Marxismo
di Lucio Colletti
Marxismo
sommario: 1. Il materialismo dialettico. 2. La gnoseologia del materialismo dialettico. 3. L'influenza di Engels. 4. Il marxismo come scienza. 5. Il marxismo occidentale. 6. Antonio Gramsci. 7. Della Volpe e Althusser. 8. Questioni di teoria economica. □ Bibliografia.
1. Il materialismo dialettico
Il marxismo teorico del XX secolo è prevalentemente, sebbene non esclusivamente, ‛materialismo dialettico'. È materialismo dialettico l'ideologia dei partiti comunisti. Materialismo dialettico, la filosofia ufficiale di Stato, dove quei partiti hanno assunto il potere. La dottrina deriva essenzialmente dagli scritti filosofici di Engels: in particolare dall'Antidühring (1878), dal Ludwig Feuerbach (1888) e dalla Dialettica della natura (1927). Ma, se i principi sono del XIX secolo, l'emergere del materialismo dialettico come dottrina a sé, distinta e sovrapposta al ‛materialismo storico', è un fenomeno dei primi lustri del sec. XX: un fenomeno da ascrivere, soprattutto, alle opere filosofiche di Plechanov e di Lenin.
La struttura della dottrina è quanto di più semplice si possa immaginare. Dall'identità di materia e movimento (non c'è materia senza movimento, né movimento senza materia), si passa all'affermazione che il movimento è unità di ‛essere' e ‛non essere' insieme, cioè contraddizione dialettica (un corpo in movimento ‛è' e ‛non è', in pari tempo, nello stesso luogo); infine, dalla tesi che la materia è movimento e il movimento una contraddizione, si conclude che la materia è contraddizione dialettica.
Le fonti storiche della dottrina, che vengono indicate, sono in genere due: da un a parte la filosofia di Hegel, dall'altra il materialismo sei e settecentesco, culminato da ultimo nel materialismo di Feuerbach. La dottrina sarebbe una sintesi creatrice di queste due diverse e opposte tradizioni. Marx ed Engels avrebbero estratto dall'involucro del sistema idealistico e conservatore di Hegel la dialettica (cioè il metodo ‛rivoluzionario'), che in Hegel era mera dialettica dei concetti, per estenderla al campo dei fenomeni storici e naturali. Senza la dialettica, d'altro canto, il materialismo sarebbe materialismo meccanicistico e metafisico.
Il primo dei principi che abbiamo sopra ricordato - l'identità di materia e movimento - sembra a prima vista confermare l'ascendenza della dottrina nel materialismo scientifico seicentesco. Il principio parrebbe tolto, in particolare, dalla filosofia di Hobbes. In realtà, a un esame più attento, si vede che non è così. La meccanica moderna nasce con la formulazione del ‛principio d'inerzia'. Il movimento, per essa, è uno ‛stato' tanto quanto la quiete. Nella nuova concezione sviluppatasi da Galilei e Cartesio fino a Newton, il moto non è più, come da Aristotele in avanti si era creduto, per circa duemila anni, un processo di mutamento opposto a quello status vero e proprio che è la quiete; bensì è anch'esso uno status, vale a dire qualcosa che, come la quiete, non implica affatto mutamento. Nel caso del materialismo dialettico, viceversa, la concezione del movimento non è quantitativa ma qualitativa. Il movimento è qui, di nuovo (come già per Aristotele), mutamento, cangiamento, divenire. Siamo, com'è evidente, in un ambito di pensiero del tutto diverso.
Ciò è confermato anche dal secondo dei principi sopra ricordati: che il movimento è unità di ‛essere' e ‛non essere' insieme, cioè contraddizione. La tesi non ha nulla a che vedere col materialismo. Si tratta del celebre argomento di Zenone d'Elea contro il movimento (il movimento è impossibile perché è contraddizione), ripreso da Hegel - sebbene con intenti opposti - nel libro II della Scienza della logica. Hegel, che difende l'oggettività della contraddizione e, quindi, della dialettica (‟Tutte le cose sono in se stesse contraddittorie, e ciò propriamente nel senso che questa proposizione esprima anzi, in confronto delle altre, la verità e l'essenza delle cose"; v. Hegel, 1812-1816; tr. it., vol. II, p. 490), qui riprende esplicitamente l'argomento di Zenone volgendolo ad altro significato: ‟Persino l'esterior moto sensibile - scrive - non è che il suo [della contraddizione] esistere immediato. Qualcosa si muove, non in quanto in questo Ora è qui, e in un altro Ora è là, ma solo in quanto in un unico e medesimo Ora è qui e non è qui, in quanto in pari tempo è e non è in questo Qui. Si debbon concedere agli antichi dialettici le contraddizioni ch'essi rilevano nel moto, ma da ciò non segue che pertanto il moto non sia, sibbene anzi che il moto è la contraddizione stessa nella forma dell'esserci" (ibid., p. 491).
Che questa affermazione di Hegel sul movimento coincida, in tutto e per tutto, col principio del materialismo dialettico, su richiamato, è difficile negare. Il testo di Engels, cui si deve la formulazione anche di questo principio, ne è la prova: ‟Lo stesso movimento - scrive Engels nell'Antidühring - è una contraddizione; già perfino il semplice movimento meccanico locale si può compiere solamente perché un corpo in un solo e medesimo istante è in un luogo e nello stesso tempo in un altro luogo, è in un solo e medesimo luogo e non è in esso. E il continuo porre e nello stesso tempo risolvere questa contraddizione è precisamente il movimento" (v. Engels, 1894; tr. it., p. 133).
Rimarrebbe ora da dire qualcosa sul terzo principio: che la materia è dialettica. Ma, poiché questo principio chiama in causa, in modo ancora più stretto, il rapporto del materialismo dialettico con Hegel, sarà bene, forse, far precedere qualche considerazione.
Abbiamo già accennato, sia pure di scorcio, all'interpretazione della filosofia di Hegel in chiave di contraddizione tra il metodo e il sistema. Il metodo dialettico è l'elemento rivoluzionario, il sistema idealistico quello conservatore. Si tratta di un'interpretazione di antica data. Essa risale all'inizio degli anni quaranta del secolo scorso, quando Engels era ancora nel Doktorenclub berlinese. Venne poi ripresa da Engels stesso, in anni molto più tardi, in occasione della pubblicazione del Ludwig Feuerbach. È una formula interpretativa notevolmente diversa da quella cui Marx accenna nel poscritto alla seconda edizione del Capitale, quando, dopo aver osservato che in Hegel la dialettica ‟è capovolta", aggiunge: ‟bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico". È chiaro che, con la metafora del nocciolo e del guscio, qui Marx accenna a una distinzione o, addirittura, a un taglio chirurgico da operare ‛dentro' la dialettica stessa di Hegel. Il materialismo dialettico, invece, non ha prestato attenzione alla differenza di queste due formule. Esso ha preferito coniugarle e congiungerle insieme. Il ‟nocciolo razionale" da salvare è così diventata la dialettica tutt'intera, il ‟guscio mistico" da gettar via il sistema.
È evidente che, se la formula della contraddizione in Hegel tra il metodo e il sistema deve significare qualcosa, essa non puo voler dire altro che questo: che, a causa del sistema idealistico, la dialettica in Hegel è costretta a essere soltanto dialettica di puri concetti, dialettica di idee e non anche delle cose. L'originalità del materialismo dialettico - allora - consisterebbe nel fatto di aver applicato la dialettica alla materia, cioè di averla estesa dal campo delle idee a quello dei fenomeni storici e naturali. È un fatto che questo è il modo in cui il materialismo dialettico presenta se stesso. Il tratto specifico, cui esso affida la sua originalità, è appunto la dialettica della materia. Non a caso, una delle opere, che la dottrina considera tra le più importanti, è la Dialettica della natura di Engels. Senonché, a un esame attento, tutto si presenta meno semplice e lineare.
Ciò che è difficile concedere, in particolare, è che nella filosofia di Hegel manchi una dialettica delle cose. È vero il contrario: tutta la sua filosofia è, in un certo senso, una dialettica della materia. Abbiamo già incontrato, incidentalmente, l'affermazione, contenuta nel libro II della Scienza della logica, che ‟tutte le cose sono in se stesse contraddittorie". È un'affermazione di principio che ricorre nei suoi scritti infinite volte. Hegel parla esplicitamente di ‟dialettica del finito". Ricorda, a ogni piè sospinto, che tutte le cose hanno la dialettica in sé. ‟Quando delle cose diciamo che son finite - scrive - con ciò s'intende [...] che la lor natura, il loro essere, è costituito dal non essere" (v. Hegel, 1812-1816; tr. it., vol. I, p. 128). Non solo: all'affermazione di principio tien dietro sempre l'esemplificazione. I casi più noti di dialettica della natura e della materia son forniti da Hegel per primo. Gli esempi dei ‛salti' dialettici della quantità in qualità e viceversa si trovano, per indicare uno dei tanti riferimenti possibili, nel paragrafo del libro I della Scienza della logica intitolato Linea nodale di rapporti di misura. Quasi superfluo, d'altra parte, ricordare la ricchezza strabocchevole di casi di dialettica della natura nell'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio e, soprattutto, nelle Aggiunte (Zusdtze) che ne integrano i paragrafi. Un esempio può valere per tutti: l'Aggiunta 1 al paragrafo 81 dell'Enciclopedia: ‟Tutto ciò che ci circonda - scrive Hegel - può essere considerato come un esempio della dialettica. Noi sappiamo che ogni finito, anziché essere un che di saldo e di definitivo, è mutevole e caduco, e ciò non è altro che la dialettica del finito, mediante la quale il finito, come ciò che è in sé l'altro di se stesso, è sospinto al di là di ciò che è immediatamente e ribalta nel suo opposto [...]. Noi affermiamo che tutte le cose (cioè ogni finito in quanto tale) vanno alla lor fine, e consideriamo perciò la dialettica come quella potenza irresistibile universale dinanzi alla quale nulla può mantenersi, per saldo e sicuro che possa anche sembrare. Con questa determinazione, naturalmente, la profondità dell'essenza divina, il concetto di Dio non è ancora esaurito; essa costituisce però, certamente, un momento essenziale in ogni coscienza religiosa. - La dialettica, inoltre, dà prova di sé in tutti i campi e le sfere particolari del mondo naturale e spirituale. Così per esempio nel movimento dei corpi celesti. Un pianeta sta ora in questo luogo, ma esso è in sé di essere anche in un altro luogo, e porta questo suo esser altro all'esistenza col fatto di muoversi. Parimenti dialettici si dimostrano gli elementi fisici, la manifestazione della cui dialettica è il processo meteorologico. E appunto questa dialettica è il principio che sta alla base di tutti i restanti processi naturali e in forza del quale la natura è insieme sospinta al di là di se stessa" (v. Hegel, 1927-1930, vol. I).
È un fatto che tutte le proposizioni principali del materialismo dialettico si trovano già formulate nell'opera di Hegel. Non a caso, quando Plechanov, nei suoi Contributi alla storia del materialismo, deve indicare che cosa sia, per Marx ed Engels, la ‛dialettica', non trova nulla di meglio che citare e trascrivere largamente (salvo, beninteso, il riferimento a Dio e alla religione) dalla Aggiunta al paragrafo 81 dell'Enciclopedia, che abbiamo sopra riportato. È dubbio, quindi, che si possa parlare di un'originalità teorica del materialismo dialettico. Il vero atto di fondazione della dottrina dovrebb'essere, in ogni caso, anticipato, ben prima della nascita di Marx e di Engels, all'opera stessa di Hegel.
Senonché, se non sono originali le proposizioni che il materialismo dialettico deriva da Hegel, è originale il modo in cui esso le interpreta. La filosofia di Hegel contiene una dialettica della materia o del finito non nel senso che ciò sia in contraddizione col principio idealistico che la ispira, bensì in pieno accordo e conformità con esso. I modi della dialettica della materia sono, per Hegel (si veda il suo scritto del 1801 sul Rapporto dello scetticismo con la filosofia), i tropi stessi dello scetticismo antico. Il rapporto essenziale che lega pirronismo e filosofia (idealismo), secondo Hegel, è che, con i suoi argomenti, lo scetticismo antico si rivolge contro la credenza del senso comune nell'esistenza delle cose, nella materialità del mondo; che esso è scepsi contro la materia. Dialettizzando le cose, mostrando che ciò che sembra ‛così e così' determinato ‛è' e ‛non è' così, quello scetticismo, dice Hegel, fa vacillare la certezza del senso comune nell'esistenza degli oggetti, sgombra il campo dal materialismo e prepara così l'accesso alla vera filosofia. Il suo limite è solo che, dopo aver operato quella distruzione, il pirronismo - dice Hegel - conclude negativamente, mentre la vera filosofia, cioè l'idealismo, va oltre: restaura il finito, prima dissolto dialetticamente, presentandolo come un'oggettivazione dell'Idea, cioè come incarnazione della Ragione dialettica (il Logos divino nel mondo).
In conclusione, la dialettica della materia adempie nella filosofia di Hegel una duplice funzione. Da un lato, dimostra che il mondo empirico-materiale non è una realtà autonoma o a sé stante, ma che piuttosto, a fondamento di esso, stanno le stesse determinazioni logico-razionali che sono proprie del pensiero dialettico, dell'Idea. Dall'altro, conferisce significato oggettivo a queste determinazioni logico-ideali (secondo il principio per cui la natura è l'alienazione dell'Idea), mostrandole incarnate e realizzate in tutte le figure del mondo storico e naturale. Il materialismo dialettico, invece, valuta questa presenza della dialettica della materia in modo diametralmente opposto. La interpreta come una forma superiore di materialismo; dopodiché deve concludere che essa convive, nella filosofia di Hegel, in aperto contrasto e contraddizione con il principio del suo idealismo, tante volte proclamato.
Questa linea interpretativa, che abbiamo ora accennato, è alla base dei celebri Quaderni filosofici, cioè dei commenti e delle note che Lenin prese a Berna, nel 1914-1915, nel corso della lettura della Scienza della logica, dell'Enciclopedia e di altre importanti opere di Hegel. A commento delle pagine, per es., in cui Hegel illustra l'affermazione che ‟tutte le cose sono in se stesse contraddittorie", Lenin annota: ‟Movimento e ‛automovimento' [...], ‛trasformazione', ‛movimento è vitalità', ‛principio di ogni automovimento', ‛impulso' (Trieb) al ‛movimento' e all'‛attività' - opposto al ‛morto essere': chi crederebbe che questo è il nocciolo dell'‛hegelismo', dell'astratto e astruso [...] hegelianismo? Questo nocciolo, lo si dovette scoprire, afferrare, ‛salvare superandolo', liberarlo dalla scorza, ripulirlo, cosa che Marx ed Engels hanno anche effettuato" (v. Lenin, 1936; tr. it., p. 129). Come già Engels, quindi, anche Lenin vede in questa pagina della Scienza della logica il ‟nocciolo" da salvare della filosofia di Hegel, l'irrompere di un materialismo genuino in contraddizione con il ‟guscio" del sistema e con la ‟mistica dell'Idea". La convinzione che lo domina è quella stessa che egli ha innalzato a criterio di tutta la sua lettura di Hegel: ‟mi sforzo in generale di leggere Hegel materialisticamente; Hegel è il materialismo messo testa all'ingiù (secondo Engels) - vale a dire elimino in gran parte il buon Dio, l'assoluto, l'Idea pura, ecc." (ibid., p. 92).
Tuttavia i debiti del materialismo dialettico verso Hegel non si arrestano qui. Un punto cruciale del pensiero hegeliano che passa di peso nella nuova filosofia è quello della contrapposizione tra logica cosiddetta formale e logica dialettica. Se ogni particolare, ogni finito è unità di ‛essere' e ‛non essere' insieme, unità degli opposti e, quindi, ‛totalità', è evidente che solo la logica dialettica si rivelerà capace di afferrare la realtà in questa sua struttura autocontraddittoria. La logica cosiddetta formale, la logica che si ispira al principio di non-contraddizione, non potrà non manifestare, in questo caso, la sua insufficienza. Essa è la logica che procede secondo l'esclusione degli opposti contraddittori. Per essa, A esclude non-A, l'‛essere' il ‛non essere' e viceversa. Riferita a quel tipo di realtà, che abbiamo descritto, la logica della non-contraddizione deve risultare necessariamente unilaterale e astratta. Unilaterale, perché coglie solo un aspetto del reale, anziché quell'aspetto ‛e' il suo contraddittorio, cioè la totalità; astratta, perché isola quest'aspetto, cioè un estremo, separandolo dall'unità degli opposti di cui esso fa parte.
In questa critica della logica formale Hegel è coerente con tutta la sua filosofia. Il torto di quella logica, ai suoi occhi, è che essa è legata ancora al materialismo ingenuo e al senso comune. Tenendo fermo il particolare (il ‛morto essere') ed escludendo da esso l'opposto, quella logica si rifiuta di risolvere il particolare nell'unità degli opposti, cioè nella totalità. Oppone resistenza a che il particolare sia esibito come il contrario di sé: cioè esso, che è la ‛parte', come la ‛totalità'. In questo senso, il difetto della logica della non-contraddizione è, per Hegel, che essa dà credito ancora alle determinazioni empiriche, impedendo alla certezza sensibile di vacillare, cioè di confondersi e annullarsi nella relazione dialettica. Non a caso, Hegel chiama quella logica ‟dogmatica". La chiama così, perché, coerentemente, il dogmatismo è, per lui, il materialismo e il senso comune. Questa stessa situazione si ripresenta anche nel materialismo dialettico. Ma con una variante. Il materialismo dialettico, che, giustamente, considera che il dogmatismo sia la metafisica, traduce il discorso di Hegel in questa forma: la logica della non-contraddizione è la metafisica e, viceversa, la logica dialettica, la logica idealistica, è la logica veramente materialistica, la logica del concreto. Ne risulta così questo paradosso (almeno per una filosofia che intenda propugnare il materialismo): il senso comune, la pratica quotidiana, dove vige il principio di non-contraddizione, è dichiarato il regno della metafisica; e, viceversa, la vera metafisica, cioè il rovescio del senso comune e della pratica che lo ispira, è dichiarata conoscenza concreta. La maniera di pensare propria della logica formale, dice Engels, ‟ci appare a prima vista estremamente plausibile per il fatto che essa è proprio quella del cosiddetto senso comune. Solo che il senso comune, per quanto sia un compagno tanto rispettabile finché sta nello spazio compreso fra le quattro pareti domestiche, va incontro ad avventure assolutamente sorprendenti appena si arrischia nel vasto mondo dell'indagine scientifica; e la maniera metafisica di vedere le cose, giustificata e perfino necessaria in campi la cui estensione è più o meno vasta a seconda della natura dell'oggetto, tuttavia, ogni volta, prima o poi, va a urtare contro un limite, al di là del quale diventa unilaterale, limitata, astratta e si avvolge in contraddizioni insolubili, perché, attenendosi alle cose singole, dimentica il loro nesso, attenendosi al loro essere, dimentica il loro sorgere e tramontare, attenendosi al loro stato di quiete, dimentica il loro movimento, perché stando davanti a grandi alberi, non vede la foresta" (v. Engels, 1894; tr. it., p. 28).
La conseguenza più importante di questa adozione, da parte del materialismo dialettico, del giudizio di Hegel sul rapporto tra logica formale e logica dialettica, si riflette nella valutazione della scienza. Per Hegel, la scienza è - come il senso comune e l'‛ordinario intelletto umano' - ancora prigioniera del materialismo, cioè della distinzione tra pensiero ed essere. Essa si ispira al principio di non-contraddizione perché è ancora vincolata alla ‛cerchia della percezione', cioè alla sfera dell'esperienza empirico-sensibile. Galilei e Keplero, dice Hegel, si acquistarono meriti immortali innalzando i ‛quanti empirici' della natura a momenti di un rapporto razionale, cioè di una ‛legge'. Ma ciò non basta. Mentre, infatti, essi ‟provarono le leggi da loro trovate col mostrar che a esse corrisponde la cerchia delle singolarità della percezione", si deve esigere ‟una dimostrazione ancora più alta di queste leggi" (v. Hegel, 1812-1816; tr. it., vol. I, p. 384), cioè una dimostrazione che le liberi dal loro condizionamento nell'esperienza e le risolva in relazioni di puri concetti. Ciò che può fare la filosofia, non la scienza.
Questo giudizio, secondo cui la scienza è ‛dogmatica' perché subordinata alla necessità di controllare le sue leggi sperimentalmente, cioè mettendole alla prova della ‛cerchia della percezione', trapassa da Hegel nel materialismo dialettico, con la variante, cioè con lo scambio di significati, che abbiamo sopra accennato. Per Hegel, il dogmatismo della scienza e il suo uso della logica della non-contraddizione derivano dal fatto che la scienza è ancora intrisa di materialismo. Per il materialismo dialettico viceversa (il quale ritiene, giustamente, che il dogmatismo sia la metafisica, ma ha il torto di far valere questo principio entro uno schema di discorso desunto da Hegel e, quindi, orientato in tutt'altro senso), le conclusioni si coordinano, paradossalmente, in quest'altro modo: che, in quanto la scienza fa uso del principio di non-contraddizione, essa non è veramente scienza ma metafisica e che, per divenire scienza effettiva, essa deve convertirsi in conoscenza dialettica della natura. In altre parole, il materialismo dialettico scambia la ‛dialettica della materia' dell'idealismo assoluto per materialismo e il principio materialistico-scientifico di non-contraddizione per il principio della metafisica. Prende per scienza la metafisica, cioè la filosofia romantica della natura; e per metafisica la scienza effettiva, cioè la scienza sperimentale moderna.
Quest'insieme di circostanze permette di spiegare una singolarità altrimenti incomprensibile, cioè come il materialismo dialettico, malgrado la sua indubbia professione di fede a favore della conoscenza scientifica, si sia sempre trovato, di fatto, in un atteggiamento critico-negativo verso la scienza effettiva. Esso riconosce, ovviamente, che la scienza moderna ha realizzato negli ultimi quattrocento anni progressi giganteschi, ma addita in questa scienza un grave limite di metodo consistente nel fatto che essa ha isolato i fenomeni, li ha classificati, li ha sezionati, perdendo però il loro nesso d'assieme. Questo metodo, che ha fatto nascere l'abitudine di concepire le cose e i fenomeni della natura nel loro isolamento reciproco, avrebbe prodotto (già a detta di Engels) una maniera di vedere le cose che, passando dalla scienza della natura nella filosofia, ha determinato poi la limitatezza specifica degli ultimi secoli, cioè il ‛modo di pensare metafisico'. A confronto di questa scienza, il materialismo dialettico esalta la grandezza della filosofia ionica antica. In essa, naturalmente, proprio perché non si era ancora arrivati allo smembramento, all'analisi della natura, il nesso d'assieme dei fenomeni naturali è più intuito che dimostrato nei dettagli. Ciò non toglie che, malgrado questa insufficienza, si debba guardare a quella filosofia come a un modello da restaurare.
Si delinea, così, una sorta di visione ciclica a tre stadi, di origine hegeliana ma dall'andamento assai popolare. Nel primo stadio, segnato dalla filosofia ionica, la visione del Tutto oscura quella delle parti. Nel secondo, rappresentato dalla scienza moderna, la visione dei particolari fa perdere quella della totalità, cioè del nesso d'assieme. Nel terzo, infine, che dovrà essere riempito dalla scienza nuova prodotta e favorita dal materialismo dialettico, si ristabilisce la totalità ma, questa volta (a differenza della filosofia ionica), come una totalità ricca di molte determinazioni.
Ciò che può consentire questa trasformazione della scienza è, soprattutto, una rivoluzione nel metodo. La scienza deve abbandonare il modo metafisico di pensare e familiarizzarsi con il pensiero dialettico. L'uso della logica dialettica le permetterà di raccogliere la moltitudine, sterminata ma disorganica, delle sue conoscenze sotto le tre grandi leggi della dialettica: l'unità degli opposti, la negazione della negazione, la conversione della quantità in qualità e viceversa. Queste leggi, infatti, non essendo empiriche al modo delle leggi scientifiche propriamente dette né essendo quindi legate a un particolare ambito di validità, permettono di abbracciare il vasto quadro d'assieme della natura, unificando i vari campi tra loro e mostrando che fenomeni diversissimi l'uno dall'altro - come, per es., i fenomeni fisici, o biologici, o psicologici, o storici - sono governati dagli stessi principî. E questo appunto - spiega Engels - è il merito di una legge come, per es., la negazione della negazione: che essa è ‟una legge di sviluppo estremamente generale della natura, della storia e del pensiero e che appunto perciò ha un raggio d'azione e un'importanza estremamente grandi; legge che, come abbiamo visto, risalta nel mondo animale e vegetale, nella geologia, nella matematica, nella storia, nella filosofia" ecc. (v. Engels, 1894; tr. it., p. 154).
Quale sia la fecondità euristica di questi filosofemi del materialismo dialettico sulla scienza, è difficile dire (o, forse, fin troppo facile). Ciò che si può osservare è che, dopo un secolo dalla composizione della Dialettica della natura, il programma della dialettizzazione delle scienze non sembra aver registrato il pur minimo progresso. I manuali del materialismo dialettico ripetono monotonamente, seppure in cento lingue diverse, gli esempi ben noti di presunti casi di dialettica della natura, contenuti nell'omonima opera di Engels, che li aveva a sua volta desunti dalla filosofia della natura di Hegel. Ma, come è stato tante volte osservato e, recentemente, anche dal biologo francese J. Monod, ‟questi esempi illustrano soprattutto l'entità dei guai epistemologici provocati dall'uso ‛scientifico' delle interpretazioni dialettiche". ‟Fare della contraddizione dialettica la ‛legge fondamentale' di ogni movimento, di ogni evoluzione, è come tentare di sistematizzare un'interpretazione soggettiva della Natura, che permetta di scoprire in essa un progetto ascendente, costruttivo, creatore; di renderla decifrabile e moralmente significativa. È ancora la ‛proiezione animistica'" (v. Monod, 1970; tr. it., p. 48).
E tuttavia sarebbe un errore limitarsi a considerare l'interpretazione della scienza prospettata dal materialismo dialettico come un innocente superfiuità filosofica. Giacché, fin dalle origini e poi, sempre di nuovo, nel corso della sua storia ripetitiva, quella interpretazione si è rivelata capace di opporre una dura resistenza al progresso del sapere scientifico. Lo stesso Engels fu indotto a rifiutare, in nome della dialettica, due tra le più grandi scoperte del suo tempo: il secondo principio della termodinamica e (malgrado la sua ammirazione per Darwin) l'interpretazione puramente selettiva dell'evoluzione. Più tardi, in nome sempre degli stessi principi, il materialismo dialettico russo ha opposto critiche, tanto aprioristiche quanto severe, alla teoria della ‛relatività generale' di Einstein. Impossibile, in questa sede, enumerare i capitoli di questa storia tra le più oscure. In essa compaiono gli incitamenti di Ždanov ai filosofi russi di muovere all'attacco delle ‟diavolerie kantiane della scuola di Copenaghen", cioè di debellare, con le armi del materialismo dialettico, il ‟principio di complementarità" di N. Bohr. Così come vi compaiono le accuse medievali di Lysenko (presto seguite dallo sterminio fisico degli avversari) contro i genetisti classici, rei di sostenere una teoria assolutamente incompatibile con il materialismo dialettico e, perciò, necessariamente falsa. Qui vorremmo solo completare questo capitolo della nostra esposizione prendendo, brevemente, in esame l'epistemologia o, per meglio dire, la teoria della conoscenza del materialismo dialettico.
2. La gnoseologia del materialismo dialettico
Il principio fondamentale della gnoseologia del materialismo dialettico è costituito dalla cosiddetta ‛teoria del rispecchiamento' (Widerspiegelungstheorie). Embrioni di questa teoria sono contenuti nell'opera filosofica di Engels e, in particolare, nel Ludwig Feuerbach. Tuttavia, l'elaborazione vera e propria di essa risale a Materialismo ed empiriocriticismo (1909) di Lenin. Si tratta, nei suoi lineamenti essenziali, di una ripresa della teoria aristotelica della verità come ‛corrispondenza' di pensiero ed essere. Ma, dissepolta e ricostruita, per così dire, nell'ignoranza della sua fonte classica: giacché, all'epoca di Materialismo ed empiriocriticismo, Lenin non aveva ancora letto Aristotele (ne leggerà la Metafisica solo nell'inverno 1914-1915).
Il nucleo della teoria del rispecchiamento consiste in poche affermazioni. La prima è quella dell'oggettività o esteriorità del reale, cioè dell'essere materiale e sensibile, rispetto al pensiero. La seconda è l'affermazione della piena conoscibilità del reale da parte del pensiero: cioè che il pensiero può, in via di principio, penetrare interamente la realtà, perché infinito al pari di essa. La terza, infine, è l'affermazione dell'inesauribilità del reale da parte del pensiero: il che vuoi dire che, se il reale è comprensibile dalla mente, esso tuttavia non si risolve mai interamente nel pensiero, non si identifica con esso, ma lo trascende perennemente, così che la nostra conoscenza è, di volta in volta, solo una conoscenza approssimata, perfettibile, ma mai capace di adeguarsi perfettamente alla realtà.
Nell'elaborazione di Lenin questa teoria presenta alcune insufficienze inevitabili in ogni trattazione non specialistica dell'argomento. Colpisce, così, che, pur prendendo Lenin a modello di conoscenza la forma del conoscere scientifico, egli non riesca nella sua analisi a districare chiaramente la differenza che vi è tra sensazione e concetto: donde l'assenza, nel suo scritto, di una teoria dell'ipotesi e della legge scientifica propriamente detta. Tuttavia, malgrado queste mende e malgrado l'intrusione nel testo di molti elementi ideologici e politici, l'esposizione di Lenin presenta, quando si guardi alla sostanza, alcuni innegabili pregi. Ha il pregio, anzitutto, di aver riproposto la teoria classica della verità (inscindibile da ogni assunto veramente materialistico) in un'epoca di dominio pressoché incontrastato dell'idealismo soggettivo e del positivismo. Ma ha il merito anche di aver elaborato, seppure quasi solo istintivamente, alcuni temi di fondo che, se fossero stati seriamente ragionati (anziché essere oggetto di vacue celebrazioni), avrebbero potuto, almeno in parte, correggere alcuni dei più gravi sviluppi successivi del materialismo dialettico.
Alludiamo, in particolare, a quella importante conclusione dell'opera - ancora da meditare per gran parte del marxismo contemporaneo - che è la distinzione tra il concetto filosofico o ‛gnoseologico' e il concetto ‛scientifico' di materia: distinzione alla luce della quale si può forse sperare di introdurre qualche elemento di razionalità nel controverso e confuso problema del rapporto tra marxismo e scienze della natura. E, infatti, alla luce di quella distinzione, Lenin afferma che, mentre, in quanto materialismo filosofico, il marxismo è interessato ad affermare e far valere il ‛concetto gnoseologico di materia' (per il quale l'‛unica' proprietà della materia, che interessi, è di essere una realtà obiettiva, esterna al pensiero), il marxismo stesso non ha e non deve avere, invece, nulla da dire circa le ‛proprietà scientifiche' di questa materia (cioè come essa risulti strutturata all'analisi di laboratono), dovendosi in ciò rimettere interamente alle conclusioni del ricercatore. A questo modo, come si accennava, il rapporto tra il marxismo e le scienze della natura sembra trovare una più ragionevole impostazione. In base a essa, infatti, Lenin riconosce, bensì, che il marxismo è direttamente interessato a tutta la problematica ‛gnoseologica' che gravita intorno alla ricerca scientifica: per esempio, che esso è interessato a combattere quelle tipiche extrapolazioni concettuali per cui la scomparsa, al livello della fisica moderna, di certe proprietà della materia, che prima sembravano assolute, diviene pretesto nelle mani del filosofo idealista per conclusioni di ordine gnoseologico e metafisico del tipo: ‛la materia è scomparsa'. Solo che, proprio in quanto, per es. ‟la differenza tra le due scuole della fisica contemporanea è ‛soltanto' filosofica, soltanto gnoseologica" (v. Lenin, 1909; tr. it., p. 261), il marxismo deve tener ben presente, dice Lenin, che ‟l'unica proprietà della materia il cui riconoscimento è alla base del materialismo filosofico è la proprietà di ‛essere una realtà obiettiva', di esistere fuori della nostra coscienza" (ibid., p. 243), ovvero che ‟in gnoseologia il concetto di materia non ha ‛nessun altro' significato all'infuori di ‛questo': realtà obiettiva esistente indipendentemente dalla coscienza umana e rispecchiata da essa" (ibid.). Per il resto - oltre a questo riconoscimento della realtà obiettiva che è di ordine ‛gnoseologico' e che è già implicito nella ricerca concreta dello scienziato - il marxismo non ha assolutamente, dice Lenin, alcuna condizione da porre allo sperimentatore. Esso infatti - non dovendo essere una filosofia della natura - non ha nulla da dire circa la struttura e le proprietà del mondo esterno, ma lascia che sia compito esclusivamente della scienza indagarle e scoprirle.
Abbiamo insistito così a lungo su questa distinzione tra il concetto scientifico e quello filosofico di materia perché a noi sembra che essa collochi il pensiero di Lenin, come risulta almeno da quest'opera, su un versante diverso da quello del materialismo dialettico vero e proprio. Alla luce di quella distinzione, infatti, non è difficile vedere che tutta una serie di affermazioni sulla struttura e sulle proprietà della materia, che, secondo Lenin, sarebbe compito esclusivo della ricerca scientifica definire, sono invece avocate da Engels alla filosofia. Ci riferiamo, così dicendo, non solo alle affermazioni di Engels sulla struttura necessariamente dialettica della materia, ma anche al programma da lui delineato della progressiva dialettizzazione delle scienze, cioè al compito da parte delle scienze (e più ancora, forse, da parte di quella sorta di scientia scientiarum che, per lui, fu la filosofia) di generalizzare i loro risultati fino a incastonarli nelle tre grandi leggi della dialettica, così da ottenere (come dice nel Feuerbach) ‟non soltanto il nesso che esiste tra i processi della natura nei singoli campi, ma anche il nesso che unisce i diversi campi tra di loro, e di poter fornire un quadro sinottico dell'assieme della natura in forma approssimativamente sistematica, servendoci dei fatti fornitici dalle stesse scienze naturali empiriche" (v. Engels, 1888; tr. it., p. 55).
Senonché differenze altrettanto profonde (anche se, naturalmente, sempre taciute dal marxismo ufficiale per la sua intima vocazione esclusivamente celebrativa) sembra a noi di poter rilevare anche nel campo della ‛teoria del rispecchiamento' in senso specifico. Mentre, infatti, Materialismo ed empiriocriticismo mostra per lo più di intendere bene che il materialismo in gnoseologia non significa soltanto esteriorità dell'essere rispetto al pensiero ma significa, più ancora,‛eterogeneità' dei due, così da concludere, opportunamente, per il carattere non esauriente ma approssimato e relativo, cioè sempre correggibile, delle nostre conoscenze, non altrettanto sembra che si possa dire di alcuni cenni in proposito di Engels. Anche in questo caso, la sua impostazione sembra condizionata in modo decisivo da quella di Hegel. Engels parla del ‟rispecchiamento" nel Ludwig Feuerbach, a proposito della ‟riflessione" delle leggi del mondo esterno da parte del pensiero. Ma, con echi spinoziani e hegeliani assai evidenti, egli prospetta ‟queste due serie" (v. Engels, 1888; tr. it., p. 51) di leggi come ‟identiche nella sostanza" (si tratta in entrambi i casi, infatti, delle tre leggi della dialettica) e differenti solo ‟nell'espressione" (in quanto, nel mondo esterno, le leggi della dialettica operano inconsapevolmente e nel nostro pensiero, invece, in modo consapevole). L'impressione che ne risulta, se si vuol prestare un senso rigoroso alle parole, è quella piuttosto di una filosofia dell'identità, anziché di una teoria materialistica della conoscenza. In quanto le due serie dileggi sono ‛identiche', la loro compenetrazione, nella conoscenza, non si può immaginare che perfetta e assoluta. Si delinea, così, piuttosto una concezione ‛essenzialistica' della verità che non una teoria della conoscenza come approssimazione.
È importante avere ben chiaro questo punto perché, mentre nell'elaborazione di Lenin o, quanto meno, nelle sue pagine più valide, la ‛teoria del rispecchiamento' è una ripresa della teoria aristotelica della ‛corrispondenza' trasposta nel campo della conoscenza scientifica e perciò integrata (seppure insufficientemente) da una teoria della conoscenza sperimentale, negli ulteriori sviluppi del materialismo dialettico la linea che ha finito col prevalere è piuttosto l'altra, cioè quella dell'‛essenzialismo' platonizzante contenuta in nuce in talune enunciazioni di Engels. Ciò è tanto vero che, per esempio, Lukács, soprattutto in Il giovane Hegel, ha non soltanto esplicitamente attribuito la Widerspiegelungstheorie a Hegel, ma ha valutato positivamente lo stesso idealismo oggettivo di Schelling, il cui ‟rinnovamento della dottrina platonica delle idee" egli ha considerato ‟un materialismo misticamente capovolto".
3. L'influenza di Engels
Esaurita così l'esposizione dei lineamenti generali del materialismo dialettico, restano ora da considerare alcuni elementi storici e ideologici che la nostra trattazione sistematica ha finora taciuto. E stato già osservato, all'inizio, che, se i principî del materialismo dialettico sono del sec. XIX, l'emergere di esso come dottrina a sé, distinta e sovrapposta al ‛materialismo storico', è un fenomeno dei primi lustri del XX secolo, da ascrivere soprattutto alle opere filosofiche di Plechanov e di Lenin. Ciò vuol dire che il marxismo europeo dell'ultimo scorcio del sec. XIX e, più estesamente, potremmo dire il marxismo della Seconda Internazionale, o ha ignorato del tutto il materialismo dialettico o ne ha formulato solo incidentalmente qualche proposizione. Il marxismo, per esso, è stato, essenzialmente, il ‛materialismo storico'. Il ‛materialismo dialettico', come noi lo conosciamo, è una creazione pressoché esclusiva del marxismo russo. Qui gli elementi da considerare sarebbero molti. Ne indicheremo schematicamente solo alcuni. Nella socialdemocrazia tedesca l'interesse ai problemi filosofici è assai scarso. Il background ideologico è, per lo più, il darwinismo, o (ma solo più tardi e, comunque, sempre in posizione subordinata) il ‛ritorno a Kant'. Nella socialdemocrazia russa, invece, fin dall'inizio (e malgrado l'assenza di una grande tradizione filosofica nazionale), esorbitante attenzione è rivolta ai temi filosofici, soprattutto a partire dall'opera di Plechanov.
All'esplodere della Bernstein-Debatte, i marxisti ortodossi della socialdemocrazia tedesca replicano con argomenti economici e politici. Plechanov, viceversa, sviluppa la polemica sul terreno strettamente filosofico. Da considerare, inoltre, il dibattito che, intorno al 1908, si aprì nella socialdemocrazia russa (e soltanto in questa) contro i seguaci dell'empiriocriticismo di Mach e Avenarius. Anche in questa circostanza, si verifica un fenomeno che non ha riscontro presso altri partiti: la polemica dilaga nel campo della pura filosofia; alla pubblicazione di Materialismus militans di Plechanov nel 1908, tien dietro, l'anno dopo, quella di Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin.
Nel determinare questa situazione, può aver influito, almeno in parte, il modo in cui avvenne l'acquisizione del marxismo da parte di Plechanov. Essa si compì riprendendo la tradizione dei democratici rivoluzionari russi: in particolare, Belinskij, Herzen e Černysevskij. Ciò significò, di fatto, il collegamento, seppure al di là di un ampio arco di anni, con le polemiche sviluppatesi in Germania alla dissoluzione dell'hegelismo (la sinistra hegeliana, Feuerbach, ecc.): polemiche che avevano influenzato il pensiero dei democratici rivoluzionari russi e la cui memoria, invece, era andata completamente perduta nella socialdemocrazia tedesca. Di più: l'aspra lotta di fazioni sviluppatasi fin dall'inizio nel partito russo tra menscevichi e bolscevichi deve aver certo favorito la cristallizzazione sempre più rigida dell'‛ortodossia', anche e soprattutto a livello delle questioni filosofiche. Questa lotta, che legò progressivamente le sorti del materialismo dialettico alle sorti politiche di Lenin, spiega poi come, dopo la Rivoluzione d'Ottobre e soprattutto dopo la fondazione della Terza Internazionale, il materialismo dialettico sia divenuto la filosofia ufficiale dei partiti comunisti, rifluendo così fuori dai confini dell'Unione Sovietica.
Il modo in cui questa cristallizzazione della dottrina si è compiuta può essere esemplificato dall'articolo Karl Marx che Lenin scrisse nel giugno-novembre 1914, e che fu pubblicato parzialmente la prima volta nel Dizionario Enciclopedico Granat. All'esame della concezione materialistica della storia in Marx, Lenin fa precedere due paragrafi sul ‛materialismo filosofico' e la ‛dialettica', che serviranno poi di modello a Stalin nella redazione della prima parte del suo celebre scritto Del materialismo dialettico e del materialismo storico. La sovrapposizione del materialismo dialettico al materialismo storico è qui già compiuta. La trattazione del materialismo dialettico è costruita, appunto, raccogliendo le sparse considerazioni di Engels, che abbiamo esaminato, e organizzandole in forma di sistema. Dopodiché, il pensiero di Engels è automaticamente considerato espressione anche del pensiero di Marx: sebbene sia significativo che, nella costruzione di entrambi i paragrafi, Lenin non trovi supporti e materiali negli scritti di questo ma solo di quello.
Questa rigidità scolastica della dottrina, dopo d'allora, non sarà più posta in discussione. Oggetto di infinite ripetizioni, lo scheletro della dottrina resta intangibile nel corso del tempo. Dopo il suo ralliement al materialismo dialettico, persino uno studioso di vasta cultura come Lukàcs non è in condizioni di apportarvi innovazioni di sorta. Se si prescinde dal loro ricco contenuto storico-culturale e si guarda ai nodi più propriamente teorici, opere di grande impegno come Il giovane Hegel o La distruzione della ragione appaiono muoversi, ripetitivamente, nel quadro degli schemi tracciati.
Quest'innalzamento a paradigma, nelle questioni filosofiche, delle opere di Engels riuscirebbe naturalmente incomprensibile se non si tenesse conto delle vicende del lascito letterario di Marx. Il marxismo della fine del secolo scorso, e anche oltre, non dispone quasi di testi filosofici di Marx. Dispone - ed è pressoché tutto - delle poche pagine del Vorwort nel 1859 a Per la critica dell'economia politica e delle prefazioni al Capitale. La stessa Einleitung del 1857 ai Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, sebbene pubblicata da Kautsky nei primi anni del secolo, sembra passata quasi inosservata, tanto è difficile trovare negli scrittori del tempo (Lenin compreso) indicazioni che rinviino a essa. Alla fine del secolo, La sacra famiglia stessa è una rarità bibliografica: dopo averla cercata invano, Antonio Labriola ne chiede la copia in prestito a Engels. I più importanti degli scritti di Marx del periodo 1843-1846, che testimoniano della sua formazione filosofica, sono a quel tempo ancora sconosciuti. La Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, i Manoscritti economico-filosofici del '44 nonché, infine, l'Ideologia tedesca verranno pubblicati, per la prima volta, solo intorno all'inizio degli anni trenta del nostro secolo, in un momento, cioè, in cui l'‛ortodossia' del materialismo dialettico è da gran tempo già consolidata ed essi non possono apparire ormai che ‛documenti giovanili', cioè testimonianze di una fase di pensiero irrevocabilmente superata.
In questa situazione, si può intendere bene il ruolo e il significato sempre più importanti che, agli occhi della prima generazione di interpreti marxisti, doveva venire assumendo l'opera filosofica di Engels: in particolare l'Antidühring e il Ludwig Feuerbach (ché la Dialettica della natura verrà pubblicata postuma solo nel 1927). Anche a prescindere dagli stretti rapporti personali di Engels con tutti i principali rappresentanti della nuova generazione, è un fatto che la sua opera offriva proprio ciò che più sembrava mancare in quella di Marx. Lo sfondo filosofico, la ‛concezione generale', che l'opera prevalentemente economica di Marx lasciava intravvedere solo a tratti e in mezzo a tante difficoltà, negli scritti di Engels non solo veniva in primo piano come il contenuto principale, ma vi si trovava esposta con tale semplicità e chiarezza divulgativa, che nessuno degli interpreti dimenticò mai di farne l'elogio (v., per es., Kautsky, 1908, p. 27). Le testimonianze dei principali protagonisti non lasciano dubbi al riguardo. E tutti rilevano come il loro accostamento al marxismo si compì soprattutto attraverso l'opera di Engels. Nel commento al suo Carteggio con lui, Kautsky, ad es., sottolinea questa circostanza in più punti. ‟A giudicare - scrive - dall'influenza che l'Antidühring ha esercitato su di me, non vi è alcun libro che abbia tanto contribuito alla comprensione del marxismo come questo" (v. Engels Briefwechsel mit Kautsky, 1955, pp. 77-79). ‟Il Capitale di Marx è, certo, più potente. Ma solo attraverso l'Antidühring abbiamo preso a leggere e comprendere bene il Capitale" (ibid., pp. 82-83). Come ebbe a osservare più tardi anche Rjazanov, ‟la giovane generazione che iniziò la sua milizia politica verso il 1876-1880 apprese ciò che era il socialismo scientifico, quali erano i suoi principi filosofici e il suo metodo", soprattutto attraverso gli scritti di Engels. ‟Bisogna riconoscere - continua Rjazanov - che, per la diffusione del marxismo in quanto metodo e concezione del mondo, nessun libro dopo il Capitale ha fatto tanto quanto l'Antidühring. Tutti i giovani marxisti, Bernstein, Kautsky, Plechanov, che fecero le loro prime armi tra il 1880 e il 1885, si formarono su quest'opera" (v. Rjazanov, 1923; tr. it., p. 263).
Ma non solo la prima generazione: anche quella, più giovane, dell'austro-marxismo - nel riconoscere il suo debito particolare verso Engels - tenne sempre a sottolineare esplicitamente il ruolo e il significato speciale che l'opera di lui aveva avuto ai propri occhi. Dei due fondatori del materialismo storico, Engels era stato quegli che più aveva sviluppato la parte filosofico-cosmologica o di filosofia della natura, quegli che aveva ampliato il materialismo storico nel materialismo dialettico. Anche un pensatore così sottile come M. Adler, marxista e kantiano al tempo stesso, ancora nel 1920 affermava che proprio nell'opera di Engels era da ritrovare quella teoria filosofica generale, di cui già altri prima di lui avevano lamentato invece l'assenza in Marx. ‟Il grande e originale significato di Engels per lo sviluppo e la formazione del marxismo - scriveva Adler - sta nel fatto che fu appunto Engels che liberò il lavoro sociologico di Marx dalla specifica forma economica in cui esso si offriva a prima vista, per porlo nel grande quadro di una concezione generale della storia, procurando, con la sua grandiosa elaborazione di metodo e con il tentativo di un suo collegamento con le moderne scienze della natura, di slargare, per così dire, il pensiero marxista a concezione del mondo". E, poco oltre, Adler aggiungeva: ‟Engels è stato colui che ha perfezionato e coronato il marxismo", non solo in quanto ci ha dato ‟una sistematizzazione semplice del pensiero di Marx", ma in quanto, con la sua ricerca ‟originale e creatrice", ‟ha dato un fondamento alle analisi di Marx" (v. Adler, 1920, pp. 48-49).
4. Il marxismo come scienza
Tuttavia chi, malgrado tutto, seppe mettere veramente a frutto queste caratteristiche dell'opera di Engels fu, come si è detto, il marxismo russo di Plechanov e Lenin. Il marxismo di lingua tedesca prese, per lo più, un'altra strada. Insensibile ai problemi della filosofia, non per ristrettezza mentale ma per una scelta consapevole dettata dalla prevalente formazione positivistica, quel marxismo si ispirò, nei suoi maggiori rappresentanti, a un'interpretazione diversa del pensiero di Marx. Scelse, potremmo dire, la rappresentazione che Marx aveva dato della propria opera nella prefazione e, più ancora, nel poscritto alla seconda edizione del Capitale. L'idea che venne così in primo piano fu quella del marxismo come scienza: scienza delle leggi di movimento della società umana e, in particolare, delle ‟leggi naturali della produzione capitalistica", secondo l'espressione usata da Marx stesso nella prefazione al Capitale; e, quindi, scienza non dissimile, nella sostanza, dalle scienze della natura vere e proprie. Chiarendo, infatti, quale fosse l'oggetto della propria opera, Marx aveva scritto: ‟In sé e per sé, non si tratta del grado maggiore o minore di sviluppo degli antagonismi sociali derivanti dalle leggi naturali della produzione capitalistica, ma ‛proprio di tali leggi', di tali ‛tendenze' operanti ed effettuantisi con bronzea necessità. Il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato l'immagine del suo avvenire [...]. Anche quandò una società e riuscita a intravedere ‛la legge di natura del proprio movimento - e fine ultimo al quale mira quest'opera è di svelare la legge economica del movimento della società moderna, - non può nè saltare nè eliminare per decreto le fasi naturali dello svolgimento [...]. Il mio punto di vista [...] concepisce lo ‛sviluppo della formazione economica della società' come ‛processo di storia naturale'" (v. Marx, 1867-1894; tr. it., vol. I, pp. 32-34).
In questa prospettiva, il marxismo appare, essenzialmente, materialismo storico. E il materialismo storico, a sua volta, una spiegazione degli eventi storici in base al principio di causa. Una ferrea determinazione oggettiva presiede allo svolgimento della società. In quanto è una dottrina scientifica, il marxismo consiste fondamentalmente nella scoperta di nessi causali oggettivi. Esso rivela e analizza le leggi che fanno funzionare il sistema, descrive le contraddizioni che lo minano dall'interno e che ne segnano il destino. E tuttavia, in quanto è opera di scienza e non ideologia, esso non lascia che quest'analisi sia inquinata da ‛giudizi di valore' o da preferenze soggettive, bensì esprime solo ‛giudizi di fatto', giudizi oggettivi, affermazioni che, al limite, possono valere per tutti.
Le proposizioni della scienza sono all'indicativo. Esse non suggeriscono ‛scelte' o finalità. Dalle oggettive e imparziali constatazioni della scienza, è impossibile derivare imperativi. E il discorso sviluppato da Hilferding nella prefazione al Capitale finanziario (il discorso, press'a poco, di tutto il marxismo ortodosso della Seconda Internazionale). ‟Il marxismo è solo una teoria delle leggi del divenire della società". ‟Queste leggi che la concezione marxista della storia formula in generale, l'economia marxista le applica all'epoca della produzione delle merci". ‟Il marxismo, che è dottrina scientificamente logica, oggettiva, non è vincolato a giudizi di valore". Il compito del marxismo in quanto scienza è di ‟descrivere nessi causali". Sebbene siano continuamente confusi tra loro, ‟socialismo" e ‟marxismo" non sono la stessa cosa. Il socialismo è un fine, una meta, un obiettivo della volontà e dell'azione politica. Il marxismo viceversa, in quanto scienza, è conoscenza obiettiva e imparziale. Si può accettare la scienza e non volere il fine. ‟Riconoscere la validità del marxismo dice Hilferding - non significa in alcun modo additare una linea di condotta pratica. Poiché una cosa è riconoscere una necessità, altra cosa è porsi al servizio di quella necessità" (v. Hilferding, 1910; tr. it., pp. 5-6).
Il tema domina tutte le discussioni del tempo. La preoccupazione principale è di dare al marxismo la forma di una scienza wertfrei. Il motivo è al centro anche del pensiero di Kautsky. ‟L'organizzazione socialdemocratica del proletariato egli scrive in Etica e concezione materialistica della storia - non può fare a meno nella sua lotta di classe dell'ideale morale, dell'indignazione etica contro lo sfruttamento e l'oppressione di classe. Ma quest'ideale non ha nulla a che vedere con il socialismo ‛scientifico' che è lo studio delle leggi che governano l'evoluzione dell'organismo sociale" (v. Kautsky, 1906; tr. it., p. 172). Ben a ragione, quindi, ‟Marx ha cercato di prescinderne per quanto possibile" (ibid.) nella sua opera. ‟Giacché, nella scienza, l'ideale morale è una fonte d'errori" (ibid.).
Da qui il problema, caratteristico di tutto il marxismo di lingua tedesca del tempo, del rapporto tra etica e scienza, ovvero la difficoltà di conciliare la visione del corso storico, come di un corso naturale oggettivo strettamente regolato da leggi, con l'esigenza di conservare un senso all'intervento e all'azione responsabile dell'uomo nella storia. Per Kautsky, il pericolo del dualismo è evitato in quanto la responsabilità morale risulta essa stessa un prodotto dell'evoluzione: la scelta morale è nulla più che un istinto; la ‛legge etica', un impulso di natura eguale all'istinto di procreazione. Per O. Bauer, invece, che ne recensisce criticamente il libro sulle pagine stesse della ‟Neue Zeit", vale il dualismo kantiano di Müssen e Sollen, giacché, se l'azione morale fosse un istinto, le verrebbe a mancare il suo requisito primo, cioè la libertà.
Quanto al resto, tuttavia, per entrambi, sia per Kautsky che per Bauer, vale il principio che, in quanto scienza, il marxismo è lo studio e l'analisi delle leggi causali che determinano il movimento e lo sviluppo della società. L'idea che domina, in altre parole, è che il marxismo è essenzialmente scienza della società, cioè una sociologia deterministica. In questo punto convengono tutti: persino M. Adler, il quale - in Kausalität und Teleologie (1904) e poi, più tardi, nei Marxistische Probleme (1913) - mostra tuttavia come ciò che, oggettivamente, si presenta nella forma di rapporti sociali causalmente determinanti, sia in realtà, soggettivamente, il prodotto dell'agire umano secondo rappresentazioni e fini, in un modo complesso e sottile ch'egli si sforza di derivare dalla Critica della ragion pura di Kant ma che, più verosimilmente, deriva forse da Fichte.
In tutta questa linea di pensiero, Marx appare, dunque, essenzialmente come uno scienziato della società. Secondo un motivo tipico nella cultura del tempo, il suo nome è avvicinato a quello di Darwin. Ciò che Darwin ha fatto nel campo delle scienze biologiche, Marx ha compiuto nel campo della scienza della società. Egli ha innalzato, per la prima volta, a scienza l'analisi dei fenomeni storico-sociali. Ha strappato alla metafisica l'ultima regione in cui essa dominava ancora incontrastata. Attraverso quest'opera, il sapere scientifico ha esteso il suo potere a tutti i campi dello scibile umano. Provincia dopo provincia, la filosofia ha visto sempre più restringersi l'area della sua influenza. Questi i motivi di fondo che stanno alla base del marxismo come scienza, scienza della storia, analisi scientifica della società. E poiché, con Marx, quest'analisi si è riversata nel Capitale, in direzione di questi problemi deve anche profondersi l'impegno dei discepoli. Poco produttiva nel campo della filosofia, troveremo questa linea interpretativa viva e vitale quando passeremo a occuparci dei problemi dell'analisi economica, dove essa ha prodotto opere come Il capitale finanziario di Hilferding e l'Accumulazione del capitale di R. Luxemburg.
Tuttavia, pur degna di grande rispetto, questa linea interpretativa celava al fondo un nodo irrisolto. La sua concezione della storia poneva l'accento sulle ‛leggi di movimento' che regolano la crescita, lo sviluppo e il tramonto di una determinata formazione economica della società. Essendo una visione del processo storico ricca e articolata, essa sapeva naturalmente far muovere sulla scena non soltanto le categorie economiche astratte ma gli agenti storico-sociali, che le incarnavano. Basta pensare alle pagine memorabili della Luxemburg nell'Accumulazione sulla penetrazione dirompente del modo capitalistico di produzione entro il tessuto delle vecchie economie naturali (come l'Egitto), per rendersi conto di come quella concezione sapesse fondere, magistralmente, economia e politica. Per riprendere una celebre considerazione di Schumpeter su Marx, si può ben dire che anche Hilferding e Rosa Luxemburg capirono e insegnarono ‟in modo sistematico come la teoria economica possa trasformarsi in analisi storica, e il racconto storico in histoire raisonnée" (v. Schumpeter, 1954; tr. it., p. 40). Senonché, coerentemente con la loro impostazione, quei marxisti tennero sempre a sottolineare la funzione esplicativa causale che, in quel nesso complesso, era da assegnare all'economia. Hilferding, che si pose il problema con grande lucidità, indicò chiaramente quale dovesse esserne, da quel punto di vista, la soluzione. ‟È stato detto - scrisse - che la politica è una dottrina normativa, fondata, in ultima istanza, su giudizi di valore che non rientrano nell'ambito della scienza, sicché la trattazione politica esulerebbe dalla sfera dell'indagine scientifica. Addentrarsi a questo punto nelle dibattute questioni teoretico-speculative sui rapporti tra dottrina delle norme e dottrina delle leggi, tra teleologia e causalità, è ovviamente impossibile [...]. Qui va detto soltanto che, per il marxismo, anche il fine della trattazione politica può essere unicamente la scoperta di nessi causali. La conoscenza delle leggi della società produttrice di merci mette parimenti in evidenza i fattori che determinano la volontà delle classi in tale società" (v. Hilferding, 1910; tr. it., p. 5).
Come risulta chiaramente da questa pagina, sebbene l'analisi economica dovesse svolgersi al tempo stesso come analisi politica, ‟i fattori che determinano la volontà delle classi" dovevano esser fatti risalire - proprio come dall'effetto si risale alla causa - alle leggi economiche di movimento. Solo a questa condizione, la trattazione politica poteva rientrare, a pieno diritto, nel campo della scienza. E solo a questa condizione la scienza poteva confermarsi come sapere avalutativo, cioè svincolato da qualsiasi giudizio di valore.
Senonché, poste le cose in questi termini, si apriva appunto il problema che quel marxismo non seppe percepire. Un corso storico oggettivo, retto da leggi causali, in che senso poteva garantire l'avvento, dopo il capitalismo, di una società ‛superiore', cioè non solo più complessa ma più libera, più umana? Nel discorso di Marx e di Engels, il socialismo non era soltanto un ulteriore tipo di organizzazione della società, che tenesse dietro al capitalismo. Era la società dove avrebbe dovuto compiersi l'emancipazione umana. Era il salto dal ‛regno della necessità' a quello della ‛libertà'. In che modo un corso storico oggettivo, causalmente regolato e quindi scevro da ogni finalismo, avrebbe potuto segnare il passaggio a una società non solo più complessa delle precedenti, ma ‛superiore', cioè più alta nella scala dei valori? La storia capace di metter capo a una tale società deve portare nel suo grembo un ‛fine'. In che modo questo stesso corso storico oggettivo poteva essere regolato in base al principio di ‛causa' - condizione, d'altra parte, inderogabile perché il processo potesse esser oggetto di conoscenza scientifica?
Il marxismo dell'epoca non percepì il problema, e lo considerò anzi risolto, per una ragione semplicissima: per il modo in cui esso aveva interpretato il concetto di ‛evoluzione'. Questo concetto naturalistico, e quindi in tutto rispondente ai requisiti della conoscenza causale, fu da quel marxismo interpretato (inconsapevolmente) al tempo stesso in chiave etico-politica. L'evoluzione degli organismi era a un tempo ‛progresso', cioè ascesa verso il ‛meglio'. Senonché, quanto il problema sia serio, come esso coinvolga tutto un modo di intendere il marxismo, si può vedere dagli sviluppi successivi. Nei Problemi economici del socialismo nell'URSS (1952), Stalin riafferma il carattere obiettivo delle leggi economiche della società. ‟Alcuni compagni - scrive - negano il carattere obiettivo delle leggi della scienza, in particolare delle leggi dell'economia politica nel socialismo. Essi negano che le leggi dell'economia politica riflettano le leggi di sviluppo di processi che si compiono indipendentemente dalla volontà degli uomini [...]. Questi compagni si sbagliano profondamente [...]. Il marxismo intende le leggi della scienza - si tratti di leggi delle scienze naturali o di leggi dell'economia politica - come un riflesso di processi obiettivi che si svolgono indipendentemente dalla volontà degli uomini. Gli uomini possono scoprire queste leggi, conoscerle, studiarle, tenerne conto nelle loro azioni, utilizzarle negli interessi della società, ma non possono cambiarle o abolirle" (v. Stalin, 1952; tr. it., pp. 9-10).
Poste queste premesse, è significativo come Stalin concepisca la differenza tra socialismo e capitalismo. La differenza è del solo tipo che possa prospettarsi in una visione oggettivistica. È una differenza assolutamente avalutativa. Non si parla di una società che sia ‛inferiore' o ‛superiore' all'altra, più libera o meno libera. Tutto è messo in termini, dal punto di vista etico-politico, rigorosamente neutrali. Nel capitalismo la ‛legge della corrispondenza' tra base e sovrastruttura è turbata: vi è contraddizione tra forze produttive e rapporti sociali. Nel socialismo viceversa, dove questa contraddizione è stata abolita, la ‛corrispondenza' tra forze produttive e rapporti sociali è tornata a vigere ‛armonicamente'. La trasformazione della società, il passaggio da un tipo a un altro di società non ha da realizzare finalità umane. Ha l'unica finalità di ristabilire il funzionamento pieno della legge causale della ‛corrispondenza'. Il socialismo non ha che fare con la libertà. Ristabilita quella ‛corrispondenza', esso sopporta benissimo anche i campi di concentramento.
Sarebbe un errore vedere in ciò il riflesso di una mentalità personale. Si tratta piuttosto di un esito logico, cui, poste certe premesse, è impossibile sfuggire. Ne è una conferma il riproporsi della stessa impasse all'interno del marxismo strutturalista francese contemporaneo. In una sua recente polemica con L. Sève, e probabilmente ignorando il testo di Stalin, M. Godelier ne riproduce le conclusioni. Premesso di aver ‟a più riprese lottato contro ogni tentativo di ‛fondare' su un umanesimo, fosse pure materialista, la ‛dimostrazione' della ‛necessità storica' del passaggio al socialismo e della ‛superiorità' di quest'ultimo sul modo di produzione capitalistico", Godelier rileva: ‟quando Marx scrive che il capitalismo, sviluppando continuamente le forze produttive, crea precisamente ‛senza saperlo' le condizioni materiali di un modo di produzione ‛superiore', l'unica ragione che dimostra questa necessità e questa superiorità è il fatto che la ‛struttura' dei rapporti di produzione socialisti ‛corrisponde' funzionalmente alle condizioni di sviluppo delle nuove forze produttive, gigantesche e sempre più socializzate, create dal capitalismo. Questa corrispondenza è un fatto ‛inintenzionale' che esprime le ‛proprietà oggettive' di una struttura sociale e, nella sua essenza, totalmente indipendente da qualsiasi idea a priori sulla felicità, l'‛essenza' dell'uomo, la ‛vera' libertà" (v. Godelier, 1966; tr. it., p. 126).
D'accordo: se dei fatti storici e sociali si deve trattare in termini di scienza, dire che una società è ‛più umana' o ‛migliore' di un'altra non ha senso. Ma il marxismo non ambisce essere soltanto una scienza. Esso è portatore anche di un programma etico-politico. Nell'opera di Marx, la socializzazione dei mezzi di produzione è destinata, sì, a creare la struttura ‛corrispondente' alle condizioni di sviluppo delle nuove forze produttive. È però destinata, almeno altrettanto, a creare le condizioni dell'emancipazione umana, cioè della liberazione dell'uomo dall'asservimento all'altro uomo: le condizioni della società senza classi. Tolto quest'aspetto, eliminata cioè la funzione che il marxismo ha - oltre che come scienza - come ideologia, è perduto, con ciò stesso, il suo rapporto col movimento operaio.
5. Il marxismo occidentale
È importante avere ben chiara quest'alternativa, perché essa è al centro dell'interpretazione del marxismo che ci accingiamo a esaminare: l'interpretazione sviluppata da Lukàcs in Storia e coscienza di classe (1923) e da Korsch in Marxismo e filosofia (1923). L'idea del marxismo come sociologia scientifica è qui negata alla radice. Lukács mette in discussione il concetto stesso di ‛fatto'. I fatti, i ‟cosiddetti fatti", ‟gli idoli ai quali l'intera letteratura revisionistica offre sacrifici" (v. Lukács, 1923; tr. it., p. 7), non sono un dato ma un prodotto storico. Il marxismo della Seconda Internazionale si richiama ‟al metodo delle scienze della natura, al modo in cui queste sono in grado di esibire, attraverso l'osservazione, l'astrazione, l'esperimento, ecc., fatti ‛puri' e di giustificare le loro connessioni" (ibid., p. 8). Esso dimentica, però, che ‟lo stesso sviluppo capitalistico tende a produrre una struttura della società che asseconda ampiamente una simile impostazione di pensiero" (ibid.). I fatti - ‟proprio nella struttura della loro oggettualità" - sono ‟prodotti di un'epoca storica determinata: quella del capitalismo". ‟Di conseguenza quella ‛scienza' che riconosce il modo in cui essi sono dati immediatamente come base della fattualità scientificamente rilevante e la loro forma oggettuale come premessa della formazione scientifica del concetto, si dispone semplicemente e dogmaticamente sul terreno della società capitalistica, assumendo acriticamente la loro essenza, la loro struttura oggettuale, la loro legalità come base immodificabile della ‛scienza'" (ibid., p. 10).
In altre parole, l'oggettività fattuale con cui la società si prospetta ai suoi membri, nelle condizioni capitalistiche, non è un'oggettività reale e, tantomeno, naturale. È, bensì, un'oggettività fittizia, artefatta. E l'oggettivazione (reificazione o alienazione) dei rapporti sociali stessi che - essendo sfuggiti al controllo degli uomini e perciò divenuti ‛indipendenti' da loro - hanno assunto la forma di ‛cose', cioè di entità ‛estranee' come oggetti, sebbene non siano veramente cose ma rapporti interumani e tra persone.
Così, come con un colpo di bacchetta magica (e, per di più, vari anni prima della pubblicazione dei Manoscritti economico-filosofici), Lukács fa emergere dal Capitale quella tematica - fondamentale - del feticismo e dell'alienazione, che era rimasta chiusa con sette sigilli (per oltre mezzo secolo), sia per il materialismo dialettico che per il marxismo della Seconda Internazionale.
L'idea del marxismo come scienza è la falsificazione che, del pensiero di Marx, hanno operato i partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale. Essi hanno considerato le ‛leggi di movimento' della società capitalistica come leggi naturalistiche. Si tratta, è vero, dileggi oggettive che operano indipendentemente dalla coscienza e addirittura ‛alle spalle' degli uomini. Solo che la loro è un'oggettività affatto speciale: è un'oggettività falsa e che si deve abolire. È vero che le leggi del mercato valgono per gli uomini della società capitalistica come una ‛necessità naturale'; che i movimenti del mercato sono imprevedibili come i terremoti. Ma non perché il mercato sia un fenomeno ‛naturale'. Ciò che qui ha preso la forma oggettiva di ‛cose' e di processi tra cose non sono altro, in effetti, che i rapporti sociali stessi degli uomini tra loro.
In tali condizioni, disporsi di fronte a quest'oggettività alienata nello stesso atteggiamento con cui lo scienziato si pone dinanzi ai fatti significa dimenticare che ‟è proprio dell'essenza del capitalismo produrre i fenomeni in questa forma" (v. Lukács, 1923; tr. it., p. 8). È sposare il punto di vista stesso del sistema. Assumerlo come un ‛dato naturale', al modo in cui esso stesso si propone e si prospetta. E non basta. ‟Questa tendenza dello sviluppo capitalistico si spinge ancora più in là. Il carattere feticistico delle forme economiche, la reificazione di tutti i rapporti umani, l'estensione costantemente crescente di una divisione del lavoro che scompone il modo di produzione in modo astrattamente razionale, senza preoccuparsi delle possibilità umane e della capacità dei produttori diretti, ecc., trasformano i fenomeni della società e contemporaneamente, insieme a essi, la loro appercezione. Sorgono fatti ‛isolati', complessi isolati di fatti, settori parziali (economia, diritto, ecc.) con leggi proprie, che sembrano essere già ampiamente predisposti nelle loro forme fenomeniche immediate a un'indagine scientifica di questo genere. Cosicché assume necessariamente un valore particolarmente ‛scientifico' sviluppare conseguentemente questa tendenza - che risiede nelle cose stesse - elevandola alla scienza" (ibid., pp. 8-9).
Il punto di vista decisivo, dunque, è ben altro che quello della scienza. La scienza assume una differenza tra soggetto e oggetto, pensiero ed essere. Questa differenza è illusoria. Se infatti l'oggettività è l'oggettivazione di forze essenziali umane sfuggite al controllo degli uomini stessi, è chiaro che proprio quella separazione, che la scienza assume come il non plus ultra, è ciò che deve essere superato. I fatti non sono ‛isolati'. Non vi sono complessi di fatti isolati, regioni separate tra loro, come economia, diritto, ecc. Questa è solo l'apparenza alienata. È l'oggettività feticistica del mondo delle merci, dei prodotti del lavoro umano che si sono resi indipendenti dai produttori. Per attingere la realtà il cammino è inverso. Si tratta non solo di collegare tra loro quei complessi di fatti isolati, di fluidificarli, così da cogliere l'unità o totalità che li salda organicamente gli uni agli altri. Ma, più ancora, di sciogliere quell'oggettività rigida per ritrovarvi dentro la proiezione del mondo sociale umano da cui essa è scaturita.
Nel corso di questo processo totalizzante, tutto si presenta allora capovolto. Il mondo dei produttori non ha più dinanzi a sé un mondo estraneo, retto da leggi proprie, a cui subordinarsi. Bensì riconosce quell'oggettività come l'essenza sua propria alienata. Acquisisce una nuova coscienza e vede, al tempo stesso, mutato il proprio essere. Nella società capitalistica, la classe operaia è solo un anello dell'ingranaggio. Nel processo di produzione del capitale, essa figura solo come una parte del capitale stesso: è il capitale variabile. Da parte che era, essa si trasforma ora nel centro da cui si irradia tutta la vita della società.
Conoscenza ed emancipazione qui si producono insieme. Il tema della liberazione dell'uomo, che non trovava posto nel marxismo come scienza, diviene ora il motivo centrale. Il socialismo è ben più che il ristabilimento della ‛corrispondenza' tra base e forze produttive. È il ristabilimento della corrispondenza tra mondo soggettivo e mondo oggettivo: è il superamento dell'alienazione umana.
Senonché, come avvenga questo superamento e quale ne sia la garanzia, è solo appeso all'atto di fede in un postulato filosofico. Lukàcs procede dall'identità hegeliana di soggetto e oggetto. Come per Hegel, il suo nemico principale è la ‛filosofia della riflessione', l'‛ordinario intelletto umano', il punto di vista del senso comune che distingue tra soggetto e oggetto, tra pensiero ed essere. Il prezzo di quest'impostazione - come ha riconosciuto molti anni dopo l'autore stesso in sede autocritica - è il ripudio del materialismo e della scienza. Poiché la reificazione è identificata puramente e semplicemente con l'oggettività naturale, l'atto d'accusa di Lukàcs investe simultaneamente tanto il capitalismo quanto la scienza. E, per meglio dire, una critica indiscriminata sia del fatto che esistano oggetti fuori di noi, sia del fatto che questi oggetti - in conseguenza di particolari rapporti sociali - abbiano assunto la forma di merce. È la critica dell'oggettività del capitale ma anche dell'oggettività della natura.
Il risultato è quanto mai problematico. La scienza diventa il modo d'apprendere la realtà, che è proprio del capitalismo. Il suo emergere appare ‛strutturalmente e organicamente' legato alla struttura economica del capitalismo. E poiché l'una sta e muore con la morte dell'altro, sotto le mentite spoglie di una critica della società capitalistica moderna, viene avanti, in realtà, la critica del materialismo e della scienza.
Così, nel momento stesso in cui la critica del capitalismo dovrebbe farsi cogente, universale e necessaria, capace di strappare il consenso alle menti, essa si produce, simultaneamente, come critica della scienza, cioè di quella forma di sapere che, per le sue procedure e i suoi controlli, è la sola in grado di esigere per sé valore di necessità e obiettività. Il superamento del capitalismo e della scienza debbono compiersi insieme; e la possibilità dell'uno è legata a quella dell'altra. Il risultato è che il superamento del capitalismo appare alla fine appeso a una conoscenza metascientifica, cioè a un atto di fede, o, se si preferisce, all'identificazione mistica di soggetto e oggetto.
Naturalmente, Storia e coscienza di classe è un libro importante. Non foss'altro, è merito suo aver individuato e portato alla luce una dimensione profonda, e fino allora ignorata, di tutta l'opera di Marx, come la teoria dell'alienazione e del feticismo che traversa l'opera giovanile fino a quella della piena maturità. Da Storia e coscienza di classe ha inizio un capitolo nuovo nella storia delle interpretazioni di Marx. Ma, non meno indubbio del merito, è anche il limite di quest'opera. Con la teoria del feticismo, Lukàcs ha afferrato un bandolo della complessa opera di Marx. Ha permesso, così, di capire quanto in essa sia importante la dimensione ‛dialettico-teleologica'. La dialettica: perché, senza di essa, non vi può essere, evidentemente, teoria dell'alienazione: l'alienazione infatti nasce dalla separazione di ciò che originariamente è unito, cioè dalla divisione o rottura di un'‛unità originaria'. La teleologia: perché il tema del superamento dell'alienazione non può non imprimere a tutta l'opera una prospettiva palesemente finalistica. Senonché, nell'estrarre questi motivi dal Capitale, Lukács ha semplicemente ignorato gli altri che ad essi vi sono intrecciati. Il tema della scienza è risultato, così, violentemente escluso dalla prospettiva di Marx, quasi che esso fosse una semplice deformazione da imputare agli interpreti e non anche un motivo radicato profondamente nella concezione dei due fondatori del ‛socialismo scientifico'. Con la conseguenza che Lukàcs non si è mai posto il problema della compresenza, nell'opera di Marx, di queste due prospettive profondamente diverse, né ha cercato in qualche modo di spiegarla.
Un'integrazione interessante, sotto questo profilo, a Storia e coscienza di classe è venuta da Marxismo e filosofia di Korsch. I due libri, com'è noto, non dipendono l'uno dall'altro: appaiono pressoché simultaneamente. Ancora più sorprendente è, perciò, la forte convergenza di vedute. Hegel e la categoria della ‛totalità' dominano anche nel libro di Korsch. Il marxismo, dice Korsch, non si lascia collocare in nessuno dei comparti tradizionali delle ‛scienze borghesi'. Economia, filosofia, storia, teoria del diritto e dello Stato, nessuno di questi comparti è in grado di contenere il marxismo, ma nessuno di essi sarebbe al sicuro dalle sue incursioni se si intendesse collocarlo in un altro. Gli eruditi borghesi si sbagliano di grosso quando partono dal presupposto che il marxismo intenda sostituire la tradizionale filosofia con una nuova ‛filosofia', la tradizionale teoria dello Stato e del diritto con una nuova ‛teoria dello Stato e del diritto'. La teoria non si propone nulla di tutto questo, così come il movimento politico e sociale del marxismo non mira a sostituire nuovi Stati e un nuovo ‛sistema di Stati' al tradizionale sistema degli Stati borghesi.
Ciò che Marx piuttosto si propone, dice Korsch, è la ‛critica' della filosofia, la ‛critica' di tutte le ‛scienze morali', in breve la ‛critica' dell'ideologia borghese nel suo complesso. Quest'ideologia, per Marx, fa corpo con la società reale di cui è espressione. L'economia politica, la teoria dello Stato e del diritto, la filosofia speculativa non sono altro, per lui, che aspetti e istituti di questa stessa società. Come la massima opera economica di Marx, Il Capitale, è un'analisi critica della società borghese e, insieme (come sottolinea espressamente il sottotitolo), è una ‛critica dell'economia politica', così è anche di tutto il rimanente del suo pensiero. Il marxismo, in breve, è un'analisi globale del mondo borghese. Esso è una critica della società borghese nella sua totalità e quindi anche di tutte le sue forme di coscienza che costituiscono ‛istituti reali' non meno degli istituti economici propriamente detti.
Ora, il legame essenziale tra Hegel e Marx sta, secondo Korsch, appunto nella scoperta di questa connessione, cioè nella consapevolezza profonda che entrambi ebbero della ‛coincidenza di coscienza e realtà', nel principio che fu comune a entrambi della coincidenza di pensiero ed essere e, quindi, della dialettica.
Senonché, se questa è stata l'intuizione profonda di Marx, non tutta la sua opera ne è espressione adeguata. In realtà, essa si è atteggiata diversamente a seconda dell'evolvere della situazione economica e politica. Korsch distingue tre grandi periodi che il marxismo ha attraversato dopo il suo sorgere. Il primo ha inizio verso il 1843 e si conclude con la rivoluzione del 1848, nella storia delle idee con il Manifesto del partito comunista. Il secondo ha inizio nel giugno del 1848 con la sanguinosa sconfitta del proletariato parigino e con la successiva distruzione di tutte le organizzazioni e di tutti i sogni di emancipazione della classe operaia, ‟in un'epoca di febbrile attività industriale, di abbrutimento morale e di reazione politica" (v. Korsch, 1923; tr. it., p. 54), che Marx ha descritto nell'Indirizzo inaugurale del 1864. (Questo secondo periodo si protrae all'incirca fino alla fine del secolo). Il terzo, infine, è quello in corso mentre Korsch scrive.
È evidente quale sia il significato di questa periodizzazione. Korsch si propone di spiegare, con essa, quella ch'egli giudica una relativa involuzione dell'opera di Marx in corrispondenza del secondo periodo - il periodo occupato dalla stesura del Capitale. La sconfitta della rivoluzione, la dissoluzione, prima, e, poi, il lento ricostituirsi delle organizzazioni politiche del proletariato, hanno gettato più che un'ombra sul pensiero di Marx: ne hanno alterato in parte la natura. La teoria che, nella fase rivoluzionaria prequarantottesca, aveva considerato la rivoluzione sociale una ‛totalità vivente', dove la trasformazione della coscienza e quella dell'essere sociale si compiono a un tempo, ripiega ora su una linea diversa. Recedono gli elementi dialettici e prendono il sopravvento quelli scientifici. Il corso della rivoluzione sembra affidato allo svolgersi delle leggi oggettive. È l'epoca, dice Korsch, del ‛socialismo scientifico' del Capitale e degli altri scritti tardi di Marx ed Engels. E la trasformazione consiste precisamente nel fatto che ‟nella fase più tarda i singoli elementi della totalità: economia, politica, ideologia, teoria scientifica e prassi sociale, si sono maggiormente staccati gli uni dagli altri" (ibid., p. 56).
Korsch, dunque, non solo rintraccia, a differenza di Lukács, entrambe le due prospettive - dialettica e scienza - nell'opera stessa di Marx, ma tenta in qualche modo di spiegarne la genesi. Solo che la sua scelta conclusiva è, alla fine, quella stessa già compiuta da Lukács. La critica marxiana del capitale e dello Stato gli si confonde, così, con la critica hegeliana dell'‛intelletto scientifico' e della ‛positività'. La critica della società borghese gli si confonde con la critica idealistica e romantica della scienza.
Queste linee saranno in parte corrette nell'opera di molti anni dopo su Karl Marx (1938). Lasciati cadere alcuni presupposti hegeliani, Korsch vi tenta una valutazione più equilibrata del modo complesso in cui esigenza della scientificità e teoria dell'alienazione si compenetrano nell'opera di Marx. E tuttavia, a un esame attento, l'opera, più che fondere le due prospettive, sembra viverne, cautamente ma fino in fondo, l'interna incompatibilità, così da segnare in qualche modo un rispettoso distacco di Korsch dal marxismo.
6. Antonio Gramsci
L'interpretazione di Marx sviluppata in Storia e coscienza di classe e in Marxismo e filosofia costituisce ciò che si suole chiamare, da molti anni, il ‛marxismo occidentale'. Questa denominazione non pretende a nessun particolare rigore. Fu coniata, o, forse, solo rimessa in circolazione, all'inizio degli anni cinquanta da Merleau Ponty. Ciò non toglie che, per molti aspetti, essa colga nel segno. Il ‛marxismo occidentale', in effetti, ha alcuni tratti distintivi comuni che valgono a differenziarlo non solo dall'interpretazione (tendenzialmente positivistica) del marxismo come scienza ma anche dal materialismo dialettico russo. Storia e coscienza di classe è, non a caso, il primo testo marxista che contenga una critica della dialettica della natura di Engels.
Elementi analoghi ricorrono anche negli scritti di Korsch. In entrambi gli autori, d'altra parte, sono palesi, come già si è visto, alcuni orientamenti comuni, dal rifiuto del materialismo e, più ancora, delle sue ascendenze settecentesche, a quello della scienza, che è identificata col positivismo. Nel libro di Lukàcs, inoltre, sono già esplicite riserve critiche di fondo verso la Widerspiegelungstheorie. Esse diventeranno particolarmente forti in Korsch, dopo il 1927, allorché la traduzione inglese e tedesca di Materialismo ed empiriocriticismo diffonderà in occidente il pensiero filosofico di Lenin, che fino allora vi era pressoché sconosciuto.
In positivo, gli elementi comuni sono non meno evidenti. Essi consistono, anzitutto, in una marcata accentuazione del momento della soggettività rivoluzionaria contro ogni concezione deterministica; nella netta curvatura storico-dialettica che viene attribuita al pensiero di Marx; nonché, infine, nel ruolo centrale che viene assegnato all'influenza esercitata da Hegel sui fondatori della concezione materialistica della storia, soprattutto in ragione del metodo dialettico. Anche se non può essere considerato in alcun senso un ‛sistema', si può dire, dunque, che il ‛marxismo occidentale' presenta alcuni caratteri inconfondibili propri: prontamente rilevati, del resto, dalle accoglienze nettamente critiche riservate, all'opera di Lukács come a quella di Korsch, sia dai marxisti ortodossi della Seconda Internazionale sia dai materialisti dialettici russi.
Ma, se in senso stretto è chiaro che al ‛marxismo occidentale' possono ascriversi solo alcuni autori di lingua tedesca che furono influenzati più o meno direttamente dall'opera di Lukács e Korsch (come, almeno in parte, è il caso per gli esponenti della Scuola di Francoforte), in senso lato, invece, è avvicinabile a questo indirizzo anche un pensatore come Antonio Gramsci, che, sebbene abbia svolto la propria ricerca in piena autonomia e senza aver conosciuto neppure le opere in questione, presenta tuttavia punti innegabili di contatto con esse, non foss'altro che per la matrice di cultura idealistica e storicistica che fu comune anche a lui.
La possibilità di quest'accostamento è confermata dalla convergenza dei giudizi critici che Lukács e Gramsci formularono sulla Teoria del materialismo storico, manuale popolare di sociologia marxista (1921) di Nikolaj Bucharin: il primo nel Grünbergs Archiv del 1923, il secondo dieci anni più tardi, ma indipendentemente, nei Quaderni del carcere. I temi critici che si incontrano, nelle pagine di Lukács, sono quelli ormai consueti. La posizione filosofica di Bucharin è il materialismo volgare, intuitivo. Se questo suo atteggiamento può considerarsi una reazione comprensibile all'idealismo kantiano dei socialdemocratici, da Bernstein a Cunow, resta pur sempre il fatto che esso esclude dal marxismo tutti gli elementi che provengono dalla filosofia classica tedesca. Bucharin ignora, in particolare, la dialettica. In luogo di essa, egli presenta una scienza oggettivistica, positivistica, dominata da una cosalità irrisolta e feticistica. Essenziale al marxismo è invece ricondurre tutti i fenomeni dell'economia e della sociologia a rapporti sociali degli uomini tra loro.
Lungo queste stesse linee, anche le considerazioni critiche di Gramsci. Egli rileva, anzitutto, che Bucharin perde l'originalità del materialismo storico o ‟filosofia della praxis", come Gramsci lo chiama, confondendolo col ‟materialismo metafisico". ‟La filosofia del Saggio popolare (implicita in esso) - egli scrive - può essere chiamata un aristotelismo positivistico, un adattamento della logica formale ai metodi delle scienze fisiche e naturali. La legge di causalità, la ricerca della regolarità, normalità, uniformità sono sostituite alla dialettica storica. Ma come da questo modo di concepire può dedursi il superamento, il ‛rovesciamento della praxis'? L'effetto, meccanicamente, non può mai superare la causa o il sistema di cause, quindi non può aversi altro svolgimento che quello piatto e volgare dell'evoluzionismo" (v. Gramsci, 1975, vol. II, pp. 1402-1403).
Al pari di Lukács, Gramsci investe subito il concetto di scienza: ‟è il concetto stesso di ‛scienza', quale risulta dal Saggio popolare, che occorre distruggere criticamente; esso è preso di sana pianta dalle scienze naturali, come se queste fossero la sola scienza, o la scienza per eccellenza, così come è stato fissato dal positivismo" (ibid., p. 1404). Il materialismo scientifico di Bucharin è il portato ‟di una concezione antidialettica, dogmatica, prigioniera degli schemi astratti della logica formale" (ibid., p. 1408).
Anche l'uso che Bucharin fa del termine di ‛materialismo dialettico' non sfugge alla critica di Gramsci. Marx, egli rileva, ‟non adopera mai la formula di ‛dialettica materialistica' ma ‛razionale' in contrapposto a ‛mistica', ciò che dà al termine ‛razionale' un significato ben preciso" (ibid., p. 1411).
Tuttavia il commento critico dei Quaderni del carcere si appunta soprattutto contro il materialismo. ‟Il pubblico ‛crede' che il mondo esterno sia obbiettivamente reale, ma qui appunto nasce la questione: qual è l'origine di questa ‛credenza' e quale valore critico ha ‛obbiettivamente'?" Gramsci ritiene che ‟questa credenza è di origine religiosa, anche se chi vi partecipa è religiosamente indifferente" (ibid., pp. 1411-1412). ‟Oggettivo significa sempre ‛umanamente oggettivo', ciò che può corrispondere esattamente a ‛storicamente soggettivo', cioè oggettivo significherebbe ‛universale soggettivo'". ‟Il concetto di ‛oggettivo' del materialismo metafisico pare voglia significare una oggettività che esiste anche all'infuori dell'uomo, ma quando si afferma che una realtà esisterebbe anche se non esistesse l'uomo o si fa una metafora o si cade in una forma di misticismo" (ibid., p. 1416).
Circa la mancanza di uno sviluppo adeguato della dialettica da parte di Bucharin, Gramsci rileva: ‟L'assenza di una trattazione della dialettica può avere due origini: la prima può essere costituita dal fatto che si suppone la filosofia della praxis scissa in due elementi: una teoria della storia e della politica concepita come sociologia, cioè da costruirsi secondo il metodo delle scienze naturali (sperimentale nel senso grettamente positivistico) e una filosofia propriamente detta, che poi sarebbe il materialismo filosofico o metafisico o meccanico (volgare) [...]. La seconda origine pare sia di carattere psicologico. Si sente che la dialettica è cosa molto ardua e difficile, in quanto il pensare dialetticamente va contro il volgare senso comune che è dogmatico, avido di certezze perentorie ed ha la logica formale come espressione" (ibid., pp. 1425-1426).
Non meno significativo il giudizio sulla sociologia. ‟La sociologia - scrive Gramsci - è stata un tentativo di creare un metodo della scienza storico-politica, in dipendenza di un sistema filosofico già elaborato, il positivismo evoluzionistico, sul quale la sociologia ha reagito, ma solo parzialmente. La sociologia è quindi diventata una tendenza a sè, è diventata la filosofia dei non filosofi, un tentativo di descrivere e classificare schematicamente fatti storici e politici, secondo criteri costruiti sul modello delle scienze naturali. La sociologia è dunque un tentativo di ricavare ‛esperimentalmente' le leggi di evoluzione della società umana in modo da ‛prevedere' l'avvenire con la stessa certezza con cui si prevede che da una ghianda si svilupperà una quercia. L'evoluzionismo volgare è alla base della sociologia che non può conoscere il principio dialettico col passaggio della quantità alla qualità, passaggio che turba ogni evoluzione e ogni legge di uniformità intesa in senso volgarmente evoluzionistico" (ibid., p. 1432).
Come è facile vedere da questa rapida silloge, le opinioni filosofiche di Gramsci appaiono fortemente influenzate dai temi del neo-hegelismo italiano e, in particolare, dalla filosofia di Croce. La ripugnanza verso la sociologia e il giudizio sulle scienze della natura derivano largamente dalla critica del neo-idealismo italiano: critica che congiunge i motivi della ‛creazione idealistica contro la scienza', prodottasi in Europa verso la fine del secolo scorso sulla scia della dissoluzione del vecchio positivismo, coi temi della critica al senso comune e all'‛ordinario intelletto umano', sviluppati dalla filosofia romantica tedesca e, in particolare, da Hegel. È significativa, da questo punto di vista, la triade che corre, come un Leitmotiv, lungo tutto il testo di Gramsci: materialismo, logica formale e metafisica. I tre concetti sono avvicinati fino al punto da risultare, in pratica, intercambiabili.
Vi è evidentemente anche l'influenza dell'Antidühring di Engels con la sua equazione ‛senso comune-logica formale-metafisica', ma, a differenza e contro Engels, Gramsci non esita a riprendere la genuina formulazione hegeliana (per lui mediata da Croce e Gentile), identificando il senso comune e, quindi, la cosiddetta logica formale, con il materialismo propriamente detto.
Non meno evidente il tributo all'idealismo nelle pagine sulla realtà del mondo esterno. La distinzione di pensiero ed essere e, quindi, l'eterogeneità o esteriorità di quest'ultimo rispetto al primo è addossata al dualismo cristiano. È considerata una credenza religiosa. In realtà, anche qui Gramsci eredita passivamente la critica idealistica hegeliana contro il materialismo dell'‛ordinario intelletto umano' e la Reflexionsphilosophie.
Malgrado, quindi, tutte le differenze storiche e culturali, può dirsi che, anche in Gramsci, l'orizzonte filosofico sembra non estraneo o non troppo dissimile (limitatamente, ripetiamo, ai temi filosofici) dai motivi che abbiamo visto affiorare nel cosiddetto ‛marxismo occidentale'. La sua polemica è indirizzata, anzitutto, contro l'idea del marxismo come scienza, ben al di là delle insufficienze del manuale di Bucharin. Ma, non meno che in Lukács e Korsch, affiora anche in lui la critica del materialismo dialettico, nei limiti almeno in cui era dato a Gramsci conoscerlo. Significativo, a questo riguardo, il giudizio critico, espresso in due punti, sull'Antidühring di Engels. La prima volta, quando egli rileva: ‟È certo che in Engels (Antidühring) si trovano molti punti che possono portare alle deviazioni del Saggio. Si dimentica che Engels, nonostante che vi abbia lavorato a lungo, ha lasciato scarsi materiali sull'opera promessa per dimostrare la dialettica legge cosmica e si esagera nell'affermare l'identità di pensiero tra i due fondatori della filosofia della praxis" (v. Gramsci, 1975, vol. II, p. 1449). La seconda volta, quando Gramsci osserva che ‟l'origine di molti spropositi contenuti nel Saggio è da ricercarsi nell'Antidühring e nel tentativo, troppo esteriore e formale, di elaborare un sistema di concetti, intorno al nucleo originario di filosofia della praxis, che soddisfacesse il bisogno scolastico di compiutezza. Invece di fare lo sforzo di elaborare questo nucleo stesso, si sono prese affermazioni già in circolazione nel mondo della cultura e sono state assunte come omogenee a questo nucleo originario, affermazioni che erano già state criticate ed espulse da forme di pensiero superiore, anche se non superiore alla filosofia della praxis" (ibid., vol. III, p. 1786).
7. Della Volpe e Althusser
La storia del marxismo teorico del XX secolo pone lo studioso di fronte a una serie di eventi brutali. L'avvento del nazismo in Germania, del fascismo in Italia e dello stalinismo in Unione Sovietica, segna, per un ampio arco di anni, la morte del pensiero marxista in tre delle aree culturali dove esso era stato fino allora più vivo. Se a ciò si aggiunge il pesante dominio politico e ideologico esercitato dallo stalinismo su tutti i partiti comunisti formatisi nel seno della Terza Internazionale almeno fino al XX Congresso (1956) del PCUS, è facile intendere come, dall'inizio degli anni trenta agli anni sessanta, venga quasi a mancare, di fatto, materia per una tale storia. Senza tema di esagerare, si può dire che l'inizio degli anni trenta segna la fine del marxismo teorico in quella parte del mondo dove esso era nato e si era diffuso. La Seconda e la Terza Internazionale vengono meno. Si esauriscono i grandi dibattiti e le controversie teoriche internazionali, che, malgrado tutto, esprimevano ancora una forma di rapporto. Restano poche figure isolate di intellettuali, a volte anche eminenti, la cui elaborazione teorica si risolve ormai nel chiuso della vita accademica.
Una di queste figure è, in Italia, quella di G. Della Volpe. La sua Logica come scienza positiva (1950) è un tentativo di rifondazione teorica del marxismo. Della Volpe muove dalla riscoperta della giovanile Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, cpera gli offre è quello della critica dei processi di ipostatizzazione (o sostantificazione dell'astratto o realismo degli universali) in cui incorre la logica dialettica hegeliana. La filosofia di Hegel trasforma il predicato logico (l'idea) in soggetto a sé, cioè in un sostrato o sostanza indipendente; contemporaneamente, lascia decadere il reale empirico, o subjectum del giudizio, a predicato del suo predicato, cioè lo trasforma in manifestazione essoterica dell'universale logico sostantificato. Questo processo di ipostatizzazione, analizzato criticamente da Marx soprattutto nelle opere giovanili ma richiamato anche in taluni scritti della maturità, come l'Einleitung del ‛57 o il poscritto alla seconda edizione del Capitale, è ricollegato da Della Volpe alla critica sviluppata da Aristotele contro Platone, da Galilei contro la fisica scolastica, nonché da Kant contro il platonismo di Leibniz. In tutti questi casi, all'apriorismo dei principî logici si accompagna un'interpolazione dell'empiria, che è restaurata surrettiziamente, anziché essere vagliata e depurata criticamente. Da questo punto di vista, Marx diventa colui che ha coronato il processo di dissoluzione della vecchia filosofia speculativa. Alle idee-sostanza si sostituiscono, così, concetti-funzione che, in quanto elaborano particolari contenuti dell'esperienza, non hanno più validità universale-generica ma specifica, cioè correlata ai loro contenuti.
Importante, in questa analisi di Della Volpe, la restaurazione del principio di non-contraddizione, non nella versione scolastica ma in quella aristotelica o materialistica originaria. E, insieme a questa restaurazione, la denuncia della portata romantica e speculativa della critica hegeliana dell'‛intelletto scientifico': critica che è invece passata quasi di peso nell'opera filosofica di Engels.
La critica delle idee-ipostasi della filosofia si accompagna, come già si è detto, alla elaborazione della teoria delle astrazioni determinate o specifiche, le astrazioni della scienza. Queste astrazioni segnano la trasformazione del vecchio sapere filosofico nel nuovo tipo di conoscenza posto in essere dal marxismo con la fondazione di una scienza materialistica della società e della storia o sociologia scientifica propriamente detta. In questo senso, Marx appare a Della Volpe come il ‟Galilei del mondo morale", cioè come colui che ha strappato alla metafisica l'ultima regione in cui essa ancora dominava: quella delle scienze storico-morali o, più propriamente, economico-politiche.
Sebbene impegnata anzitutto coi problemi della gnoseologia filosofica, l'opera di Della Volpe si iscrive nella linea interpretativa del marxismo come scienza. I suoi tratti più rilevanti sono: il tentativo di separare il più nettamente possibile Marx da Hegel; il ripudio della logica dialettica idealistica e a maggior ragione, quindi, del programma engelsiano di dialettizzazione delle scienze; il tentativo, infine, di ritrovare negli scritti di Marx i lineamenti di una logica sperimentale o scientifica dalla cui messa in opera deriverebbero, poi, i concetti-chiave dell'analisi economica marxiana: dal concetto di formazione economico-sociale, al concetto di lavoro astratto, di capitale, di plusvalore, ecc.
È significativo che, sebbene Della Volpe abbia a lungo lavorato intorno alla critica marxiana dei processi di ipostatizzazione, o scambio di soggetto e predicato, egli non abbia mai allargato la sua analisi alla teoria dell'alienazione e del feticismo. Il fatto è, a prima vista, sorprendente. Tanto più sorprendente se si considera che, per Marx, questi due processi reali sono strutturati esattamente allo stesso modo dell'inversione di soggetto e predicato ch'egli imputa alla logica di Hegel e, in genere, a ciò ch'egli chiamò la ‟metafisica dell'economia politica". Ma, a un esame più attento, si comprende come questa omissione da parte di Della Volpe non sia stata casuale. Il riconoscimento che, per Marx, il denaro, il capitale, lo Stato sono processi di ipostatizzazione reali e che, perciò, lo scambio di soggetto e predicato non riguarda soltanto la logica ma la realta stessa del mondo capitalistico (in quanto mondo ‛capovolto', ‛sottosopra' o ‛testa all'ingiù') avrebbe chiaramente insidiato il tentativo di Della Volpe di ricostruire l'opera di Marx in termini di scienza positiva. Quel riconoscimento, infatti, avrebbe comportato - come avevano visto bene Lukàcs e Korsch - la scoperta di figure hegeliane, non risolte, nell'opera di Marx: giacché - è evidente - solo l'identità hegeliana di soggetto e oggetto o la coincidenza di pensiero ed essere potevano spiegare come Marx considerasse strutturati allo stesso modo processi logici e processi oggettivi.
La nessuna attenzione riservata alla teoria dell'alienazione e del feticismo (in conformità, del resto, con tutta la linea interpretativa del marxismo come scienza) spiega, infine, come il tentativo di Della Volpe non abbia offerto spazio alla ricostruzione dell'opera di Marx in chiave di ‛critica dell'economia politica': chiave tanto più importante se si considera che il tema è enunciato nel sottotitolo del Capitale e nel titolo dello scritto del 1859 Per la critica dell'economia politica. In materia di analisi economica, Marx è apparso a Della Volpe esclusivamente come uno scienziato dell'economia politica, anzi come colui che, poggiando sugli antecedenti di Smith e Ricardo, ha costruito per la prima volta l'economia politica come scienza. Senza che, nella valutazione delle differenze di Marx rispetto a Smith e Ricardo, venisse mai prestata attenzione a quella tematica dell'alienazione che, del tutto estranea agli economisti classici inglesi, entra a costituire tanta parte dell'opera cosiddetta economica di Marx, dal concetto di lavoro astratto al concetto di valore e, in genere, al concetto del mondo delle merci e del capitale come mondo del feticismo.
Alcune delle considerazioni qui svolte per Della Volpe si attagliano anche all'opera del marxista francese L. Althusser, il cui merito principale sembra esser quello di aver animato, coi propri scritti, la tradizione assai povera del marxismo francese: rudimentale nei suoi esordi con Lafargue e Guesde e poi abbrutita nella stanca ripetizione delle forme più viete del materialismo dialettico russo (è interessante, sotto questo profilo, l'introduzione di Althusser al suo libro Pour Marx). Anche in questo caso, si tratta di un tentativo di interpretare l'opera di Marx come opera di scienza. Marx sarebbe, secondo Althusser, colui che ha aperto alla scienza ‟il continente Storia". Ma ciò che Althusser intende per scienza rimanda alle elaborazioni degli strutturalisti francesi, in particolare Foucault. Questa situazione è ulteriormente aggravata dal fatto che, in materia di epistemologia, Althusser è interamente debitore (secondo una pratica non inconsueta al centralismo culturale francese e non esente, in qualche caso, da punte di provincialismo o, addirittura, di sciovinismo culturale) verso l'opera di G. Bachelard, nel silenzio (e si può anche supporre nell'ignoranza totale) di ciò ch'è stato prodotto dall'epistemologia contemporanea più significativa, da Hempel a Popper, da Carnap a Nagel, ecc.
L'insistenza posta sul carattere scientifico del pensiero di Marx ha riproposto, nel caso di Althusser, l'annoso problema dell'unità dell'opera marxiana o, più semplicemente, del giudizio circa il rapporto degli scritti giovanili con quelli della piena maturità. Questo problema era già affiorato in modo piuttosto acuto nel secondo dopoguerra, allorché divenne nota a un pubblico più largo di studiosi l'opera giovanile - e, in particolare, i Manoscritti economico-filosofici - che era stata pubblicata postuma intorno all'inizio degli anni trenta. In Francia, per particolari ragioni, il problema fu più acuto che altrove. Il marxismo francese, infatti, in quanto materialismo dialettico, non poteva sviluppare alcuna comprensione per la tematica dell'alienazione contenuta nei Manoscritti. Esso era attestato sull'Antidühring e sulla Dialettica della natura. Da questi testi, tentare di gettare un ponte verso l'opera giovanile di Marx era impresa, più che ardua, assurda. Il risultato fu che quest'opera venne abbandonata dal marxismo nelle mani delle varie correnti esistenzialistiche o di umanesimo spiritualista che allora erano in voga in Francia. Su questo terreno, già sfavorevolmente predisposto alla comprensione degli scritti giovanili, è sopravvenuta infine la condanna senza appello formulata nei loro confronti da Althusser.
Le ragioni di questa condanna sono semplici. Gli scritti giovanili e, in particolare, i Manoscritti, sono dominati, come già si è detto, dal tema dell'alienazione. Lo schema, che presiede a essi, è quello di un movimento a tre fasi. Originariamente, vi è l'unità di uomo e natura. A questa unità succede, nella storia, la separazione dell'uomo dall'uomo e dell'uomo dalla natura, che è a un tempo contrapposizione, nell'uomo stesso, tra essenza ed esistenza. Infine, con il superamento dell'alienazione, si ha il recupero, a un livello naturalmente superiore, dell'unità originaria. Questa tematica, cosi fortemente segnata dai motivi dell'umanesimo e del finalismo storico, è respinta da Althusser come ‟ideologica". Essa è considerata da lui come il residuo della fase feuerbachiana del pensiero di Marx. Il residuo da cui Marx si sarebbe liberato quando, in forza della coupure épistémologique (concetto che Althusser deriva da Bachelard), egli sarebbe approdato alla scienza della storia.
Senonché il difficile di quest'operazione - e Althusser l'ha sperimentato - è dove sistemare la coupure. Contrariamente infatti a molte leggende, che vorrebbero il tema dell'alienazione e del feticismo confinato soltanto nei Manoscritti e nel paragrafo del Capitale sul ‛carattere di feticcio della merce', è un fatto che il tema è invece presente - e in posizione, come si dice oggi, strategica - in tutta l'opera economica di Marx della maturità. La coupure, quindi, che, originariamente, sembrava dovesse coincidere con l'Ideologia tedesca (1846) è stata progressivamente spostata da Althusser sempre più avanti fino al punto di cadere (non senza qualche effetto comico) nel momento (1882-1883) in cui Marx, pochi mesi prima della morte, annotò alcune brevi glosse marginali al manuale di economia politica di A. Wagner.
Ma, a parte la coupure, la questione che più lascia perplessi nell'opera di Althusser è il fatto che, mentre da una parte egli ha sempre avversato come ‟ideologico" il tema dell'umanesimo e bandito, con esso, qualsiasi elemento di finalismo storico, fino al punto di considerare come decisiva in Marx la concezione della storia come ‟processo senza soggetto"; da un'altra parte, egli ha continuato a considerare essenziale, nell'opera di Marx, la dialettica come scienza delle contraddizioni.
Althusser può obiettare che la dialettica in Marx c'è veramente. E noi condividiamo la sua obiezione. Può aggiungere che, per Marx, nella lotta di classe, non si tratta di un'‛opposizione reale' di forze contrarie che si affrontano, ma di forze che sono saldate l'una all'altra nel loro conflitto in modo tale che il conflitto stesso, lungi dal distruggere l'una o dall'annullarle entrambe (come accadrebbe nell'‛opposizione reale'), le riproduce costantemente nella loro stessa conflittualità: così che occorre che vi sia unità nella divisione e divisione nell'unità; che l'unità e la divisione siano una sola e medesima cosa. E, di nuovo, noi condividiamo l'obiezione.
Ciò, però, che egli non può negare, a questo punto, è che, proprio un processo (come quello descritto), il quale giunto alla fine riproduce il punto d'inizio, è la definizione stessa di ciò che, in filosofia, si chiama processo teleologico. E, del resto, che la dialettica implichi siffatto finalismo (che è poi la ragione per cui la dialettica stessa è estranea alla scienza e da questa, a sua volta, è sentita come nemica) è ciò che si apprende non appena si comincia a studiare la dialettica di Hegel. Giacché, è noto, questa dialettica implica la rottura dell'unità originaria, l'alienazione di quest'unità da sé, nonché, infine, l'Aufhebung dell'alienazione e il ristabilimento dell'unità stessa.
A questo punto, l'obiezione di prima può essere rifor- mulata. Ciò che più lascia perplessi nell'opera di Althusser è come - essendo nemico dell'alienazione perché nemico del finalismo - egli accetti poi la dialettica in Marx: senza rendersi conto che la teoria della dialettica e la teoria dell'alienazione sono la stessa cosa e che prendere l'una credendo di respingere l'altra, è impresa contraddittoria e vana.
Ma, per paradossale che possa sembrare, ciò che vi è di importante in Althusser è proprio questo: che, mirando giustamente alla scienza, egli ha aiutato, forse più di ogni altro, a capire l'incompatibilità che vi è tra qualsiasi interpretazione dell'opera di Marx come opera di scienza e la pretesa di salvare e saldare ad essa una teoria dell'alienazione. Anche se si deve poi aggiungere che, in questo lavoro, egli si è fermato a mezza strada, senza vedere che l'incompatibilità tra scienza e alienazione portava con sé, inevitabilmente, anche quella tra scienza e dialettica.
8. Questioni di teoria economica
Da collocare nell'ambito del marxismo come scienza sono anche i dibattiti intorno alla teoria economica marxista che punteggiano il XX secolo. In tutte queste discussioni, ovviamente, non una parola sull'alienazione e sul feticismo (gli economisti non ne sanno nulla). Marx è considerato essenzialmente uno scienziato che ha proseguito e sviluppato l'opera di Smith e di Ricardo. Un economista, non un ‛critico dell'economia politica': giacché a una tale espressione non si saprebbe neppure dare un senso. Anche il tema dell'influenza di Hegel è in genere, almeno tra gli studiosi meno prevenuti, minimizzato e respinto in secondo piano. Tipico, in questo senso, il giudizio di Schumpeter in Capitalismo, socialismo e democrazia. Per lui, insistere sull'influenza di Hegel nell'opera di Marx ‟non è soltanto commettere un errore: è far torto alle capacità scientifiche di Marx. E vero ch'egli rimase fedele per tutta la vita al primo amore, si dilettò di certe analogie formali tra il ragionamento di Hegel e il suo, tenne sempre a ribadire il proprio hegelismo e a servirsi della terminologia hegeliana; ma tutto finisce qui. Non mostrò mai una vera tendenza alla metafisica; lo dichiara egli stesso nella prefazione alla seconda edizione di Das Kapital, e che tale affermazione corrisponda alla realtà si può dimostrare esaminando il tipo delle sue argomentazioni, che poggiano sempre sul fatto sociale, e le fonti delle sue proposizioni, nessuna delle quali si ritrova nel campo della filosofia" (v. Schumpeter, 1954; tr. it., pp. 8-9).
Marx, dunque, come uno scienziato positivo. E naturalmente, sotto questo profilo, torna in primo piano, anche per le necessità della polemica contro il soggettivismo delle teorie marginaliste, l'insistenza sulle ‛leggi economiche di movimento', le leggi oggettive di cui si occupa, o si dovrebbe occupare, l'economia politica: leggi che, a parte tutte le altre differenze, sussistono tanto nel capitalismo quanto nel socialismo. Il tema è già toccato da Hilferding, nel 1904, nella sua Böhm-Bawerks Marx-Kritik, cioè nella replica allo scritto di Böhm-Bawerk Zum Abschluss des Marxschen Systems (1896). Ma resta un punto fermo attraverso i decenni. Abbiamo già visto le dichiarazioni di Stalin, a questo proposito, nei Problemi economici del socialismo nell'URSS. Si può ora aggiungere che esse erano già state anticipate da M. Dobb in due suoi interventi su Economic theory and the problem of a socialist economy del dicembre 1933 e del febbraio 1935, rispettivamente sull'‟Economic journal" e su ‟The review of economic studies". In quest'ultimo scritto, la formulazione è particolarmente chiara. Polemizzando contro la ‟pericolosa eredità lasciataci dall'economia soggettivistica", Dobb afferma: ‟Le leggi economiche di cui parlava l'economia politica classica erano leggi oggettive che stringevano gli uomini - qualsiasi fossero i loro progetti coscienti - come in una ‛mano invisibile', un regno della legge nel campo sociale simile a quello del determinismo, che la scienza stava allora scoprendo nel campo naturale. Queste leggi, queste tendenze oggettive, esistono oppure non esistono: in quest'ultimo caso l'economia politica, così com'è stata tradizionalmente concepita, è una pura illusione". E poco oltre aggiungeva: ‟Le leggi economiche che governano un'economia socialista, quali che siano, assomiglieranno all'economia politica classica solo in questo senso: saranno rapporti oggettivi tra eventi, capaci di determinare le azioni umane e a cui dovrà essere adattato un piano efficace. Engels disse una volta che il socialismo avrebbe rappresentato la transizione ‛dal regno della necessità a quello della libertà' - col che non voleva dire che le leggi economiche avrebbero cessato di operare, ma che non avrebbero più operato ‛ciecamente', ‛alle spalle dei produttori individuali', per raggiungere fini diversi da quelli coscientemente voluti e intesi dagli uomini. L'attività economica sarebbe stata regolata dal consapevole riconoscimento delle leggi obiettive che la determinano, mentre l'uomo collettivo, conscio dei propri limiti, avrebbe adattato i propri propositi alle possibilità oggettive" (v. Dobb, 1935; tr. it., pp. 49-50).
In questa prospettiva, la legge del valore-lavoro contenuto appare come una legge scientifica nel senso pieno della parola. E una legge non dissimile da quella della caduta dei gravi, che, una volta scoperta, permette di afferrare l'interna razionalità di fenomeni che sarebbero destinati, altrimenti, ad apparire inspiegabili, privi di qualsiasi regolarità, soggetti a spinte puramente casuali. ‟Ove si consideri - scrive Hilferding - la complessità dei rapporti proporzionali, indispensabili in un sistema di produzione, per anarchico che sia; si affaccia immediatamente il problema di chi mai si prenda cura di mantenere questi rapporti. E chiaro che solo la legge dei prezzi può svolgere questa funzione, giacché sono proprio i prezzi che regolano la produzione capitalistica, e sono le loro variazioni a determinare l'espansione o la limitazione della produzione, l'avvio di una nuova produzione, ecc. Anche qui si dimostra la indispensabilità di una legge obbiettiva del valore, quale unico possibile regolatore dell'economia capitalistica" (v. Hilferding, 1910; tr. it., p. 335).
A questa stessa accezione pensa anche P. M. Sweezy quando - dopo aver osservato che ‟la legge del valore è essenzialmente una teoria di equilibrio generale" - rileva che ‟ciò implica che una delle principali funzioni della legge del valore è di porre in chiaro che in una società produttrice di merci, nonostante manchi una formazione centralizzata e coordinata delle scelte, esiste un ordine e non il semplice caos". Ed egli prosegue: ‟Nessuno ha il potere di decidere come deve essere distribuita la forza produttiva o in quale quantità debbono essere prodotti i vari tipi di merce; eppure il problema trova la sua soluzione, e non in maniera esclusivamente arbitraria e incomprensibile. È compito della legge del valore spiegare come ciò accade e quale ne sia il risultato" (v. Sweezy, 1949; tr. it., p. 81). Su questa stessa linea, e con il vantaggio di indicarne il luogo di nascita in Smith e Ricardo, si iscrive anche l'interpretazione che della legge del valore ha dato Dobb. ‟Con l'opera di Smith e la sua più rigorosa sistemazione da parte di Ricardo, l'economia politica - egli scrive - ha creato un principio quantitativo di unificazione, che l'ha messa in condizione di formulare postulati in termini di equilibrio generale del sistema economico e di formulare leggi sui rapporti generali tra i maggiori elementi del sistema. Nell'economia politica questo principio di unificazione, o sistema dileggi generali espresso in forma quantitativa, è costituito dalla teoria del valore" (v. Dobb, 1937; tr. it., p. 17).
Abbiamo insistito su queste enunciazioni a proposito della teoria del valore perché esse mostrano bene quale sia l'interpretazione prevalente tra gli economisti marxisti, a partire dalla Seconda Internazionale fino a oggi. La legge è considerata una legge oggettiva, al modo stesso delle leggi indagate dalle scienze della natura. E l'elemento unificatore che permette di intendere come tutto ciò che nella produzione capitalistica sembra a prima vista irrazionale e fortuito sia invece regolato e dominato da un'interna razionalità. In breve, si tratta di una legge che consente di esprimere in termini quantitativi (questo è da sottolineare) i rapporti generali tra i maggiori elementi del sistema. Alla luce di essa, il sistema capitalistico, che a prima vista sembra un caos in perenne tumulto, si scopre, nel profondo, come un organismo equilibrato in cui tutte le parti sono in corrispondenza armonica tra loro.
Se si riflette a queste caratteristiche che la legge del valore assume presso la maggior parte degli economisti marxisti, è facile trarre una conclusione: la legge è considerata come il principio che dà ragione ‛del funzionamento' del sistema. Essa spiega come, malgrado tutte le contraddizioni e gli attriti, il sistema funzioni e come dal caos rinasca costantemente un ordine. È, insomma, una ‛legge di equilibrio'.
Senonché proprio questa caratteristica mostra a qual genere di inconvenienti vada incontro questo tipo di interpretazione. Se infatti la legge è una ‟teoria di equilibrio generale" (Sweezy), è evidente che, concesso ch'essa risulti capace di ricostruire il funzionamento del sistema, non sarà però in grado di esprimere nessuna delle ragioni per cui il sistema stesso è destinato a essere superato. Di più: poiché in questa interpretazione la legge è essenzialmente un ‟principio quantitativo di unificazione" (Dobb), ne deriva che essa deve assumere anche solo in termini quantitativi i ‛valori' delle merci. Con il risultato, che la legge si mostra in tal modo incline a considerare esclusivamente i rapporti quantitativi' in base a cui le merci si scambiano tra loro, cioè il ‛valore di scambio' propriamente detto, anziché porsi il problema ‛qualitativo' (per Marx, il problema del feticismo o arcano della merce') di spiegare perché il prodotto del lavoro umano prenda la forma di ‛merce', ovvero perché il lavoro speso nella produzione si presenti reificato come ‛valore' di cose. Quest'ultimo aspetto, che è il nodo centrale della teoria del valore in Marx, risulta quasi completamente ignorato in questa interpretazione, per la quale, si direbbe, la forma di merce torna a essere considerata la ‛forma naturale' del prodotto del lavoro umano, così come già era in Smith e Ricardo. Le conseguenze più rilevanti di questo modo di vedere sono fondamentalmente due. La prima è quella di una radicale riduzione della teoria del valore-lavoro di Marx a quella dei classici. L'idea che prevale è che questa teoria sia sostanzialmente quella stessa di Ricardo. Non si avverte la differenza tra la teoria del valore di Marx e quella di Ricardo. La seconda, che è poi un modo diverso di riformulare la prima, investe la natura stessa del ‛lavoro' che, secondo Marx, entra a costituire il valore della merce.
In questo caso gli interpreti insistono sul concetto di ‛lavoro sociale medio', ma senza rendersi conto che ciò è solo la metà del discorso di Marx. Infatti, per Marx, il lavoro sociale medio presuppone il ‛lavoro astratto', ciò che coinvolge di nuovo il rapporto ‛qualitativo' di cui prima si è detto. Ciò risulta in modo particolarmente chiaro da un passo del terzo volume delle Theorien über den Mehrwert (o, secondo il titolo della traduzione italiana, della Storia delle teorie economiche). ‟Che il quantum di lavoro contenuto in una merce - scrive Marx - sia il quantum ‛socialmente necessario' alla sua produzione - che il tempo di lavoro sia dunque ‛tempo di lavoro necessario - e una determinazione che si riferisce solo alla ‛grandezza di valore'. Ma il lavoro che costituisce l'unità della merce non è solo lavoro medio eguale, semplice. Il lavoro è lavoro dell'individuo privato, rappresentato in un prodotto determinato. Tuttavia, in quanto valore, il prodotto dev'essere incorporazione del lavoro sociale, e in quanto tale dev'essere immediatamente trasformabile da un valore d'uso in ogni altro [...]. Il ‛lavoro privato' deve dunque rappresentarsi immediatamente come il suo contrario, come lavoro ‛sociale'; il lavoro così trasformato come suo immediato contrario, come lavoro ‛astrattamente generale', che si rappresenti quindi anche in un equivalente generale. È solo con la sua alienazione che il lavoro individuale si rappresenta realmente come il suo contrario" (v. Marx, 1905-1910; tr. it., vol. III, p. 151).
Ora, poiché gli interpreti non sanno nulla di questa alienazione e opposizione dialettica tra lavoro privato, utile o concreto, e lavoro sociale astratto, è evidente come la loro concezione di quello che, secondo Marx, è il lavoro produttore di valore, sia assolutamente manchevole. Essi si tengono fermi alla determinazione puramente ‛quantitativa', ignorando l'analisi ‛qualitativa' che descrive il processo sociale che sta dietro la formazione stessa della grandezza di valore. Il risultato è che confondono il ‛lavoro astratto' di Marx con il ‛lavoro incorporato' di Ricardo e che, considerando quest'ultimo come rappresentativo a tutti gli effetti del primo, riducono la ‛grandezza di valore' a una misura puramente contabile, tecnica, priva di qualsiasi connotazione storico-sociale, com'è appunto il caso dell'ultimo Dobb nonché di Produzione di merci a mezzo di merci (1960) di P. Sraffa. (Per amore di completezza va detto che una coscienza almeno iniziale del problema è presente, invece, nella Teoria dello sviluppo capitalistico di Sweezy con la sua distinzione tra l'aspetto ‛qualitativo' e ‛quantitativo' del valore, nonché nel libro postumo di H. Grossmann su Marx, l'economia politica classica e il problema della dinamica).
È importante avere ben chiara quest'interpretazione della teoria del valore come ‛teoria di equilibrio generale' perché essa costituisce uno dei capisaldi che è alla base della controversia, nata nel seno del marxismo della Seconda Internazionale, sul fatto se in Marx esista o meno una ‛teoria del crollo'. Il dibattito, com'è noto, nacque originariamente dal libro di E. Bernstein, Le premesse del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899).
Per Bernstein, il crollismo di Marx era fuori discussione. Esso nasceva dalla sua visione ‛fatalistica' del corso storico, che era, a sua volta, una conseguenza dell'applicazione della dialettica hegeliana. Le reazioni dei marxisti ortodossi furono, com'è noto, per lo più di avviso contrario. Tuttavia chi determinò l'affermazione come maggioritaria della linea contro il crollo fu essenzialmente il Capitale finanziario (1910) di Hilferding (malgrado che del crollo il libro non si occupi quasi affatto). E impossibile, in questa sede, entrare nel merito della discussione. Essa verte, fondamentalmente, sull'interpretazione dei cosiddetti schemi della riproduzione semplice e allargata elaborati da Marx nel libro II del Capitale. Impossibile, nel nostro caso, soffermarci anche sull'analisi dell'influenza determinante esercitata su Hilferding (ma anche su Lenin) dall'economista russo M. Tugan-Baranovskij con la sua Teoria e storia delle crisi commerciali in Inghilterra (1894) nonché con le sue Theoretische Grundlagen des Marxismus (1905). Ciò che interessa ai nostri fini è solo afferrare la questione nei suoi termini più generali. L'interpretazione della teoria del valore, di cui si è detto, scopre qui tutta la sua portata ‛armonicistica'. Nata dall'esigenza di spiegare il funzionamento interno del sistema, essa si dimostra incapace di trascenderlo. Ricordando nel 1926 la sua opposizione di sempre alla Zusammenbruchstheorie ed esprimendo la convinzione di essersi in ciò trovato sempre ‟in completo accordo con le dottrine di K. Marx", Hilferding osservava che ‟proprio il secondo libro del Capitale mostra come all'interno del sistema capitalistico la produzione sia possibile a una scala sempre maggiore": fino ad aggiungere poi, scherzando, che ben per questo egli si era spesso rallegrato che ‟questo secondo libro sia così poco letto, giacché, in certi casi, si potrebbe ricavare da esso un Cantico dei Cantici del capitalismo".
Se alla tesi di Hilferding si affianca ora quella, opposta, della Luxemburg, la regina dei teorici del crollo, contenuta nell'Accumulazione del capitale (1913), si hanno chiari gli estremi dell'alternativa in cui l'analisi marxiana si scompone agli occhi degli interpreti. L'opera di Marx è un intreccio di motivi assai complesso. È una critica del capitalismo, un'analisi delle contraddizioni interne che lo minano; ma è anche, al tempo stesso, l'esposizione e la ricostruzione del modo in cui, malgrado tutto, il sistema esiste e funziona. Detto in modo più semplice e chiaro, ciò significa che l'analisi di Marx si muove su un difficile ‛filo di rasoio', che la discrimina da due altri modi di vedere radicalmente diversi. E cioè: 1) da quelle critiche del capitalismo che, per così dire, ‛dimostrano troppo', ossia che, nello sforzo di acutizzare le contraddizioni interne al sistema, finiscono col dimostrare non già la contraddittorietà del sistema esistente ma addirittura la sua ‛impossibilità', l'impossibilità della sua esistenza e del suo funzionamento; e 2) da quell'opposto modo di vedere che invece - tutto preso e compreso dall'‛esistenza' del meccanismo che indaga - ne attenua e minimizza gli squilibri interni, fino al punto di rendere quell'esistenza ‛assoluta' ed ‛eterna' e, quindi, di non vedere più le ragioni per cui il sistema stesso non può funzionare e durare all'infinito.
Con una certa dose di semplificazione, si può dire che il secondo caso contemplato si attaglia a Hilferding, il primo alla Luxemburg. È evidente che, anche questa volta, non possiamo entrare nell'analisi degli argomenti sviluppati dall'Accumulazione del capitale. Non diremo quindi nulla né delle ragioni per cui la Luxemburg considera impossibile l'accumulazione in condizioni capitalistiche ‛pure' né del ruolo essenziale, ma destinato a inevitabile esaurimento, che, secondo lei, svolgono le cosiddette ‛terze persone', cioè gli elementi esterni al mercato capitalistico. Ciò che interessa, ai fini del nostro discorso, è registrare l'impasse a cui perviene, su questo terreno, l'interpretazione del marxismo come scienza. Nel caso di Hilferding e di tutti i teorici cosiddetti ‛armonicisti' (Kautsky, O. Bauer, Eckstein, ecc.), l'analisi delle ‛leggi di movimento' si risolve nell'analisi di condizioni che sostanzialmente concorrono all'‛equilibrio': alla luce dei fattori evidenziati si capisce come funziona il sistema e quali sono i principi che lo regolano, ma non altrettanto la possibilità di superarlo e trascenderlo. Nel caso, viceversa, della Luxemburg e, più ancora, dell'analisi sviluppata da H. Grossmann in Das Akkumulations-und Zusammenbruchsgesetz des kapitalistischen Systems, il crollo del sistema è fin troppo garantito, è automatico; ma esso si determina, proprio come il blocco di un motore, in forza di ragioni meccaniche e senza che a esso concorrano minimamente nè la lotta delle classi nè la coscienza rivoluzionaria dei protagonisti.
Ci siamo soffermati a lungo nel corso della nostra esposizione sull'interpretazione della legge del valore come teoria dell'equilibrio e come regolatore del sistema economico. L'esame dell'ultimo approdo di questa linea interpretativa nello scritto di O. Lange On the economic theory of socialism (1936-1937) ci permette anche di menzionare la celebre discussione sui problemi del calcolo economico nello Stato socialista che vide impegnati, in momenti diversi, N. G. Pierson, L. von Mises, G. Halm e, infine, F. A. von Hayek, che ne raccolse i documenti in Collectivist economic planning, nel 1935.
Diciamo subito che è lungi da noi l'intenzione di sottovalutare i seri e importanti problemi che stanno dietro allo scritto di Lange e, più ancora, a tutto il dibattito che, circa vent'anni dopo quello scritto, si è aperto nei paesi dell'Europa dell'Est sul cosiddetto ‛socialismo di mercato'. Ciò non toglie che sia altamente significativo, nella storia del marxismo teorico del XX secolo, valutare quanto l'interpretazione, da parte di Lange, della legge del valore e della funzione del mercato sia ormai lontana, e quasi agli antipodi, rispetto a quella di Marx. Il problema delle condizioni storiche e sociali in cui il prodotto del lavoro prende la forma di merce, che è il problema centrale nella teoria del valore di Marx, qui non esiste più. La ‛forma di merce' è tornata a essere, a tutti gli effetti, la ‛forma naturale' del prodotto. I prezzi, sia pure nella forma di ‛prezzi contabili', sono i soli indici razionali delle alternative disponibili. La tesi, in breve, è che il mercato - che in Marx era la somma dell'irrazionalità sociale - è il solo meccanismo che consenta, anche in condizioni di pianificazione, il dispiegarsi della razionalità economica. Giacché, spiega Lange all'inizio della seconda parte del suo saggio, ‟la concorrenza costringe gli imprenditori in un mercato concorrenziale ad agire esattamente nello stesso modo in cui dovrebbero agire se fossero direttori di produzione in un sistema socialista". E conclude: ‟il fatto che la libera concorrenza tenda a imporre regole di comportamento simili a quelle di una economia perfettamente pianificata fa della concorrenza stessa l'idea favorita degli economisti" (v. Lange, 1937; tr. it., p. 97).
Bibliografia
Adler, M., Kausalität und Teleologie im Streite um die Wissenschaft, Wien 1904 (tr. it.: Causalità e teleologia nella disputa sulla scienza, Bari 1976).
Adler, M., Engels als Denker, Berlin 1920.
Adler, M., Marxistiche Probleme. Beiträge zur Theorie der materialistischen Geschichtsauffassung und Dialektik, Stuttgart 1920.
Althusser, L., Pour Marx, Paris 1965, 19662 (tr. it.: Per Marx, Roma 1967).
Althusser, L., Balibar, E., Lire le Capital, Paris 1965 (tr. it.: Leggere il Capitale, Milano 1968).
Bauer, O., Marxismus und Ethik, in ‟Die neue Zeit", 1906, XXIV, vol. II, pp. 485-499.
Cornu, A., K. Marx und F. Engels. Leben und Werke, Berlin 1954 (tr. it.: Marx e Engels. Dal liberalismo al comunismo, Milano 1962).
Della Volpe, G., Logica come scienza positiva, Messina-Firenze 1950.
Dobb, M. H., Economic theory and the problem of a socialist economy, in ‟Economic journal", dicembre 1933.
Dobb, M. H., Economic theory and socialist economy. A reply, in ‟The review of economic studies", febbraio 1935 (tr. it. in: M. H. Dobb, O. Lange, A. P. Lerner, Teoria economica e economia socialista, Milano 1972).
Dobb, M. H., Political economy and capitalism, London 1937 (tr. it.: Economia politica e capitalismo, Torino 1950).
Engels, Fr., Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie, Stuttgart 1888 (tr. it.: L. Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia classica tedesca, Roma 1950).
Engels, Fr., Herrn Eugen Dührings Umwälzung der Wissenschaft, Stuttgart 1894 (tr. it.: Antidühring, Roma 1950).
Engels, Fr., Die Dialektik der Natur, Moskva 1925 (tr. it.: Dialettica della natura, Roma 1955).
??? Engels Briefwechsel mit Kautsky, Wien 1955.
Godelier, M., Système, structures et contradictions dans le Capital, in ‟Les temps modernes", 1966, n. 246, pp. 828-864 (tr. it. in: M. Godelier, L. Sève, Marxismo e strutturalismo, Torino 1970).
Gramsci, A., Quaderni del carcere, 4 voll., Torino 1975.
Grossmann, H., Das Akkumulations- und Zusammenbruchsgesetz des Kapitalismus, Frankfurt a. M. 1967 (tr. it.: Il crollo del capitalismo, Milano 1977).
Grossmann, H., Marx, die klassische Nationalökonomie und das Problem der Dynamik, Frankfurt a. M. 1969 (tr. it.: Marx, l'economia politica classica e il problema della dinamica, Bari 1971).
Hayek, F. A. von, Collectivist economic planning, London 1935 (tr. it.: Pianificazione economica collettivistica, Torino 1946).
Hegel, G. W. Fr., Wissenschaft der Logik, Berlin 1812-1816 (tr. it.: La scienza della logica, 2 voll., Bari 19682).
Hegel, G. W. Fr., System der Philosophie, Stuttgart 1927-1930.
Hilferding, R., Böhm-Bawerks Marx-Kritik, Wien 1904 (tr. it.: La critica di Böhm-Bawerk a Marx, in E. Böhm-Bawerk, R. Hilferding, L. von Bortkiewicz, Economia borghese ed economia marxista, Firenze 1971).
Hilferding, R., Das Finanzkapital, Berlin 1910 (tr. it.: Il capitale finanziario, Milano 1961).
Hook, S., From Hegel to Marx, Ann Arbor 1936 (tr. it.: Da Hegel a Marx, Firenze 1972).
Kautsky, K., Ethik und materialistische Geschichtsauffassung, Stuttgart 1906 (tr. it.: Etica e concezione materialistica della storia, Milano 1958).
Kautsky, K., F. Engels, Berlin 1908.
Korsch, K., Marxismus und Philosophie, Berlin 1923 (tr. it.: Marxismo e filosofia, Milano 1966).
Korsch, K., Karl Marx, London-New York 1938 (tr. it.: Karl Marx, Bari 1968).
Lange, O., On the economic theory of socialism, in ‟The review of economic studies", ottobre 1936-febbraio 1937 (tr. it.: Sulla teoria economica del socialismo, in M. H. Dobb, O. Lange, A. P. Lerner, Teoria economica e economia socialista, Milano 1972).
Lenin, Vl. I., Materializm i empiriokriticizm, Moskva 1909 (tr. it.: Materialismo e empiriocriticismo, Roma 1953).
Lenin, Vl. I., Filosofskie tetradi, Moskva 1936 (tr. it.: Quaderni filosofici, Milano 1958).
Lenin, Vl. I., Karl Marx, Moskva 1936 (tr. it.: Karl Marx, Roma 1965).
Lukács, G., Geschichte und Klassenbewusstsein, Berlin 1923 (tr. it.: Storia e coscienza di classe, Milano 1967).
Luxemburg, R., Die Akkumulation des Kapitals, Berlin 1913 (tr. it.: L'accumulazione del capitale, Torino 1960).
Marx, K., Das Kapital, 3 voll., Hamburg 1867-1894 (tr. it.: Il capitale, 3 voll., Roma 1970).
Marx, K., Theorien über den Mehrwert, 3 voll., Stuttgart 1905-1910 (tr. it.: Storia delle teorie economiche, 3 voll., Torino 1954-1958).
Marx, K., Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, Berlin 1953 (tr. it.: Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, 2 voll., Firenze 1968-1970).
Merleau-Ponty, M., Les aventures de la dialectique, Paris 1955 (tr. it.: Umanismo e terrore e Le avventure della dialettica, Milano 1965).
Monod, J., Le hasard et la nécessité, Paris 1970 (tr. it.: Il caso e la necessità, Milano 1974).
Plechanov, G. V., Materialismus militans (Voinstvu iustcii materializm), Moskva-Leningrad 1928.
Plechanov, G. V., Beiträge zur Geschichte des Materialismus, Stuttgart 1896.
Rjazanov, D., Marx, Moskva 1923 (tr. it.: Marx ed Engels, Milano 1945).
Schumpeter, J. A., Capitalism, socialism and democracy, London 1954 (tr. it.: Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano 1955).
Sève, L., Méthode structurale et méthode dialectique, in ‟La pensée", 1967, n. 135, pp. 63-93 (tr. it. in: M. Godelier, L. Sève, Marxismo e strutturalismo, Torino 1970).
Stalin, I. V., Ekonomičeskie problemi sozialisma v SSSR, Moskva 1952 (tr. it.: Problemi economici del socialismo nell'URSS, Roma 1953).
Sweezy, P. M., The theory of capitalist development, London 1949 (tr. it.: La teoria dello sviluppo capitalistico, Torino 1951).
Tucker, R. C., Philosophy and myth in Karl Marx, Cambridge 1961.
Tugan-Baranovskij, M., Theoretische Grundlagen des Marxismus, Leipzig 1905.