ANDREUZZI (Andreucci), Marzio
Nacque a Udine nel 1557 da famiglia nobile. Il padre, Lodovico, aveva sposato Cassandra Tritonio, il cui zio patemo, Ruggero, era abate di Pinerolo e membro influente della corte papale. Laureatosi in utroque iure a Padova, non seguì i consigli del padre, che lo spronava alla carriera forense, ma preferì prendere gli ordini sacri. Probabilmente per intercessione del Tritonio ottenne da papa Gregorio XIII un canonicato nella metropolitana di Aquileia (1582). Nel 1585 si trasferì a Roma presso lo zio, che riuscì a procurargli un impiego presso la corte del cardinale Laureo. Morto, però, il 31 maggio 1589, il decano del capitolo di Udine Giambattista di Pers, il pontefice Sisto V destinò a succedergli l'A., che ritornò allora in Friuli.
E in Friuli l'A. si trovò ben presto immischiato, dato il suo carattere violento e impulsivo, in varie beghe tra il capitolo di Cividale e quello di Udine (in occasione di una di queste liti venne chiamato a Roma da Clemente VIII e dovette riconoscere il proprio torto) e all'interno dello stesso capitolo udinese. Divenuto vicario del cardinale Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, per l'abbazia di Rosazzo, spesso ebbe a contendere con il patriarca di Aquileia, da cui dipendeva l'abbazia: contese che fecero apparire l'A. al governo della Serenissima troppo fedele sostenitore degli interessi della curia romana.
Fu appunto la decisa opposizione di Venezia che non permise all'A., pur protetto dal cardinale Aldobrandini, di ottenere la cattedra arcivescovile di Spalato, che toccò invece al già vescovo di Segna, Marcantonio De Dominis (15 nov. 1602). Il De Dominis si impegnò però a versare annualmente all'A. 500 ducati veneziani.
Due anni più tardi Venezia cercò di impedire che l'A. accedesse a una sede in territorio veneziano, e cioè a quella di Traù, diocesi suffraganea di Spalato: ma l'A. divenne vescovo il 19 luglio 1604; e una serie di pensioni sui vescovadi di Traù e di Zara, attribuite a prelati veneziani, addolcì alla Serenissima la pillola amara di un'elezione non gradita.
Particolarmente sgradita tale elezione dovette riuscire al De Dominis, il quale fino ad allora si era rifiutato di pagare la forte pensione (un quarto delle rendite dell'arcivescovado) all'A., protestando le forti spese cui era sottoposta l'archidiocesi e sostenuto in tale protesta dal capitolo e dalla Comunità di Spalato. Ma la curia romana, ascoltando più volentieri le lamentele dell'A., già sul finire del 1603 minacciò il De Dominis dell'interdetto, se non avesse pienamente soddisfatto alle richieste dell'A.: e tale minaccia Roma mandava ad effetto l'anno successivo (17 dic. 1604). Il De Dominis si risolse quindi ad andare a Roma per patrocinare la propria causa (gennaio 1605), munito di commendatizie ufficiali per l'ambasciatore veneto che avrebbe dovuto sostenerlo nei limiti del possibile di fronte alla curia. Il De Dominis, liberato dall'interdetto, dovette, però, sottostare al pagamento dell'annua pensione all'A. ivi inclusi gli arretrati: al che egli temporaneamente si sottrasse mediante alcuni espedienti giuridici.
Scoppiata intanto la grave disputa tra Roma e Venezia (1606), colpita dall'interdetto l'intera Repubblica, le sole diocesi veneziane che avessero il permesso di officiare erano quelle dalmate, per la vicinanza con i Turchi e con le diocesi greco-ortodosse. L'A. si dimostrò in tale occasione un deciso sostenitore della curia romana giungendo al punto di allontanarsi dalla propria sede per recarsi in Friuli, senza curarsi di rispondere alle sollecitazioni delle autorità veneziane della Dalmazia perché ritornasse nella propria diocesi.
Terminata la disputa tra Roma e Venezia si riaffacciò la sempre pendente questione della pensione che il De Dominis doveva versare all'Andreuzzi.
La questione si concluse nel dicembre 1611 allorché l'A. accettò l'arbitrato del patriarca di Aquileia, E. Barbaro, e di quello di Venezia F. Vendramin, in base al quale il De Dominis pagò all'A. 2.300 ducati; 500 entro un mese, 1000 per il settembre 1612, il resto negli anni seguenti. Il papa assentì all'accordo.
L'assenza dell'A. da Traù provocava un notevole disordine tra il clero: la Comunità ne era scandalizzata, specie dopo che l'A. sul finire del 1612 prese come vicario tale Piero Tomaseo di Almissa, che era ammogliato con una cittadina di Traù: l'intervento dell'arcivescovo di Spalato e del conte di Traù ottennero l'allontanamento dalla città del Tomaseo, ma non giunsero a riportare l'ordine fra il clero. L'A. ritornò nella propria sede, ben accolto dalle autorità veneziane, che speravano dalla presenza del vescovo l'eliminazione degli abusi, agli inizi del 1614.
Proprio in quel periodo il De Dominis, maturando il suo distacco da Roma, aveva preso ad interferire sempre più nella vita delle diocesi suffraganee: avendo l'A. sospeso e scomunicato un membro del proprio capitolo e altri preti ritenuti indegni, ed essendo costoro ricorsi al De Dominis, questi li assolse accusando l'A. di eccessiva severità. L'A. rifiutò l'ingerenza del De Dominis, che rispose accusandolo di voler sminuire l'autorità del metropolitano col negargli il diritto di appello (25 nov. 1613). L'A. ribatte tacciando il De Dominis di abuso di potere e di attentato alla integrità della giurisdizione episcopale contrariamente ai sacri canoni (15 dic. 1613). Il De Dominis non recedette: anzi giunse ad interdire l'A. dall'amministrazione della diocesi e lo separò dalla sua comunione: contemporaneamente cercò l'appoggio delle autorità centrali veneziane per sostenere il suo diritto a giudicare in appello (gennaio-febbraio 1614). Venezia invitò le autorità veneziane in Dalmazia ad appoggiare l'arcivescovo di Spalato. Intanto. l'A. e il De Dominis si scomunicavano vicendevolmente i preti della diocesi di Traù. Ma Venezia, ormai rappacificata con Roma, non intendeva sostenere fino in fondo l'arcivescovo spalatino: la questione, dopo un ricorso dell'A. alla curia romana, si risolse infine pienamente a favore dell'A. col passaggio aperto all'apostasia del De Dominis (1616).
Riportato l'ordine all'interno del clero e della Comunità di Traù con l'aiuto delle autorità veneziane, l'A. pensò di richiamare nel convento di S. Maria, nell'isola di Bua, i francescani osservanti che avevano abbandonato tale convento due secoli prima. Essi vi ritornarono nel 1623 poco dopo la morte dell'A., avvenuta appunto nei primi mesi di quell'anno.
L'A. si dilettò talvolta di comporre versi: qualche suo saggio si trova nella raccolta di Giovanni Strassoldo che venne pubblicata a Udine nel 1692.
Bibl.: D. Farlati, Illyricum sacrum, Venetiis 1765-69, III, pp. 482-493; IV, pp. 126-127; G. G. Liruti, Notizie della vita ed opere scritte da' letterati del Friuli, IV, Venezia 1830, pp. 141-143; S. Ljubiâ, Prilozi za ûivotopis Markantuna de Dominisa Rabljanina, splietskoga nadbiskupa, in Starine, II (Zagabria 1870); Id., O Markantuna De Dominis..., in Rad. X dell'Accad. Iugoslava, Zagabria 1871; A. Bacotich, M. De Dominis, Appunti biografici, in Arch. stor. per la Dalmazia, II, 4 (1927), pp. 65-77; P. Gauchat, Hierarchia catholica..., IV, Monasterii 1935, p. 341; G. Moroni, Diz. di erudiz. stor.-ecclesiastica, LXXIX, p. 195; Dict. d'Hist. et de Géogr. Eccléas.,II, coll. 1756 s.