo, 1968) e nella sua rivalutazione della cosiddetta corrente “calda” del marxismo che ne esprime, accanto allo sforzo analitico, l’essere proiettato in avanti e lo slancio autenticamente rivoluzionario oltre il presente. Questa rivalutazione mette capo alla costruzione di un’ontologia del non ancora essere e di un’ermeneutica dell’utopia concreta (come tale non mera fantasticheria ma sempre tesa a un confronto con le possibilità insite nel reale) che Bloch definisce principio speranza.
In contrapposizione a tutte le filosofie finora elaborate, che hanno analizzato l’essere sempre come “essere stato” che diventa poi un presente statico e irrigidito nella forma di un insieme di principi eterni e immutabili, Bloch vede il principio speranza come una forza universale esistente sia nell’uomo sia nella natura. Esso trova la sua base appunto in un’ontologia del non ancora essere, nella quale il non ancora conscio e il non ancora reale sono le dimensioni più fondamentali dell’essere e del pensiero. Da questo punto di vista allora solo il futuro rappresenta la realtà autentica. Questa ontologia si concretizza nell’esposizione e nell’analisi concreta, svolta nel libro Il principio speranza, delle varie forme di coscienza anticipatrice, da quelle più quotidiane fino alle forme culturali più strutturate. È presente in Bloch un recupero della religione, e in particolare del cristianesimo nelle sue forme non dottrinarie e non istituzionali, interpretata come lo spazio della coscienza dove il disagio psichico e sociale e la consapevolezza dell’ingiustizia danno forma all’immagine di un mondo migliore. In questa visione, dunque, anche la religione è una forma di coscienza anticipante che, contro ogni predicazione alla sottomissione, può portare a un’effettiva azione emancipatrice.
Una visione compiutamente non meccanicistica del marxismo è quella di Antonio Gramsci, che, nei Quaderni dal carcere (1948-1951), sviluppa una serie di riflessioni sulle dinamiche sovrastrutturali che caratterizzano lo scontro tra classi e sui modi in cui si realizza l’egemonia di una rispetto all’altra. Questa egemonia non si definisce solo attraverso la forza e attraverso il dominio diretto dello Stato e dei suoi vari apparati repressivi. Un suo aspetto imprescindibile è invece la costruzione del consenso all’interno della società civile quale realtà intermedia tra la struttura economica e lo Stato.
La società civile si esprime in una molteplicità di livelli, realtà e istituzioni quali ovviamente la scuola e tutto l’apparato scolastico, nonché vari luoghi e strumenti di formazione dell’opinione pubblica: le case editrici, i giornali le parrocchie, le accademie, le biblioteche, le libere associazioni come i circoli e i club. La lotta di classe deve essere portata avanti all’interno di questi spazi, formando le coscienze e agendo sulle oggettivazioni culturali, quale fase preparatoria imprescindibile per la successiva presa del potere. Questo compito è svolto prevalentemente dagli intellettuali.
Bloch è l’ultimo teorico marxista ad avere una visione ottimista, seppur altamente eterodossa, sulle dinamiche di cambiamento insite nella realtà e sul ruolo del proletariato. Molto diversa è la posizione degli studiosi della Scuola di Francoforte – Max Horkheimer, (Teoria critica, 1969), Theodor W. Adorno (Minima moralia, 1951; Dialettica negativa, 1966), Erich Fromm (Marx e Freud, 1962; Avere o essere?, 1976) – che portano a compimento la descolasticizzazione del marxismo, in un’interpretazione allo stesso tempo lucidamente critica sulla reale natura del comunismo sovietico e fortemente pessimistica sulle possibilità, all’interno del capitalismo avanzato, di un’autentica rivoluzione democratica.
La logica di dominio dell’uomo sull’uomo che permea la società capitalistica, non è un “incidente di percorso” ma rappresenta, secondo i francofortesi (Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’illuminismo, 1947), l’estrema e compiuta realizzazione del progetto illuministico di controllo sulla natura, di cui lo sviluppo scientifico e tecnologico sono il prodotto. A questa logica di dominio neppure una società socialista può sottrarsi, come l’esperienza sovietica dimostra. Allo stesso tempo, gli esponenti della Scuola di Francoforte sono fortemente critici verso la società borghese nel suo insieme, vista come società totalmente amministrata nella quale, attraverso i meccanismi dell’industria culturale, domina l’omologazione assoluta.
A questa omologazione si può opporre solo il pensiero critico individuale, in particolare nella sua forma filosofica. Questo aspetto riecheggia nell’esigenza, espressa con forza da Horkheimer, di proteggere il singolo non solo contro ogni progetto totalitario ma anche contro le utopie che lo sacrificano in nome di presunti ideali di giustizia globale.
Di notevole interesse resta il tentativo della Scuola di Francoforte di integrare in maniera non meccanicistica lo studio della realtà sociale e delle dinamiche psicologiche che ne sono ad un tempo il prodotto e il presupposto.Vengono così recuperate le categorie psicanalitiche – con particolare attenzione ai meccanismi di introiezione e di proiezione – allo scopo di comprendere le dinamiche profonde che portano, a livello sociale, all’accettazione dell’autorità. A questo proposito sono rimaste famose le vaste ricerche empiriche svolte in L’autorità e la famiglia (1936) e in La personalità autoritaria (1950).
Una visione meno pessimistica, o comunque oscillante, è presente in Herbert Marcuse (Eros e civiltà, 1955; L’uomo a una dimensione,1964), il quale, pur sottolineando gli effetti negativi della cultura ipertecnologica dominante che toglie importanza a qualsiasi discorso intorno ai fini, e della manipolazione culturale che crea falsi bisogni, recupera in chiave più positiva la psicanalisi. Nelle dinamiche del desiderio che essa analizza, Marcuse vede una base per riaffermare valori estetici ed edonistici offuscati dalle logiche repressive imposte dalla cultura del rendimento e del lavoro.
Le concezioni finora esposte insistono, pur in modo diverso, sul recupero di temi e suggestioni hegeliane e sull’analisi della soggettività e della prassi storicamente determinata. L’interpretazione del marxismo proposta da Louis Althusser (Leggere Il Capitale, 1965; Per Marx, 1967) si caratterizza invece per una critica radicale a questi concetti, in particolare a quello di soggettività in qualsiasi sua forma. Althusser rivendica alle analisi di Marx una radicale forma di antihegelismo, antiumanesimo e antistoricismo.
Riguardo al primo punto, la dialettica e il concetto di totalità marxiane sono, secondo Althusser, completamente diverse da quelle hegeliane. La totalità marxiana è una struttura nella quale le differenze non si danno, come in Hegel, solo per essere negate. La contraddizione principale (tra capitale e lavoro, tra forze produttive e rapporti di produzione) sussiste accanto a contraddizioni secondarie che sono altrettanto reali e agiscono sulla contraddizione principale. Quest’ultima risulta, per usare il linguaggio di Althusser, “surdeterminata”.
In questo senso allora la totalità marxiana è sì articolata in maniera gerarchica e la struttura dominante è effettivamente l’economia, ma quest’ultima non può mai essere isolata dagli altri livelli sovrastrutturali, Politica Diritto, Stato. Non esiste quindi un livello economico puro attingibile in sé, rispetto al quale gli altri livelli sovrastrutturali possono essere inseriti o rimossi a proprio piacimento per cogliere la vera essenza dei fenomeni.
Questa visione globale fonda in maniera compiuta, quelli che, secondo Althusser, sono gli altri aspetti centrali del pensiero marxiano della maturità in contrapposizione al periodo giovanile, cioè l’antiumanesimo e l’antistoricismo. I rapporti di produzione sono irriducibili a qualsiasi forma di soggettività antropologica. Gli individui, sono, secondo la terminologia marxiana, portatori di ruoli e funzioni all’interno della struttura economica. È questo insieme di ruoli e funzioni il vero soggetto (o meglio quindi il “non soggetto”) di una storia fatta di temporalità diverse e non sovrapponibili. Da questa visione complessiva della storia e della società discende l’impossibilità di definire un soggetto, che sia l’idea hegeliana o il proletariato, della storia e un fine ultimo di essa seppur consapevolmente posto. È stata questa la critica mossa ad Althusser dall’interno del partito comunista francese, che ha ribadito l’importanza e la necessità di una presa di posizione umanista.
Una critica più recente all’economicismo e all’oggettivismo, che approda però a un tentativo di recupero della soggettività in chiave non idealistica, è quella di Jurgen Habermas (Per la ricostruzione del materialismo storico, 1976; Teoria dell’agire comunicativo, 1981). Alla base delle visioni tradizionali del marxismo, egli sostiene, c’è una concezione tecnicistica del rapporto tra forze produttive e rapporti di produzione, sorretto da un modello strumentalistico di azione: la tecnica di produzione impone determinate forme di organizzazione del lavoro e attraverso di esse determina anche i rapporti di produzione corrispondenti. Per comprendere l’evoluzione sociale si deve invece fare riferimento anche ai processi di apprendimento individuali e collettivi. Questi processi di apprendimento si incarnano in livelli sempre più elevati della coscienza morale, secondo lo schema proposto dallo psicologo morale L. Kohlberg che Habermas riprende.
Il punto d’arrivo della ricostruzione non dogmatica del marxismo è rappresentata da quell’insieme di autori noti come marxismo analitico – J. Elster (Making Sense of Marx, 1985); J. Roemer (A General Theory of Exploitation and Class, 1982); G. Cohen (Karl Marx’s Theory of History. A Defence, 1978) – che ha tentato un nuovo approccio ai concetti fondamentali del materialismo storico, quali sfruttamento, classe, lotta di classe, agire collettivo, usando gli strumenti e le tecniche della scienza sociale analitica contemporanea. Questi concetti devono essere riletti in chiave non funzionalista (qualcosa accade perché è utile al dominio della classe capitalista o in vista del futuro instaurarsi del socialismo), connettendosi sempre al livello della razionalità individuale. Lo sfondo teorico del marxismo analitico sono la teoria della scelta razionale e l’individualismo metodologico.
Accanto al marxismo più propriamente filosofico e teorico è da segnalare un’intensa attività di ricerca da parte di studiosi di varie nazionalità – in particolare inglesi, americani, italiani, francesi, tedeschi – su problematiche più circoscritte, soprattutto legate alla teoria economica marxiana così come sviluppata ne Il Capitale. Queste problematiche riguardano la teoria del valore, il problema della trasformazione dei valori in prezzi, la caduta del saggio del profitto, le crisi economiche, la teoria della moneta e del credito. Attraverso un confronto critico a volte aspro con altre scuole di pensiero economico, quali la teoria neoclassica e sraffiana, questi vari aspetti della teoria marxiana sono stati sottoposti a revisioni e sistemazioni teoriche nonché a diversi tentativi di verifica empirica.