MASACCIO
(Tommaso di ser Giovanni di Mone di Andreuccio). – Nacque il 21 dic. 1401 a Castel San Giovanni, l’odierna San Giovanni Valdarno in provincia di Arezzo, da Giovanni di Mone e Iacopa di Martinozzo.
Per quanto è possibile giudicare dai documenti d’archivio pervenuti, la situazione economica della famiglia paterna appare essere stata buona: il nonno Mone (Simone) di Andreuccio e il fratello Lorenzo – «legnaioli» o «cassai», secondo la terminologia dell’epoca – erano titolari di un’avviata bottega artigiana che risulta in piena attività ancora nel 1414-15. Il padre di M. poté quindi seguire gli studi fino a diventare notaio entro i vent’anni. La madre, dopo la scomparsa prematura del marito nel 1406, sposò in seconde nozze lo speziale Tedesco di Feo, che morirà nell’agosto 1417, forse di peste. Nello stesso 1406 nacque il fratello minore di M., Giovanni di ser Giovanni, detto lo Scheggia. Come accade per i grandi artisti di ogni tempo, anche nel caso di M. furono i contemporanei a riconoscerne e decretarne la grandezza, rimasta poi pressoché inalterata nel corso dei secoli. Ciò è attestato in maniera inequivocabile dalla citazione di Leon Battista Alberti nel prologo del trattato Della pittura (1436), oppure dalla folgorante sintesi critica dell’umanista Cristoforo Landino (1481, p. 124): «Fu Masaccio optimo imitatore di natura di gran rilievo universale buono componitore et puro sanza ornato». Di portata critica non inferiore appare anche l’ideale passaggio di consegne fra Giotto e M. tratteggiato da Leonardo da Vinci nel Trattato della pittura (1500 circa), che anticipa di quattrocento anni la brillante e fortunatissima formula berensoniana di M. quale «Giotto born again» (1896). Mezzo secolo dopo Leonardo, Giorgio Vasari (1550: Bettarini - Barocchi, p. 134) pronunciava un giudizio critico che è tuttora sostanzialmente condiviso: «E gli artefici più eccellenti, conoscendo benissimo la sua virtù, gli hanno dato vanto di avere aggiunta nella pittura vivacità ne’ colori, terribilità nel disegno, rilievo grandissimo nelle figure, et ordine nelle vedute degli scorti; affermando universalmente che da Giotto in qua, di tutti i vecchi maestri Masaccio è il più moderno che si sia visto». Il ruolo di fondatore della pittura moderna attribuito a M. appare anche ora pressoché indiscusso, ed è stato riaffermato con forza dalla mostra memorabile a lui dedicata, svoltasi nella casa di M. a San Giovanni Valdarno, dal settembre 2002 all’inizio del 2003, in occasione del sesto centenario della nascita. Fortissima è la carica naturalistica di M., che si traduce sovente in una restituzione «in presa diretta» della realtà, secondo accenti che risultano particolarmente stimolanti per la nostra percezione visiva di uomini del XXI secolo (Tartuferi, 2003).
È verosimile che M. si sia trasferito dalla natia Castel San Giovanni a Firenze molto presto, forse appena sedicenne, appoggiandosi al pittore Niccolò di Lapo che teneva bottega in piazza S. Apollinare (l’attuale piazza S. Firenze, all’angolo con via Condotta), con un altro artista, Francesco di Iacopo Arrighetti, iscrittosi all’arte nel 1404 (Padoa Rizzo, 2002). I rapporti di M. con Niccolò di Lapo furono con ogni probabilità duraturi e non occasionali: nel giugno 1425 i due furono pagati per la doratura di alcuni candelabri della cattedrale di Fiesole; mentre nel 1431 Niccolò denunciava al Catasto un credito nei confronti di M. che ormai riteneva di non poter riscuotere (Beck - Corti, 1978, pp. 15, 54).
Sfortunatamente non si potranno trarre conclusioni significative sul terreno storico-artistico fino a quando le due personalità che affiancarono M. ai suoi esordi resteranno nomi senza opere. Forse Niccolò di Lapo, figlio di un notaio come M., ebbe un ruolo nell’introdurre il giovane M. in un ambito prossimo alla potente arte dei giudici e notai: non va dimenticato infatti che lo stesso Filippo Brunelleschi, indicato concordemente dalle fonti come maestro di M. nel campo della prospettiva, era a sua volta figlio di un notaio.
Più di un indizio porta tuttavia a indicare il primo maestro del giovane artista nel pittore Mariotto di Cristofano (Boskovits, 1969 e 2002), anche lui originario di San Giovanni Valdarno, che nel 1421 prese in moglie Caterina di Tedesco di Feo, sorellastra di Masaccio. Questa ipotesi sembrerebbe essere corroborata su base stilistica rispetto all’altra, prospettata da Berti (1988) e ripresa da Padoa Rizzo (2002), che individua in quella di Bicci di Lorenzo la bottega artistica fiorentina in cui si sarebbe svolta la formazione professionale vera e propria di M. dopo l’iniziale apprendistato valdarnese. Ma poiché non esiste alcuna attestazione documentaria o d’altro genere che metta in rapporto diretto M. con l’operosissimo Bicci, occorrerà piuttosto indagare l’ambiente artistico in cui M. si trovò a operare nelle primissime fasi della sua breve e assai intensa carriera. In quest’ottica, si rivelano particolarmente preziosi gli spunti offerti di recente da Boskovits (2002), nel sottolineare le intime analogie che legano M. all’attività di due artisti appartenenti alla sua stessa generazione e già indicati da tempo dalla critica come artisti di transizione: Giovanni Toscani e Arcangelo di Cola da Camerino. La vicinanza con Toscani è indicata in maniera esemplare dalla Madonna dell’Umiltà dello stesso, acquistata di recente per la Galleria dell’Accademia di Firenze, in cui Fremantle (1998) ritenne, a torto, di scorgere anche l’intervento diretto di Masaccio.
Stante la disarmante scarsità di notizie certe sugli inizi di M., la fonte più importante per indagarne la formazione artistica è il trittico, scoperto e pubblicato da Berti (1961) con l’attribuzione a M., nella chiesa di S. Giovenale a Cascia di Reggello, non lontano da Firenze e molto vicino a San Giovanni Valdarno.
Nella parte centrale dell’opera – dal 1988 conservata a Cascia nella pieve di S. Pietro – è raffigurata la Madonna col Bambino in trono e due angeli, nel laterale di sinistra figurano i santi Bartolomeo e Biagio, mentre in quello di destra i santi Giovenale e Antonio Abate. La scritta in calce alla tavola principale è di fondamentale importanza storica: «[ANNO DO]MINI MCCCC.XXII ADI VENTITRE D’AP[RILE]». È davvero difficile sottolineare come merita l’importanza capitale di quest’opera per la storia dell’arte occidentale. L’aspetto più stupefacente e nuovo consiste nella resa della spazialità della tavola centrale, fondata sulla straordinaria soluzione prospettica del trono: anche qui, in maniera del tutto inedita per la pittura del tempo, tutte le linee ortogonali del pavimento e del trono convergono in un unico punto di fuga. In altre parole, nell’aprile 1422, l’artista che ha dipinto quest’opera si muoveva già con piena disinvoltura nell’ambito della nuova visione brunelleschiana. L’ipotesi che questo artista rivoluzionario sia identificabile con il giovane M. – già registrato come «pictor» nel gennaio 1422 nell’arte dei medici e speziali a Firenze – è stata accettata dalla maggior parte dei critici, sebbene non manchino autorevoli eccezioni (Longhi; Procacci; Volpe). Anche Bellosi (2002) ha manifestato forti perplessità circa la piena autografia masaccesca dell’opera, che egli ritiene soltanto influenzata da M. ed eseguita probabilmente all’interno della sua bottega dal fratello Giovanni. Non è facile, tuttavia, ritenere questo trittico di non altissima qualità, poiché in esso ogni aspetto risulta nuovo e alla base della visione rinascimentale: i sacri personaggi vi appaiono straordinariamente vivi e dotati di un’inedita evidenza plastica, che in quei giorni trovava l’unico riscontro possibile nelle sculture di Donatello. Qualche incertezza nell’esecuzione indicata dai critici più severi soprattutto nello scomparto sinistro si può comprendere non in base a presunti interventi di bottega, bensì ammettendo alcuni passi falsi anche da parte del giovane M., che era pur sempre in una fase assai precoce della sua attività e, soprattutto, stava sperimentando il rinnovamento completo dei modelli figurativi della sua epoca (Tartuferi, 2003).
L’analisi stilistica del trittico di S. Giovenale consente di espungere con una certa tranquillità dal catalogo masaccesco un paio di vecchie attribuzioni che in passato registrarono una certa fortuna critica. L’affresco con la Madonna col Bambino in trono fra s. Michele Arcangelo e s. Giovanni Battista dell’oratorio della Madonna delle Grazie a Montemarciano (Loro Ciuffenna), opera di qualità non eccelsa, spetta con ogni probabilità all’attività matura di Francesco d’Antonio; e anche la figura assai lacunosa di un Santo vescovo, affrescata sul pilastro d’ingresso a destra nella chiesa di S. Lorenzo a San Giovanni Valdarno, non presenta i requisiti stilistici per essere accolta nel novero assai ristretto delle opere più antiche di Masaccio.
A un momento prossimo al trittico dovrebbe spettare (Boskovits, 2002) – anche se l’opinione degli studiosi è tutt’altro che concorde, sul piano sia attributivo sia cronologico – il bellissimo desco da parto della Gemäldegalerie di Berlino, che sul recto raffigura la Celebrazione di una nascita, inserita in una delle più splendide e solenni architetture rinascimentali sin qui note, resa tuttavia straordinariamente vera e abitabile da una miriade di osservazioni dal vero; mentre nel tergo presenta un Putto che accarezza un animaletto, molto vicino, com’è stato notato, al Gesù Bambino al centro del trittico di S. Giovenale.
L’opera è uno dei massimi raggiungimenti del primo Rinascimento in pittura, ingiustamente declassata, soprattutto in passato per la verità, a causa dell’inadeguata valutazione dei suoi notevolissimi valori costitutivi (disegnativi, cromatici e di stesura pittorica, nonché soprattutto spaziali) o, peggio, per presunte, sfuggenti incongruenze di natura tecnico-esecutiva (Strehlke - Frosinini, 2002): tuttavia, l’autografia masaccesca e anche la precocità cronologica sono ormai generalmente riconosciute dai critici (Bellosi, 2002, limitatamente al recto; Boskovits, 2002; Tartuferi, 2002; Parenti, 2003).
Allo stesso momento potrebbe appartenere il bellissimo Ritratto di giovane della National Gallery of art di Washington, unico esemplare superstite della ritrattistica masaccesca, la cui qualità appare nettamente superiore a quella riscontrabile negli altri due ritratti maschili riferiti talvolta a M., che tuttavia non dovrebbero spettargli: il Ritratto di giovane dell’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston e quello del Musée des beaux-arts di Chambéry.
Il dipinto di Washington è probabilmente uno degli esemplari più antichi del ritratto fiorentino di profilo, che conoscerà una notevole fortuna (Boskovits, 1997). Ma soprattutto esso intreccia, pur muovendo dalla fiorente cultura tardogotica locale, un altissimo e quasi inatteso dialogo con la coeva cultura fiamminga del Maestro di Flemalle e di Jan van Eyck. Appare assai verosimile che M. abbia giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo del ritratto fiorentino quattrocentesco, come si può ricavare dall’ammirata descrizione fatta da Vasari (1568: Bettarini - Barocchi, pp. 129 s.) del perduto affresco a monocromo raffigurante la Consacrazione della chiesa di S. Maria del Carmine a Firenze: «dipinse di chiaro e scuro sopra la porta che va in convento dentro nel chiostro, tutta la sagra, come ella fu; e vi ritrasse infinito numero di cittadini in mantello ed in cappuccio, che vanno dietro alla processione: fra i quali fece Filippo di ser Brunellesco in zoccoli, Donatello, Masolino da Panicale stato suo maestro, Antonio Brancacci che gli fece far la cappella, Niccolò da Uzzano, Giovanni di Bicci de’ Medici, Bartolommeo Valori». Una raffigurazione di stupefacente novità, senza alcun riscontro iconografico coevo, paragonabile soltanto al moderno reportage giornalistico (Tartuferi, 2003). Non è nota la data di esecuzione di questa pittura, distrutta nel 1598-1600 circa per lavori di ristrutturazione, tuttavia il carattere di bruciante attualità che sembra di riscontrarvi in base alle testimonianze superstiti, induce a prospettare un periodo non troppo distante dall’evento ivi raffigurato, che ebbe luogo il 19 apr. 1422, anziché immaginare una commissione di natura rievocativa a distanza di alcuni anni. L’interesse per la figura umana restituita in maniera straordinariamente naturalistica attraverso la visione prospettica condusse M. a risultati di stupefacente e «artificiosa» bellezza, che giustificano gli accenti di autentica esaltazione riscontrabili in alcune fonti antiche riguardo a opere ad affresco che malauguratamente non si sono conservate. Si tratta dell’affresco con s. Ivo e al di sotto «vedove, pupilli e poveri, che da quel Santo sono nelle loro bisogne aiutati» (Vasari, 1568: Bettarini - Barocchi, p. 126), nella badia fiorentina, oppure del S. Paolo che fu dipinto su di un pilastro del transetto della chiesa del Carmine di Firenze, dalla parte opposta alla cappella Brancacci, con le sembianze di Bartolo di Angiolino Angiolini, un magnate fiorentino che aveva ricoperto importanti incarichi pubblici.
Tra i numeri più discussi e controversi del catalogo masaccesco è da annoverare anche la disastratissima (a causa dei «restauri» subiti) Madonna dell’Umiltà della stessa National Gallery di Washington.
La paternità masaccesca fu asserita tra gli altri già da Berenson (1929-30), ma rivendicata con decisione appassionata solo in anni più vicini da Volpe (1983) e, ancora più di recente, da Boskovits (2003). Non si può non leggere, anche attraverso la riflettografia all’infrarosso (Strehlke - Frosinini, 2002), la forza insopprimibile e assolutamente inedita di questo straordinario messaggio figurativo, autentico equivalente pittorico dei bassorilievi donatelliani, che sembra preludere alla massa compatta della S. Anna Metterza degli Uffizi di Firenze. A dispetto delle rovinose condizioni si tratta infatti di un altissimo capolavoro – al pari di ogni altro autografo masaccesco – che segna la prima grande svolta nell’arte di M. e fa da ponte fra lo stile «incerto» degli inizi e il linguaggio inconfondibile della fase matura: e tutto ciò è riassunto in maniera straordinariamente esemplare dal piccolo Gesù, che si pone giusto a metà strada fra il robusto bambolotto che compare al centro del trittico di Cascia e il solenne e naturalissimo Bambino della tavola centrale del polittico per il Carmine di Pisa, oggi alla National Gallery di Londra.
Fino a questo punto non c’è traccia nell’opera di M. di rapporti con Masolino da Panicale, originario anch’egli con ogni probabilità del Valdarno superiore. A differenza di quanto ritenuto in passato, oggi si può affermare che questo grande artista non ebbe in pratica alcuna influenza sulla formazione artistica di Masaccio.
Il rapporto di collaborazione certamente intenso e profondo intrecciato da questi due protagonisti dell’arte fiorentina dell’epoca non mutò sostanzialmente il loro linguaggio individuale, e tuttavia essi riuscirono – pur nella sostanziale diversità di fondo che li caratterizza – a esprimersi in maniera sorprendentemente omogenea sul piano stilistico. «Quando le strade di Masolino e di Masaccio s’incrociano, il primo è ormai pittore ben affermato che coniuga le sue esperienze nell’ambito del gotico cortese con una ricerca di tipo neogiottesco, ottenendo buoni successi tra i committenti fiorentini. Né la sua visione artistica si modifica sostanzialmente […] dopo il lavoro comune sulle impalcature della cappella Brancacci […]. Masolino scelse di collaborare con il ben più giovane collega non tanto perché stordito dal suo potente messaggio, quanto perché in quel momento questo ragazzo di San Giovanni Valdarno gli sembrava nutrire ideali vicini ai suoi ed era libero da altri impegni. E se nel corso della comune esperienza le figure di Masolino acquistarono maggiore solennità e gravità corposa, nemmeno il suo geniale compagno di lavoro avrà mancato di effettuare qualche aggiustamento stilistico, rinunciando alle forme minutamente caratterizzate del Trittico di Reggello e proponendo corpi più essenziali e dalle carni più tenere» (Boskovits, 2002, pp. 64, 66).
L’attribuzione di Vasari al solo M. della S. Anna Metterza della Galleria degli Uffizi fu accolta generalmente dai critici fino alla celebre distinzione filologica operata nel 1940 da Longhi, che individuò la collaborazione dei due artisti e precisò l’intervento di M. nel gruppo «statuario» della Madonna col Bambino e nell’angelo reggicortina di destra.
Anche le indagini riflettografiche (Strehlke - Frosinini, 2002, pp. 156-159) confermano la presenza di due personalità: nelle parti riferite a M. si evidenzia il ricorso a incisioni per rafforzare i contorni, soprattutto negli occhi e nella bocca della Vergine, nonché nel delineare il corpo del Bambino. Nelle parti riferibili a Masolino appare al contrario molto meno evidente il disegno preparatorio, mentre nella riflettografia all’infrarosso si notano tracce di disegno a pennello in corrispondenza dell’ampio soggolo di s. Anna. La datazione dell’opera dovrebbe restringersi tra il novembre del 1424, anno in cui vengono ultimati da Masolino gli affreschi per la cappella della Compagnia della Croce in S. Stefano degli Agostiniani a Empoli e la partenza di questo artista per l’Ungheria il 1° sett. 1425: vale a dire in pratica i medesimi estremi cronologici indicati anche per gli affreschi della cappella Brancacci, di cui si dirà più avanti. Recenti ricerche documentarie (Cecchi, in Baldinotti - Cecchi - Farinella, 2002) sembrerebbero indicare il committente dell’opera in ser Nofri d’Agnolo Buonamici, titolare di un’impresa tessile artigiana, la cui famiglia era particolarmente devota a s. Anna. A quest’ultima – nel rispetto delle volontà testamentarie del padre Agnolo del Brutto Buonamici – ser Nofri dedicava ogni anno una festa presso l’omonimo altare della chiesa di S. Ambrogio a Firenze, per il quale fu commissionata la tavola oggi agli Uffizi. Il sontuoso drappo con frutti di melograno retto dai tre angeli alle spalle del trono potrebbe quindi assumere un significato più preciso e storicamente significativo alla luce delle nuove ipotesi relative alla committenza dell’opera. Appare inoltre degno di nota il documentato rapporto di Nofri d’Agnolo Buonamici con Felice Brancacci, titolare anch’egli di un’analoga impresa di tessitoria di proporzioni ben più vaste, e soprattutto probabile committente del binomio Masolino-Masaccio per la decorazione della sua cappella al Carmine. A breve, anzi brevissima distanza temporale dal trittico di Cascia di Reggello (1422), capolavoro acerbo e controverso, M. propone, in perfetta simbiosi operativa con il suo più esperto e compassato compagno di lavoro, un testo paradigmatico della gravitas rinascimentale in pittura, appoggiato quasi certamente anche a modelli antichi, prescindendo tuttavia da qualsivoglia accento archeologizzante. «È inoltre in questa tavola stupenda e segnatamente nella Madonna col Bambino, nell’indicibile inglobarsi di queste due masse corporee, che s’impone per la prima volta quella “presenza fisica” – materiale e morale ad un tempo – che marca inconfondibilmente le creature masaccesche» (Tartuferi, 2003, p. 21). Tuttavia, un caso di collaborazione fra Masolino e M. anteriore a quello riscontrabile nella S. Anna Metterza degli Uffizi potrebbe essere testimoniato dalla rovinatissima tavoletta di predella conservata presso il Museo della Fondazione Horne a Firenze, che mediante una folgorante sintesi narrativa presenta tre momenti della tragica vicenda di s. Giuliano. Le analisi tecniche (Strehlke - Frosinini, 2002, pp. 81-87, 154 s.) sembrerebbero infatti indicare con chiarezza che era questa la tavoletta posta in origine sotto il bellissimo S. Giuliano di Masolino conservato oggi nel Museo diocesano di S. Stefano al Ponte a Firenze e non, come ipotizzato da una parte della critica, quella di analoga iconografia del Musée Ingres a Montauban, anch’essa opera indubbia di Masolino. Vasari descrive puntualmente il trittico cui appartenne questa tavoletta, da lui assegnato a M., che si trovava sull’altare della cappella Carnesecchi nella chiesa di S. Maria Maggiore a Firenze. La Madonna al centro del complesso fu identificata (Toesca, 1923) con un dipinto nella chiesa di S. Maria a Novoli, opera certa di Masolino, rubato alla fine di gennaio del 1923 e purtroppo mai recuperato. La datazione più attendibile per i dipinti di Masolino – e quindi per la tavola di predella di M. – dovrebbe cadere intorno al 1423, a motivo del sensibile legame stilistico riscontrabile con la Madonna col Bambino (Brema, Kunsthalle) di Masolino, datata per l’appunto 1423. Potrebbe trattarsi, quindi, del più antico caso di collaborazione fra i due artisti; mentre la critica non ha mancato di sottolineare che i Carnesecchi erano originari proprio di Cascia di Reggello, lo stesso territorio per cui M. aveva dipinto il trittico del 1422. In quella che potrebbe essere per noi la testimonianza più antica del suo linguaggio narrativo, M. riesce a trasmettere tutta l’altissima tensione drammatica di questa storia, pur prescindendo dalla più consueta raffigurazione del momento dell’uccisione dei genitori da parte di s. Giuliano.
La decorazione pittorica della cappella Brancacci nella testata del transetto destro della chiesa di S. Maria del Carmine a Firenze, pur nello stato incompleto in cui è giunta, è alla base della cultura figurativa moderna dell’Occidente. Sul piano storico-artistico un simile impatto innovativo può essere paragonato soltanto a quello esercitato soprattutto dalla decorazione della basilica superiore di S. Francesco ad Assisi, che spetta però a una schiera assai folta di artisti di prima grandezza, concretatosi in uno spazio di svariate decine di metri quadrati di affreschi, mentre la cappella Brancacci è un ambiente di appena 7 m scarsi di profondità per poco più di 5,5 m di altezza.
La famiglia Brancacci tenne il patronato della cappella dalla seconda metà del secolo XIV fino al 1780, quando subentrarono i Riccardi. La fondazione risale a una disposizione testamentaria di Piero di Piuvichese Brancacci del 20 febbr. 1367; ma la costruzione fu avviata soltanto verso la fine degli anni Ottanta del Trecento, da parte del figlio di Piero, Antonio Brancacci. Vasari attribuisce la commissione degli affreschi proprio a quest’ultimo, che morì negli ultimi anni del Trecento. Tuttavia, all’epoca era tutt’altro che rara la circostanza che dalla disposizione testamentaria per un’opera d’arte all’effettiva realizzazione della stessa trascorressero anche molti anni. È stata inoltre segnalata (Casazza, in Baldini - Casazza, 1990) l’esistenza di un altro Antonio, dei Brancacci del ramo di S. Maria Novella, nato nel 1402 e di cui si ha notizia fino al 1469, che pure potrebbe identificarsi con quello indicato da Vasari. Il committente degli affreschi è però tradizionalmente indicato in Felice Brancacci, che nella prima redazione del suo testamento nel 1422 si considera titolare del patronato della cappella, senza fornire però alcuna indicazione relativa alla sua decorazione. In ogni caso, il ruolo dei carmelitani, titolari della grande basilica fiorentina, dovette essere di primo piano: infatti, anche a un osservatore distratto non può sfuggire la massiccia presenza di frati in veste bianca sulle pareti della cappella. A dispetto della vastissima letteratura critica sull’argomento, sia la cronologia sia le modalità dell’esecuzione da parte del binomio Masolino-Masaccio sono ancora assai dibattute dagli studiosi, in assenza di elementi storico-documentari incontrovertibili. L’ipotesi più piana e condivisibile sembrerebbe quella che immagina un avvio dei lavori simultaneo dei due artisti intorno al 1424. Anche la spartizione della superficie da affrescare dovette essere sostanzialmente equa, e appare presumibile che la decorazione sia andata avanti in parallelo fino all’interruzione del rapporto di collaborazione verso la fine dell’estate del 1425, a causa del trasferimento di Masolino in Ungheria fino alla fine di luglio del 1427. I lavori furono iniziati secondo l’uso corrente dalle vele della volta con la raffigurazione dei Quattro evangelisti; mentre nelle due lunette alla sommità delle pareti laterali erano dipinte la Vocazione di Pietro e Andrea, a sinistra, e la Navicella, vale a dire il miracoloso salvataggio da parte di Cristo dell’imbarcazione su cui si trovavano gli apostoli, narrato nel Vangelo di Matteo (15, 25-33), a destra. Nella semilunetta a sinistra sulla parete di fondo era dipinto il Pianto di s. Pietro, dopo il rinnegamento di Gesù (Matteo, 21, 75; Luca, 22, 61-62), mentre in quella a destra la scena del Pasce agnos meos, pasce oves meas, cioè l’episodio al termine del Vangelo di Giovanni (21, 15-17) nel quale Cristo elegge Pietro quale pastore della Chiesa universale. Le sinopie di queste ultime due scene furono recuperate nel 1984, durante i lavori di restauro degli affreschi, avviati nel 1981 con una serie d’indagini preliminari e proseguiti con la pulitura ultimata nel 1987-88. Vasari assegna al solo Masolino tutti gli affreschi delle parti alte sin qui descritti, tuttavia, stante la sostanziale equità riscontrabile nella divisione del lavoro dei registri più bassi, sembrerebbe legittimo ipotizzare una situazione analoga anche per questa zona, che è andata completamente perduta nel corso di un rifacimento tardobarocco degli anni tra il 1746 e il 1748. L’esecuzione in parallelo della decorazione sembrerebbe confermata nel registro superiore, l’unico conservato integro, dove si può constatare il lavoro gomito a gomito di M. e Masolino. Sulla parete destra, infatti, vediamo la Resurrezione di Tabita e la Guarigione dello storpio, nonché la scena del Peccato originale, dipinte da Masolino; servendosi con ogni evidenza del medesimo ponteggio, M. dipinse la celeberrima scena del Battesimo dei neofiti, sull’adiacente parete di fondo, a destra della finestra. E a proposito di quest’ultimo riquadro, è da ritenere degna della massima attenzione la proposta di Goldner (1994) di considerare preparatorio per la figura di S. Pietro in atto di battezzare il foglio del Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi (inv. n. 6.S), purtroppo pervenuto in cattive condizioni di conservazione, che potrebbe davvero assurgere al rango di unica testimonianza grafica superstite relativa alla decorazione della cappella Brancacci. Sulla parete opposta, in maniera significativa, le parti dipinte appaiono invertite e comunque riequilibrate. M. dipinse infatti la Cacciata dal paradiso terrestre sul pilastro e la grandiosa scena del Tributo, mentre Masolino dipinse la Predica di s. Pietro a sinistra della finestra. Nel registro inferiore, com’è noto, si riscontra l’enigma più importante riguardante la cappella: la pittura masaccesca fu integrata e completata da Filippino Lippi all’inizio degli anni Ottanta del Quattrocento, con un intervento caratterizzato da una straordinaria intelligenza critica. Si tratta di una situazione di eccezionale interesse dal punto di vista storico-culturale, un vero unicum nella storia dell’arte italiana: uno dei padri fondatori del primo Rinascimento in pittura «interpretato», e fin quasi «imitato», da uno degli artisti più importanti attivi a Firenze tra Quattro e Cinquecento, nonché una delle figure chiave della crisi della stessa pittura rinascimentale alle soglie del manierismo. Appare davvero di evidenza esemplare il confronto fra il riquadro con Adamo ed Eva nel paradiso terrestre e la tentazione dipinto da Masolino nel pilastro destro d’ingresso, e la Cacciata dei progenitori dal paradiso terrestre eseguita da M. sul pilastro opposto. I nudi di Masolino presuppongono un sofisticato vaglio intellettuale che mira al recupero della classicità; quelli creati da M. contribuiscono al raggiungimento dell’inconfondibile concentrazione drammatica e narrativa che ne caratterizza tutta l’attività. Gli studiosi ricollegano di solito questo brano affrescato della cappella Brancacci alla notizia tramandata dalle fonti di una tavola dipinta da M. al rientro a Firenze dopo il documentato soggiorno pisano del 1426 (Vasari, 1568). Non è certo priva d’interesse la proposta di ritenere il disegno del Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi a Firenze (inv. n. 30F), raffigurante per l’appunto Adamo ed Eva, preparatorio per questa tavola perduta (Joannides, 1993), dopo che già Salvini (1972) lo aveva rivendicato seppure dubitativamente a Masaccio. Il Tributo è l’episodio più celebre della decorazione. Vasari (1568: Bettarini - Barocchi, pp. 130 s.) ne offre una fine lettura descrittiva e critica a un tempo: «Ma tra l’altre [storie] notabilissima apparisce quella, dove San Piero, per pagare il tributo, cava per commissione di Cristo i danari dal ventre del pesce; perché oltre il vedersi quivi in uno apostolo, che è nell’ultimo, nel quale è il ritratto stesso di Masaccio, fatto da lui medesimo, allo specchio, tanto bene che par vivo vivo, vi si conosce l’ardir di San Piero nella dimanda, e l’attenzione degli apostoli nelle varie attitudini intorno a Cristo, aspettando la resoluzione con gesti sì pronti che veramente appariscono vivi; ed il San Piero massimamente, il quale nell’affaticarsi a cavare i danari dal ventre del pesce ha la testa focosa per lo stare chinato; e molto più quand’ei paga il tributo, dove si vede l’affetto del contare, e la sete di colui che riscuote, che si guarda i danari in mano con grandissimo piacere». Il grande affresco illustra puntualmente il Vangelo di Matteo (17, 24-27) ed è suddiviso da M. in tre momenti ben distinti. Per quanto riguarda l’interpretazione più profonda della scena, molti studiosi hanno sottolineato il probabile collegamento con l’istituzione nel 1427 del Catasto. Tuttavia, l’interpretazione più plausibile sembrerebbe quella di Meiss (1963), fondata sulla lettura di s. Agostino, ripresa e ampliata in anni più recenti (Casazza, in Baldini - Casazza, 1990), secondo cui la storia dell’umanità si risolve nel processo di redenzione attraverso la Chiesa. Il Tributo potrebbe dunque esprimere il concetto fondamentale della missione salvifica della Chiesa, che è parte della realtà storica dell’uomo: la Chiesa riconosce e rispetta le realtà politiche ed economiche, ma nel contempo le trascende tutte quante. Il bellissimo paesaggio montuoso sullo sfondo trascolora dal verde intenso del primo piano al grigio chiaro delle distanze maggiori, esaltato nei suoi valori luministici da un cielo atmosferico animato da nuvole prospetticamente scandite (Baldini, Del «Tributo»…, 1989). Si tratta di un brano alla base delle future vedute prospettico-naturalistiche da Paolo Uccello a Domenico Veneziano e fino a Piero della Francesca. Gli Apostoli appaiono fortemente connotati in senso classico, ma non lasciano trasparire in nulla la componente archeologizzante che caratterizzerà tanta parte dell’arte italiana quattrocentesca. I personaggi del Tributo danno vita a «un mondo di uomini profondamente coscienti della propria dignità, schivi di ogni bellezza che non sia quella morale: lo stesso mondo delle statue di Donatello e di Nanni di Banco» (Bellosi, 2002, p. 34). Il restauro eseguito alla fine degli anni Ottanta del Novecento consente, tra l’altro, di confermare la mirabile distinzione filologica operata da Longhi (1940), ribadita anche da Bellosi (2002), che individuò l’isolato contributo di Masolino nella testa del Cristo al centro della scena, eseguita in una sola «giornata» di lavoro. Anche le foto ravvicinate eseguite dopo la pulitura documentano in maniera inequivocabile che la costruzione pittorica di questa splendida testa è diversa nella concezione e nella stesura rispetto a quelle che la circondano. Ma per ritrovare assoluta identità stilistica con essa è sufficiente spostarsi nella scena seguente con la Predica di s. Pietro – opera di Masolino – ed esaminare con attenzione alcune delle teste maschili dei personaggi, in particolare quella dell’uomo con il turbante azzurro in terza fila e, poco più a destra, quella del giovane posto davanti al frate carmelitano. Un’analisi filologica avvertita induce ad aderire all’opinione di coloro che nella stessa scena della Predica hanno riconosciuto l’intervento di M. nel paesaggio di fondo, analogamente a quanto avviene nella scena seguente con il Battesimo dei neofiti, in cui soltanto il paesaggio di fondo spetta a Masolino, a ulteriore conferma del lavoro parallelo dei due artisti.
L’ultimo restauro consente anche di affermare con una certa tranquillità la completa autografia masoliniana della vasta scena posta di fronte al Tributo, con La guarigione dello storpio (Atti, 3, 1-10) e la Resurrezione di Tabita (ibid., 9, 36-43), due episodi distinti accaduti in luoghi diversi, a Gerusalemme il primo e a Ioppe (l’odierna Giaffa) il secondo, che il pittore ambienta in uno stesso luogo. La narrazione prosegue poi nel registro inferiore, sulla parete di fondo a destra della finestra, con La distribuzione dei beni e la morte di Anania, la cui completa autografia masaccesca è stata da sempre riconosciuta all’unanimità. «La composizione della scena, le larghe campiture cromatiche delle vesti e degli splendidi caseggiati, l’indimenticabile brano di paesaggio lontanante, contribuiscono a rendere la raffigurazione la più “pierfrancescana” dell’intero ciclo» (Tartuferi, 2003, p. 39). Nel corso del restauro si è appurato che l’intervento di Filippino Lippi ha riguardato anche questa scena ed è consistito nel rifacimento della figura di S. Giovanni all’estrema destra, con l’eccezione della testa, nonché delle mani di Anania. Questo aspetto appare di notevole interesse, poiché da esso sembra si possa dedurre che l’intervento di Filippino fosse oltre che di completamento delle parti incompiute, anche di «restauro» di quelle rimaste danneggiate o scomparse per motivi a noi ignoti. La scena successiva nello spazio a sinistra della finestra, con S. Pietro che risana con la propria ombra (Atti, 5, 12-16), è un altro dei brani più celebri degli affreschi Brancacci di assoluta autografia masaccesca. Il vasto riquadro che comprende le scene della Resurrezione di Teofilo e S. Pietro in cattedra è probabilmente al tempo stesso il brano più conosciuto e più problematico dell’intera decorazione. La raffigurazione segue il testo della Legenda aurea (XLIV) e narra la resurrezione miracolosa del figlio di Teofilo, prefetto di Antiochia, morto da ben quattordici anni, operata da Pietro che era stato liberato appositamente dal carcere dietro l’intercessione di Paolo. L’episodio occupa i due terzi della scena, mentre l’estremità destra presenta la solenne e mistica raffigurazione di S. Pietro in cattedra. Vasari (1568: Bettarini - Barocchi, pp. 560 s.) registra puntualmente nella vita di Filippino Lippi il completamento della scena, fornendo inoltre l’identificazione dei personaggi presenti: «nella sua prima gioventù diede fine alla Cappella de’ Brancacci nel Carmine di Firenze, cominciata da Masolino e non del tutto finita da Masaccio per essersi morto […] e vi fece il resto di una storia che mancava, dove San Piero e Paolo risuscitano il nipote dell’imperatore; nella figura del qual fanciullo ignudo ritrasse Francesco Granacci, pittore allora giovanetto; e similmente Tommaso Soderini cavaliere, Piero Guicciardini padre di messer Francesco che ha scritto le storie, Piero del Pugliese e Luigi Pulci poeta». Tuttavia, nonostante l’attestazione vasariana, spetta a Cavalcaselle il merito di aver operato per primo la giusta distinzione delle mani fra M. e il giovane Filippino, sebbene alcune parti dell’affresco siano tuttora oggetto di dibattito fra gli studiosi. Egli fu il primo, tra l’altro, ad accorgersi dell’autografia masaccesca della sola testa di profilo del frate carmelitano nel gruppo di cinque figure all’estremità sinistra del grande affresco, cui Filippino «dimenticò» di aggiungere i piedi. A Lippi si devono poi senza dubbio la figura del giovinetto resuscitato e tutto il gruppo che sta alle sue spalle fino ai frati carmelitani che compaiono sulla destra, che spettano invece a M., al pari di tutta la parte rimanente dell’affresco. Assai controversa è risultata l’identificazione dei molti personaggi presenti. Nel gruppo all’estremità destra sarebbero individuabili, a partire da destra e dopo un personaggio del quale s’intravede soltanto il cappuccio rosso, Filippo Brunelleschi, Leon Battista Alberti, M. stesso e, in ultimo, Masolino. Resta ancora oggi il mistero circa i motivi che resero necessario l’intervento di Filippino sul finire del secolo. Un’ipotesi suggestiva, già prospettata in passato (Brockhaus, 1930) e ripresa in anni più recenti (Baldini, in Baldini - Casazza 1990), sostiene la possibilità che un vero e proprio episodio di damnatio memoriae abbia portato alla distruzione di parte delle pitture con i ritratti dei Brancacci, a seguito della caduta in disgrazia di Felice Brancacci e della sua cerchia. Naturalmente conserva la sua validità – e tutto sommato maggiore probabilità – l’ipotesi secondo cui la scena sia rimasta incompiuta a causa della partenza di M. per Roma intorno alla primavera del 1428.
Il rigore prospettico del palazzo di Teofilo e della tettoia sotto la quale è assiso S. Pietro, le figure stupende dei carmelitani, il bellissimo muro con le specchiature marmoree e i vasi in cotto sulla sommità – che senza ragioni sufficienti è stato riferito all’intervento di Filippino (Spike, 2002) – e molti altri particolari fanno di questo affresco uno dei testi figurativi fondanti della visione rinascimentale in Italia. Sul piano pittorico, l’affresco è una delle testimonianze più eloquenti delle superbe qualità di Masaccio. La narrazione continua con la Liberazione di s. Pietro dal carcere sul pilastro destro dell’arco d’ingresso e con il grande affresco raffigurante i due episodi della Disputa con Simon Mago e la Crocifissione di s. Pietro, opera di Filippino Lippi. Tuttavia, in realtà il ciclo si concludeva con la scena della Crocifissione di s. Pietro sulla parete dell’altare, andata distrutta, ma della quale sono stati recuperati nel 1984 due piccoli brani attribuiti plausibilmente a Masaccio. Negli sguanci del finestrone gotico sono stati riscoperti invece due tondi con altrettante teste femminili, che spettano entrambe a Masolino – sebbene quella con il copricapo sia ritenuta maschile e autografa di M. da Baldini (1984) – e convalidano ulteriormente l’ipotesi del carattere paritario e parallelo dell’esecuzione del lavoro da parte dei due grandi artisti.
Il 18 febbr. 1426 M. firmò a Pisa l’accordo definitivo – non un vero e proprio contratto – per l’esecuzione di una pala d’altare per la cappella del notaio Giuliano di Colino degli Scarsi nella chiesa del Carmine di Pisa, dedicata ai santi Giuliano e Nicola di Bari.
Non è certo senza significato la presenza in occasione della firma di detto accordo non soltanto del priore della chiesa pisana, ma soprattutto di fra Bartolomeo Ulivieri, padre provinciale dei carmelitani, a conferma che questi ultimi ebbero con ogni probabilità un ruolo non secondario negli sviluppi della breve carriera artistica di Masaccio. Questi ricevette vari pagamenti, l’ultimo dei quali a compimento del lavoro, il 26 dicembre dello stesso anno. Ancora una volta, grazie alla puntuale descrizione di Vasari (1568: Bettarini - Barocchi, p. 127) si può avere un’idea abbastanza precisa dell’opera: «Nella chiesa del Carmine di Pisa, in una tavola che è dentro a una cappella del tramezzo, è una Nostra Donna col Figliuolo, ed a’ piedi sono alcuni Angioletti che suonano: uno de’ quali, sonando un liuto, porge con attenzione l’orecchio all’armonia di quel suono. Mettono in mezzo la Nostra Donna, San Pietro, San Giovanni Battista, San Giuliano e San Niccolò; figure tutte molto pronte e vivaci. Sotto, nella predella, sono di figure piccole, storie della vita di quei Santi, e nel mezzo i tre Magi che offeriscono a Cristo; et in questa parte sono alcuni cavalli ritratti dal vivo tanto belli che non si può meglio desiderare; e gli uomini della corte di que’ tre re sono vestiti di varj abiti che si usavano in que’ tempi. E sopra, per finimento di detta tavola, sono in più quadri molti Santi intorno a un Crucifisso». Gli elementi superstiti del polittico pisano sin qui identificati sono: lo scomparto centrale con la Madonna col Bambino in trono e quattro angeli della National Gallery a Londra; tre tavole di predella conservate alla Gemäldegalerie di Berlino (raffiguranti rispettivamente S. Giuliano che uccide i genitori e s. Nicola che offre la dote alle tre fanciulle; l’Adorazione dei magi, l’elemento centrale, e infine il Martirio di s. Pietro e la decollazione di s. Giovanni Battista); quattro tavolette dai pilastrini con figure di santi, anch’esse conservate alla Gemäldegalerie di Berlino; il S. Paolo di tre quarti del Museo nazionale di S. Matteo a Pisa; l’analogo S. Andrea del J. Paul Getty Museum a Los Angeles; la Crocifissione con i dolenti e la Maddalena della Pinacoteca di Capodimonte a Napoli, che si trovava al centro del coronamento del polittico.
È stata accantonata da lungo tempo ormai l’ipotesi sostenuta anche da Berenson (1936) dell’appartenenza originaria al coronamento del polittico pisano del tondo con Dio Padre benedicente della National Gallery di Londra, ritenuto generalmente opera di scuola fiorentina del secolo XV (Gordon, 2003), che tuttavia potrebbe spettare davvero alla cultura padano-veneta quattrocentesca, come ipotizzato a suo tempo da Longhi.
Nonostante la puntuale descrizione vasariana non è facile immaginare l’aspetto originale d’insieme dell’altare pisano; mentre l’effetto complessivo era probabilmente di gusto tradizionale, pienamente tardogotico, soprattutto a causa del massiccio impiego del fondo dorato (Gordon, 2003). Il livello qualitativo dei dipinti sopra elencati è altissimo e un lieve cedimento si può riscontrare soltanto nella tavola di predella con S. Giuliano che uccide i genitori e s. Nicola che offre la dote alle tre fanciulle di Berlino, che non a caso è stata sovente riferita ad Andrea di Giusto (Andrea Manzini), pittore fiorentino che i documenti pisani registrano come aiuto di M. all’esecuzione del polittico per il Carmine. Tuttavia, i caratteri stilistici del piccolo dipinto sembrerebbero rimandare semmai, in misura maggiore, allo Scheggia, che pure è attestato a Pisa nel 1426. In epoca più recente sono stati avanzati dubbi sull’autografia masaccesca dell’unica tavola proveniente in origine dal pilastro destro dell’altare pisano, raffigurante un giovane Santo carmelitano, conservata insieme con gli altri elementi superstiti dei pilastri a Berlino, che ha beneficiato di un riferimento al giovane Filippo Lippi (De Marchi, 1998; Strehlke, in M. e le origini del Rinascimento, 2002). Quest’ultimo, tuttavia, nel 1426 era già un maestro affermato; ma tale ipotesi sembra essere contraddetta in primo luogo dall’assoluta omogeneità di stile con le altre tavolette, nelle tipologie morfologiche e nella stesura pittorica, nonché dal fatto che questo giovane carmelitano di Pisa appare del tutto intercambiabile con i suoi confratelli fiorentini che compaiono sulle pareti della cappella Brancacci. Nel contempo, non paiono conclusive le argomentazioni (Strehlke, ibid.), di chi propone di scorporare il S. Paolo del Museo nazionale di S. Matteo a Pisa e il S. Andrea del J. Paul Getty Museum dal polittico del Carmine, congetturandone l’appartenenza a un ulteriore complesso pisano di Masaccio. L’ipotesi è oltretutto ostacolata anche dalla preoccupazione costante manifestata dal committente, secondo quanto è possibile desumere dai documenti disponibili, affinché M. si dedicasse in maniera continuativa ed esclusiva a tale impresa. Nello scomparto centrale della pala del Carmine di Pisa con la Madonna oggi a Londra, M. sembra esprimersi inconsuetamente in accenti archeologizzanti, soprattutto nel trono maestoso poggiante sopra un bellissimo basamento strigilato; mentre il gruppo divino richiama alla mente il classicismo di Nicola Pisano, unito però a un’impostazione solenne che si recupera soltanto attraverso le Maestà giottesche di S. Giorgio alla Costa o di Ognissanti.
L’impatto del polittico pisano sull’ambiente artistico locale fu, com’è naturale, fortissimo, massime sulle personalità di più alto rango. E infatti il pittore pisano Borghese di Piero, ricostruito fino a pochi anni or sono con la denominazione convenzionale di Maestro dei Santi Quirico e Giulitta, dopo l’incontro con l’arte di M. nel 1426 «rimase masaccesco per tutta la vita» (Boskovits, 2002, p. 70).
In rapporto all’attività pisana di M. è citata di solito la piccola tavoletta cuspidata del Lindenau-Museum di Altenburg, raffigurante La preghiera nell’orto e s. Gerolamo penitente. La paternità masaccesca non è stata accolta in maniera unanime, e non sono mancate ipotesi alternative da parte di studiosi assai autorevoli: Berenson pensava ad Andrea di Giusto, mentre Longhi avanzò il nome di Paolo Schiavo.
I caratteri stilistici della tavoletta sono indubbiamente masacceschi, e sia l’ideazione sia l’esecuzione appaiono di livello assai alto (Parenti, 2005). Eppure l’opera lascia trasparire come un affievolimento della fortissima carica espressiva che si avverte inequivocabilmente alla presenza di ogni autografo di Masaccio. Le attribuzioni alternative proposte in passato non appaiono convincenti: si potrebbe prendere in considerazione l’ipotesi di un pittore pisano, forse Borghese di Piero, impressionato in maniera quanto mai proficua dall’incontro con il linguaggio di Masaccio.
Prossima agli scomparti del polittico pisano, soprattutto nella tessitura cromatica, appare la piccola Madonna del Solletico della Galleria degli Uffizi a Firenze, così denominata per il gesto affettuoso della Madonna, che con la mano destra, posta sotto il mento del Figlio, sembra provocarne il giocoso atteggiamento difensivo.
L’opera fu pubblicata come autografo masaccesco da Longhi (1950). Lo stemma dipinto sul tergo offre un’indicazione preziosa circa la committenza e la cronologia: esso appartiene infatti al giureconsulto senese Antonio Casini (circa 1378-1439), vescovo di Siena. All’interno del breve catalogo masaccesco quest’opera è d’importanza fondamentale poiché segna un sensibile mutamento d’indirizzo stilistico, che già era stato preannunciato da alcune parti superstiti del polittico di Pisa. All’ineguagliabile sintesi formale che caratterizza la S. Anna Metterza degli Uffizi o i murali Brancacci, sorretta da un chiaroscuro netto e straordinariamente plastico, sembra sostituirsi una maniera più delicata e pittoricamente fusa, molto più incline a soffermarsi sui dettagli della raffigurazione. Il pennello di M. indugia quindi nel definire la bionda chioma riccioluta del piccolo Gesù, o gli svolazzi della sua camicetta trasparente. Non pare azzardato ipotizzare che questa altissima evoluzione del linguaggio masaccesco, che culminerà nella tavola con i Ss. Girolamo e Giovanni Battista della National Gallery a Londra per il trittico di S. Maria Maggiore a Roma, sia debitrice almeno in parte di un colloquio a distanza con il multiforme universo dello pseudo Rinascimento, rappresentato in sommo grado da Gentile da Fabriano e da Antonio Pisano detto il Pisanello.
Tra le opere più ammirate e dibattute di M., anche sotto il profilo cronologico, è da annoverare certamente la raffigurazione della Trinità nella basilica di S. Maria Novella a Firenze.
Da quando fu riportato in luce nel 1857 dopo oltre quattrocento anni di oblio, questo affresco affascinante è stato assunto nella vasta letteratura relativa a M. come la certificazione incontrovertibile dell’altissimo spessore rinascimentale del suo autore, in particolare dal punto di vista ritenuto più dirimente e qualificante, vale a dire quello prospettico. I due ritratti stupefacenti – vere e proprie sculture dipinte – posti alle estremità di base della pittura hanno da sempre imposto l’urgenza di chiarire gli aspetti relativi alla committenza dell’opera, attribuita in passato a fra Lorenzo Cardoni, priore del convento di S. Maria Novella dal dicembre 1422 al novembre 1425, e in anni più recenti a tal Domenico di Lenzo, morto nel gennaio 1426 e sepolto sotto una lapide ai piedi della pittura. Un’avvincente indagine documentaria a ritroso condotta ora da Cecchi (in Baldinotti - Cecchi - Farinella 2002), a partire all’incirca dalla metà del Cinquecento, porterebbe a identificare i committenti dell’affresco in Berto di Bartolomeo Del Banderaio (1378-1443 circa) e in sua moglie Sandra. La proposta appare di particolare interesse poiché il personaggio in questione era un importante e stimato architetto, membro dell’arte dei maestri di pietra e di legname, uno del ristretto gruppo dei «maestri di murare» chiamati dall’Opera del duomo nella primavera del 1420 per lavorare alla costruzione della cupola di S. Maria del Fiore, progettata da Filippo Brunelleschi. Com’è noto, l’intervento diretto di quest’ultimo nell’impianto disegnativo della Trinità è generalmente ammesso; e pertanto la conferma dell’identificazione del committente dell’affresco con un architetto – che certamente era in rapporti personali con Brunelleschi – finisce inevitabilmente per avvalorare tale ipotesi. D’altra parte, una conferma clamorosa delle straordinarie attitudini prospettiche di M. dovette venire dalla tavola con l’Annunciazione dipinta per la chiesa di S. Niccolò Oltrarno a Firenze, forse dello stesso momento della Trinità, se non immediatamente successiva. Ma anche per quest’opera – che si pose con ogni probabilità a base delle future interpretazioni del tema del Beato Angelico (Guido di Pietro) e di Piero della Francesca – non ci resta nient’altro che l’ammirata descrizione vasariana.
Non c’è accordo fra gli studiosi per la datazione di questo autentico manifesto della pittura ad affresco del primo Rinascimento, tuttavia l’ipotesi più attendibile sembrerebbe quella che individua nell’opera il commiato definitivo di M. da Firenze, prima della partenza alla volta di Roma nella primavera inoltrata del 1428. Qui egli ricevette con ogni probabilità la commissione del trittico a doppia faccia destinato all’altare principale della basilica di S. Maria Maggiore e, secondo la ricostruzione che appare essere più attendibile, iniziò il lavoro dipingendo il pannello, oggi alla National Gallery a Londra, con S. Girolamo e s. Giovanni Battista.
Ancora una volta un capolavoro assoluto e un autentico testamento pittorico, nel quale M. appare nel complesso molto diverso nel modo di dipingere rispetto alle opere precedenti. Le due figure presentano la consueta forza interiore caratteristica dei suoi personaggi; ma per la prima volta si ha la sensazione che M. abbia «studiato» la sua composizione. Il Battista, con il movimento lentissimo della mano destra, avvolta nel luminosissimo mantello rosato, sembra un preannuncio diretto dell’arte di Piero della Francesca. M. doveva aver già dorato e punzonato anche il retro del pannello londinese con il S. Gregorio Magno e s. Mattia (Londra, National Gallery), dipinto poi da Masolino da Panicale e, forse, persino ideato anche l’altro pannello laterale, quando fu colto in maniera repentina dalla morte. Alla brusca interruzione del lavoro causata dalla sua prematura scomparsa si dovette porre rimedio con il coinvolgimento di Masolino.
M. è documentato ancora il 29 luglio 1427 a Firenze, quando fu redatta la portata autografa al Catasto. La sua morte dovette avvenire a Roma prima del 18 nov. 1429, come attesta la nota in calce al «campione» del Catasto fiorentino (Parenti, 2003).
Fu questa l’ultima impresa di M., poiché non sussistono reali riscontri stilistici per le recenti riletture (Farinella, in Baldinotti - Cecchi - Farinella 2002) degli affreschi assai guasti della cappella di S. Caterina in S. Clemente a Roma (che spettano al solo Masolino), tendenti ad accreditare questa decorazione come ulteriore capitolo della collaborazione fra i due valdarnesi.
In conclusione, mette conto di accennare all’intrigante dipinto su tela della collezione Johnson a Filadelfia, raffigurante Cristo guarisce un indemoniato e Giuda che riceve i trenta denari. Esso fu identificato da Schmarsow (1928) con l’«istoria di figure piccole, che oggi è in casa di Ridolfo del Ghirlandaio, nella quale, oltra il Cristo che libera lo indemoniato, sono casamenti bellissimi in prospettiva, tirati in una maniera che e’ dimostrano in un tempo medesimo il didentro et il difuori: per avere egli [Masaccio] presa la loro veduta non in faccia, ma in su le cantonate, per maggior difficultà», di cui parla Vasari (1550: Bettarini - Barocchi, p. 126). L’ascrizione a M. in persona ha avuto scarsa fortuna, tuttavia autorevoli critici hanno interpretato l’opera come riflesso diretto delle sue ricerche prospettiche, uscita dalla sua bottega o comunque da un ambito a lui assai vicino. Alla luce di queste considerazioni e, soprattutto, sulla base dei caratteri stilistici in essa riscontrabili, appare da convalidare in pieno il riferimento del dipinto al pittore fiorentino Francesco d’Antonio (Shell, 1965; Strehlke, 2004).
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