Kobayashi, Masaki
Regista cinematografico giapponese, nato a Ōtaru (Hokkaido) il 4 febbraio 1916 e morto a Tokyo il 4 ottobre 1996. Profondamente segnato dall'esperienza della guerra, K. è forse l'autore più pessimista ed esistenzialista della generazione degli umanisti del dopoguerra. Il tema ricorrente dei suoi film è quello dell'ingiustizia della società, contro cui un uomo dai solidi principi si batte in una lotta senza speranza e destinata alla sconfitta. Regista dallo stile magniloquente, a volte espressionistico, K. ottenne per due volte ‒ con Seppuku (1962; Harakiri) e Kaidan (1964, Fantasmi) ‒ il Premio speciale della giuria al Festival di Cannes, rispettivamente nel 1963 e nel 1965.
Dopo aver studiato arti orientali all'Università Waseda, una delle più prestigiose del Giappone, K. entrò, nel 1941, negli studi della casa di produzione Shōchiku. Otto mesi più tardi fu inviato al fronte in Manciuria e da lì nelle isole Riūkyū, dove assistette agli ultimi sanguinosi combattimenti prima della sconfitta. Catturato dall'esercito americano, rimase per un intero anno in un campo di detenzione. Nel 1946 ritornò alla Shōchiku, dove lavorò come assistente di Kinoshita Keisuke. L'influenza di Kinoshita è evidente nei suoi primi film come regista, a partire dalla sua opera d'esordio, Musuko no seishun (1952, La giovinezza di mio figlio). Il suo primo film davvero personale è però Kabe atsuki heya (La camera dalle pareti spesse), terminato nel 1953, basato sui diari di alcuni secondari criminali di guerra e sceneggiato dallo scrittore Abe Kōbō. La spregiudicatezza del film spinse la Shōchiku a ritardare di tre anni la sua uscita nelle sale. Più convenzionali, ma sempre segnati da una particolare attenzione alle contraddizioni della società, furono Anata kaimasu (1956, Ti comprerò) e Kuroi kawa (1957, Fiume nero), il primo sulla corruzione nel mondo del baseball, il secondo sulla prostituzione e il crimine organizzato legati alle basi militari americane in Giappone. In quello stesso anno K. lasciò la Shōchiku per intraprendere il progetto più ambizioso della sua carriera, ossia la realizzazione di una trilogia di quasi dieci ore, tratta da un romanzo in sei volumi di Gomikawa Junpei, che prenderà il titolo di Ningen no jōken (1959-1961, La condizione umana, di cui in Italia uscì la prima parte con il titolo Nessun amore è più grande). L'opera narra l'odissea di Kaji ‒ interpretato da Nakadai Tatsuya, l'attore che più di altri ha dato corpo all'umanismo di K. ‒, un ufficiale pacifista che, durante la Seconda guerra mondiale, è costretto a comportarsi crudelmente sia con i suoi soldati sia con i prigionieri cinesi, prima di essere a sua volta imprigionato come criminale di guerra dall'esercito sovietico. Kaji, nella sua disperata e inutile lotta contro un sistema crudele sino alla ferocia, è il modello dell'eroe del cinema di Kobayashi. Tale modello è infatti riproposto anche nei due drammi storici (jidaigeki) realizzati nel corso degli anni Sessanta, Seppuku e Jōiuchi (1967; L'ultimo samurai), in cui viene radicalmente demistificato quel mito della lealtà su cui si era fondata gran parte della storia del genere stesso. In questi due film K. eccelle nella cura formale, nell'attenta composizione geometrica, nella stilizzazione delle immagini, negli ieratici movimenti di macchina. Caratteristiche che si ritrovano anche in Kaidan, film a episodi ispirato ai racconti fantastici di L. Hearn, in cui spicca l'uso espressionistico del colore. La radicale crisi dell'industria cinematografica giapponese nel corso degli anni Settanta travolse anche lo stesso K., che tuttavia dette ancora prova del suo umanismo e del suo forte impegno sociale in film come Kaseki (1975, Fossili) e Shokutaku no nai ie (1985, La casa senza tavolo da pranzo). Sempre negli anni Ottanta realizzò un imponente documentario di cinque ore in cui ritornò al tema, già in precedenza affrontato, dei criminali di guerra: Tōkyō saiban (1983, Il processo di Tokyo), che gli valse il Premio Fipresci della critica internazionale al Festival di Berlino nel 1985.
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