maschile e femminile nei nomi di professione [prontuario]
Nell’italiano attuale, come in altre lingue moderne di cultura, il ➔ genere femminile e il genere maschile non sono rappresentati in eguale misura tra i nomi d’agente correnti (➔ agente, nomi di). In tempi recenti questa dissimmetria è stata da molti messa in rilievo a proposito della più ampia questione della parità di diritti e, negli anni Ottanta del Novecento, fu oggetto di approfondimento da parte della Commissione nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna, la quale produsse un documento (A. Sabatini 1985) in cui si avanzavano tra l’altro proposte operative per attenuare gli squilibri interni alla lingua italiana (➔ genere e lingua). Successivamente, alcune iniziative furono promosse in sedi istituzionali d’ambito europeo e nazionale (Fioritto 1997; Robustelli 2007). Una recente novità − circoscritta ma, data la sede, significativa − è l’abbreviazione sen.ce (senatrice) che dal dicembre 2008 precede, in alternativa al consueto sen. (senatore), il nome della relatrice nelle scritte in sovraimpressione delle riprese televisive dei lavori del Senato.
Il settore dei nomi di professione è forse, oggi, più di altri reattivo a queste difficoltà, anche perché è specialmente nell’ambito lavorativo che si misura l’emancipazione femminile. Prova ne sia il fatto che per casi inversi, ovvero di nomi in -a usati per professioni tipicamente maschili, come guardia e sentinella, non risulta ci siano proposte di versioni in -o (*guardio, *sentinello).
Alcuni suffissi ricorrenti nei nomi di professione permettono solitamente soluzioni facilmente accettate: tra questi, i più antichi -aio (fornaio / fornaia) e -iere (portiere / portiera, cameriere / cameriera), -ino (netturbino / netturbina, ballerino / ballerina), e i tre ambigeneri, più moderni, -ista (suffisso molto produttivo: autista, chitarrista, dentista, giornalista), -asta (cineasta, ginnasta) e -e / -nte (preside e cantante; invece, è d’uso generale studentessa).
Maggiori difficoltà sorgono per i nomi con altre uscite. I nomi in -tore hanno solitamente un corrispettivo femminile in -trice (attrice, pittrice, doppiatrice, ispettrice), più raramente in -a (tintora) o in -essa (dottoressa); tutte e tre le soluzioni si ripetono per i nomi in -sore, benché la prima sia più difficilmente praticabile e si alterni con -essa (professoressa) e con -a (si veda, ad es., assessora).
Come è stato precisato, una certa forma, benché grammaticalmente motivata, può non avere la fortuna attesa. Di là dalle regole morfologiche della lingua, infatti, l’accettabilità e la fortuna di una certa soluzione cambia anche in relazione alla parola stessa. Sarebbero, ad es., accettabili, considerando l’uscita in -iere, voci come aviera, carabiniera, paroliera, romanziera, tranviera, trombettiera, che tuttavia − anche, in parte, per la scarsa ricorrenza del designatum − non si sono ancora imposte (più accettabile appare invece bersagliera, forse perché già diffuso dall’espressione alla bersagliera).
Per le voci in -ore (-tore, -sore) a fronte di difensore abbiamo, in scritture burocratiche, ora difensora ora difenditrice (cfr. Thornton 2004: 223), mentre solo virtuali sono voci come incisora (così come, benché nome non professionale, evasora, estortora), questora (per il quale si esclude l’uscita concorrenziale in -trice) e maggiora, che potrebbe altrimenti rimanere invariabile (la maggiore).
È difficile prevedere se entreranno nell’uso voci femminili in -a esemplate sulla base della forma maschile in -o, eventualità che riguarda nomi di alcuni ambiti professionali (chirurga) e cariche istituzionali (sindaca, deputata, ministra), e soprattutto titoli e gradi di carriera nell’ambito delle forze dell’ordine (soldata, marescialla, capitana, colonnella, prefetta; benché, d’altra parte, carabiniera, ispettrice e poliziotta, e anche deputata e ministra, sono oggi largamente accettati; per altre definizioni, come, ad es., capo dipartimento, capo azienda e simili, è invece difficile pensare ad altre possibilità che non siano la capo dipartimento, la capo azienda, ecc.).
Del resto, la fortuna di una voce al femminile dipende non solo dalla concorrenza con altre (ad es., tipicamente, in -essa), ma anche dalla diffidenza che talora può emergere verso tali forme proprio perché femminilizzate, tanto più se da parte di alcune dirette interessate. Nel momento in cui hanno rivestito cariche istituzionali, per es., Irene Pivetti richiedeva per sé il presidente (Thornton 2004: 226) e rifiutavano le versioni femminili della propria carica il ministro Stefania Prestigiacomo (cfr. Serianni 2006a: 134-135) e il senatore Ombretta Colli («L’Infedele», La7, 1 febbraio 2010); viceversa, avocava a sé il titolo di ministra Barbara Pollastrini (Jacqmain 2005; Pistolesi 2007). Ancora indifferenza verso la femminilizzazione del nome professionale è stata espressa da altre donne che hanno rivestito cariche istituzionali (Maria Rosaria Maiorino, questore di Grosseto: cfr. «La Stampa» 3 luglio 2007). Altra cosa è naturalmente l’uso brillante o ironico di queste voci nel linguaggio giornalistico (cfr. il titolo «Dalla ‘sbirra tosta’ alla prefetta. Ecco le emergenti del Viminale», «Corriere della sera» 3 luglio 2007).
Nel determinare la felicità di una certa soluzione possono agire fattori di varia natura; non tanto occasionali interferenze fonomorfologiche (espressioni come un’ufficiale, l’ufficiale possono nascondere completamente il riferimento a donna) o semantiche (a fronte di carbonaio e canottiere non appaiono felici i rispettivi femminili carbonaia, indicante piuttosto il luogo, e canottiera, indicante un indumento) quanto, soprattutto, sedimenti culturali che connotano fortemente un mestiere o una professione ora come maschile (barbiere, carrozziere, chirurgo, macellaio, muratore) ora come femminile (crocerossina, lavandaia, mondina, massaia), bloccando la creazione di voci per l’altro genere.
Concludendo, si può dire che per la versione femminile di un nome diffuso al maschile, qualora questa già non esista, appaiono oggi favorite formazioni consone alle strutture della lingua più che alcune soluzioni miste (articolo femminile + nome maschile: ad es., la deputato, che dà oltretutto luogo a esiti fortemente dubbi al plurale: ?le deputato / ?le deputati / le deputate): l’uso di donna + nome (anteposto o posposto) benché piuttosto diffuso (donna soldato, donna poliziotto, ministro donna) e l’uso di -essa. Se il ricorso a -essa può risultare particolarmente comodo per la sua versatilità morfologica, è stato spesso ricordato che molte voci con questo suffisso furono coniate o per ricordare indirettamente il ruolo del marito (generalessa, giudicessa, presidentessa, ministressa; ma si ricordi che, storicamente, il titolo di giudichessa si accompagna al nome di Eleonora d’Arborea), o per caricare il nome di una connotazione ironica, se non spregiativa (già da epoca antica: il Vocabolario della Crusca del 1612 ritiene, ad es., cavaleressa, registrato in un passo del Decameron di Boccaccio «Voce usata in baia, e in ischerno, come altre di questa fatta, come dottoressa, medichessa, giudicessa, e simili, perciocché questi non son gradi, né ufici da donna»: ad vocem «cavaleressa»), e dunque sono oggi perlopiù evitate. Rimangono però ben saldi campionessa, dottoressa, poetessa, professoressa, studentessa, mentre a vigilessa si va affiancando la vigile, e avvocatessa è usato in alternanza con avvocata (sulla storia delle voci in -essa, Lepschy, Lepschy & Sanson 2002). Va comunque notato che per alcuni nomi di professione la differenza tra maschile e femminile viene neutralizzata da abbreviazioni: prof, ormai diffuso per designare insegnanti di vario ordine, indica tanto un uomo quanto una donna.