Masha battuta dal meldonium
Maria Sharapova, come tanti suoi colleghi, è stata trovata positiva all’uso di questo principio attivo, creato come ‘aiuto’ per i soldati in Afghanistan e diventato una delle sostanza dopanti più utilizzate nel mondo dello sport. Ma molti difendono i suoi effetti benefici come altre sostanze normalmente ammesse.
Lo strano caso di Maria Sharapova, il cosiddetto ‘Masha case’, inizia lontano dalla protagonista: in Lettonia, negli anni Ottanta. Un farmacologo di nome Ivars Kalviņš sintetizza nei laboratori della Grindeks un principio attivo chiamato meldonium. Serve, nell’immediato, soprattutto alle truppe russe di stanza in Afghanistan, per stare su.
Ma 30 anni dopo i ‘controllori’ del doping nello sport scoprono che centinaia di atleti, soprattutto russi (anche se non di stanza in Afghanistan...) ne fanno uso. E decidono di bandire la sostanza. La WADA, l’Agenzia mondiale anti doping, fortemente finanziata dal governo degli Stati Uniti, e dunque non esattamente un ente ‘terzo’, spedisce una mail agli atleti. Non tutti la ricevono (come ha ammesso la tennista russa Makarova), pochissimi la leggono.
Maria Sharapova viene trovata positiva e sospesa. Siamo nel marzo del 2016. Non sono chiari i contorni della vicenda. E tali resteranno. A cosa serve, quanto se ne prende.
Ingenuità certo, ma quanto grande da una così grande ed esperta atleta? Ne vengono beccati altri. Ma il sospetto è che sia un pretesto per dare addosso a un solo paese.
Maria avrebbe iniziato a usare il meldonium sin dall’età di 19 anni per non meglio precisati e persistenti problemi di salute e non si sarebbe accorta che, di colpo, il farmaco era entrato tra le sostanze proibite agli sportivi.
Fra i suoi disagi Maria segnala anche una serie di irregolarità nel tracciato del suo elettrocardiogramma, cosa che non depone a favore di chi le concedeva l’abilitazione all’agonismo. Troppo generica l’affermazione, per un tema così forte. In ogni caso, c’è poco da stare allegri. E tutto grazie anche ai ritardi, non meno misteriosi, della WADA.
Come tutte le faccende che toccano il doping, il ‘Masha case’, per quanto si possa credere alla sua ‘innocenza colpevole’, è una pietanza acida e comunque lo si guardi presenta aspetti poco limpidi. Il meldonium servirebbe in teoria a curare gravi patologie cardiache, in buona sostanza è un anti-ischemico, un anti-coagulante, usato per i decorsi da angina, infarto. Colpiscono 2 aspetti.
Maria sarà certo una che si fida ciecamente di chi le sta attorno e non è detto che abbia grande confidenza con il web, potrebbe non essere una di quelle persone abituate a navigare, curiosare, soprattutto su argomenti tanto delicati che riguardano il proprio mestiere e la propria salute. Ma una cosa avrebbe potuto scoprirla: che il meldonium non circola negli Stati Uniti, dove lei risiede e vive, per esplicita volontà della Food and drug administration.
Nessuno, nemmeno gli amici, o l’ex fidanzato Dimitrov, ha avuto occasione di avvertirla, forse nemmeno loro sapevano della somministrazione. Perché se un farmaco non viene venduto negli Stati Uniti qualcosa dovrà pur significare. Inoltre, nel dicembre del 2015 uno studio pubblicato dal Drug testing and analysis journal confermava ciò che adesso appare incomprensibile almeno quanto la leggerezza dell’atleta: la WADA non poteva non sapere che era da tempo dimostrato che «il meldonium migliora in modo sensibile la resistenza alla fatica di un atleta, la sua capacità di recupero, aumenta la protezione dallo stress e facilita l’attivazione del sistema nervoso centrale».
Onestamente: ma quale diabete familiare! La scoperta che il meldonium aveva effetti anti-diabetici è recentissima e si basa su test effettuati sugli animali diabetici. E la WADA cosa faceva mentre molti atleti, confortati dalla lista delle sostanze proibite, facevano uso di meldonium? Monitorava. Ci si può limitare a monitorare un farmaco che poi viene giudicato tanto potente (ma senza certezza) apparso già da diverso tempo sul mercato nero? La sua forza di enhancing drugs sarebbe dimostrata dal precipitoso marcia indietro fatto dall’agenzia anti doping internazionale. Ma anche un marcia indietro così precipitoso è ambiguo.
Se andate a guardare adesso, il meldonium non compare tra le piccole droghe, no: sta fra gli ormoni, somiglia di fatto all’insulina, per potenza d’effetto dopante. Un ‘modulatore del metabolismo’. Una bella ‘bomba’ mascherata da ricostituente della nonna, allora? Non tutti sono d’accordo: «Dichiarando fuorilegge il meldonium si mette a rischio la vita di molti atleti professionisti, il suo uso protegge il cuore di chi, soprattutto in allenamento, si spinge oltre i limiti, e pone il suo sistema cardiovascolare al riparo da danni irreversibili». Con questa raggelante difesa – a contrastare la quale non sarebbe bastata la cortina di ferro – Ivars Kalviņš, dopo aver scombussolato (o regolato) l’organismo di Maria Sharapova, sta adesso sconvolgendo tutto il mondo di quella particolare forma di ‘tossicodipendenza’ che chiamiamo doping e che la WADA dovrebbe contrastare, non sempre con la puntualità di un orologio svizzero, non sempre con la dovuta imparzialità.
Come detto, Kalviņš mise a punto il meldonium all’inizio degli anni Ottanta per ragioni molto poco romantiche (i soldati russi in Afghanistan). C’erano altre sostanze che funzionavano in Occidente allo stesso modo e con le medesime finalità: il celebre glucuronolattone, stimolante sintetico creato in laboratorio nel 1973 presente anche nella Red Bull (motivo per cui la più famosa e venduta bevanda energetica della storia è bandita in molti paesi del mondo fra cui Francia e Norvegia), serviva a tenere alto il morale dei soldati americani per quel po’ che restava della guerra in Vietnam, ma al tempo stesso ne devastava reni e fegato. «Chi risponderà delle morti degli atleti» – prosegue minaccioso Kalviņš – «la WADA? Chi lo chiama doping sbaglia, soprattutto se lo inserisce tra le sostanze proibite come modulatore del metabolismo».
WADA: la carta d’identità
WADA (World anti doping agency) è l’agenzia indipendente, istituita dal CIO (Comité international olympique) nel 1999, che si occupa della lotta al doping. La sua sede operativa è a Montreal, in Canada, quella legale è a Losanna, in Svizzera. L’agenzia risulta essere cofinanziata dal CIO e da numerosi governi nazionali, anche se questi ultimi erogano con irregolarità e spesso con ritardi le quote di loro spettanza. Responsabile del Codice mondiale anti doping, adottato da più di 600 organizzazioni sportive, la WADA effettua delle ricerche sulle sostanze proibite stilando periodicamente un elenco aggiornato delle sostanze dopanti. A ciò aggiunge un’accurata azione di dissuasione applicando dei controlli a sorpresa, in particolare sui top 10 atleti di ogni sport olimpico.
Poco tempo fa, senza clamori, ma clamorosamente, e ben prima del caso Sharapova, il direttore del reparto scientifico della WADA Olivier Rabin ha messo, chissà se involontariamente, una pietra tombale sugli attuali metodi dell’azienda per cui opera: «Il doping? Noi facciamo riferimento a un numero abbastanza consistente di suggerimenti di esperti». Ma chi sono questi esperti? Li chiamano stakeholders «persone interessate».
Ma in che modo interessate? «Conoscono il loro mestiere». Il quadro che emerge è che la WADA si affida a consigli esterni di personaggi per i quali fa fede la loro reputazione, ma sulle cui opinioni esiste, come ha ammesso anche Rabin, sempre il ‘ragionevole dubbio’. Vero o falso sono facce della stessa medaglia, dipende dal punto di osservazione. Ossia: potrebbero essere interessati non soltanto a pulire lo sport ma anche a qualcos’altro? Non viene spiegato.
Agghiacciante. Rimane così il dubbio che il grande inquisitore non sia altro che un’allargata chat all’interno della quale viene deciso, in modo spesso – come è emerso dalle parole di Rabin – ‘discrezionale’, se un farmaco deve o meno entrare nella black list, in quella stanza del peccato che, per contrasto, tiene in piedi la legalità dello sport agonistico a qualunque livello. Non proprio una notizia rassicurante. In più, appare evidente che fra questi esperti possa non esserci concordanza di pareri. Lo dice Rabin. I dubbi non sono dissipati. Anzi. Come a dire che, ascoltando atleti, esperti, medici e scienziati, non è escluso che da domani, per somma di alzate di mano, anche il paracetamolo potrebbe finire tra i principi proibiti. Senza tenere conto che la frontiera del presunto doping continua ad allontanarsi, sfuggendo con metodo e sempre più raffinata destrezza, agli eventuali controlli del sistema, il quale deve anche fronteggiare le diverse sensibilità alla questione (fattore ingestibile).
Forse, ammesso che ne esista una sola, la verità sta nel mezzo: «Nessuno di chi ha valutato il meldonium ha mai parlato di dosaggi», sottolinea Kalviņš. Sono 30 anni di mercato senza che nessuno si sia mai accorto di niente? In effetti è strano. Il meldonium è usato da circa 2 milioni di persone che hanno bisogno di prevenire ischemie o coaguli. Anche l’aspirina pulisce le vene. «Considero la scelta della WADA un grave errore professionale, una pessima decisione, non c’è alcuna prova scientifica che il meldonium migliori la prestazione, esso si limita a prevenire danni vascolari in condizioni di fatica estrema», rincara la dose il farmacologo lettone. Il mistero s’infittisce. E allora ecco che la verità si allontana. Come era prevedibile.
Nel 2015
- 724 su 4316
gli atleti russi (17%) positivi al meldonium
- 182 su 8230
gli atleti top (2,2%) positivi al meldonium di varie nazionalità (esclusa la Russia)
Fuori dal campo di gioco fino al 2017
La Federazione internazionale tennis ha comminato una squalifica di 2 anni alla tennista russa in relazione all’assunzione di meldonium. La squalifica è scattata a partire dal 26 gennaio 2016. Ma nel mese di ottobre la tennista ha vinto il ricorso a Losanna, ottenendo la riduzione della sospensione da 24 a 15 mesi. Potrà dunque tornare in campo a partire dal 26 aprile 2017.
Durante la conferenza stampa tenutasi a Los Angeles il 7 marzo ha riconosciuto di aver commesso «un enorme sbaglio» in relazione all’assunzione da lei fatta della sostanza proibita.
Italia seconda nelle violazioni
Èstato pubblicato il 27 aprile 2016 il Rapporto WADA sui casi di doping riscontrati nel corso del 2014 per gli sport olimpici e non olimpici. L'Italia è il secondo paese al mondo in relazione ai casi accertati di doping (123) dopo la Russia (148). Nel complesso, nel corso del 2014 sono stati raccolti 217.762 campioni di sangue e urina, mentre i casi di doping registrati sono 1693. I paesi coinvolti sono 109, per un totale di 83 discipline sportive diverse che hanno fatto registrare almeno un caso. Lo sport con maggiori positività è l'atletica leggera con 248 casi seguito da bodybuilding (225), ciclismo (168) e sollevamento pesi (143). È al ciclismo che spetta in Italia la maglia nera per il doping: si sono infatti verificati 56 casi di positività, a seguire l'atletica leggera con 15.
In relazione al secondo posto dell’Italia, il presidente del CONI, Giovanni Malagò, ha commentato: «A oggi siamo il secondo paese con il maggior numero di positività a livello olimpico. Questo dato si può leggere in 2 modi: o siamo un paese che fa largo uso di sostanze dopanti, oppure che siamo un paese che controlla, dove c'è un setaccio a una maglia e non si passa. Anche qui possiamo però crescere». Stessa linea seguita dall’allenatore di atletica, nonché consulente della WADA stessa, Sandro Donati, il quale ha tenuto a precisare che «la presenza massiccia di nomi italiani dipende dal fatto che in Italia si fanno numerose indagini giudiziarie in materia di doping. Al contrario di quanto accade in molti altri paesi, vedi Spagna, Francia e Inghilterra, dove le indagini rappresentano l'eccezione, non la regola».