MASO di Banco
Pittore e scultore fiorentino, attivo a Firenze nella prima metà del sec. 14°, M. si configura come la personalità più eminente e innovativa nella schiera dei maestri strettamente legati alla bottega giottesca, nonostante l'esiguo numero di opere a lui attribuibili.Concordemente tramandato dalle fonti come allievo di Giotto, M. compare nella Matricola dell'Arte dei medici e speziali tra il gennaio e l'aprile del 1346 (Firenze, Arch. di Stato, Arte dei medici e speziali, 8, 1320-1346, cc. 38r, 73-74r, 75v; Arte dei medici e speziali, 7, stilato nel 1446, ma copia da altri codici; Arte dei medici e speziali, D 4, cc. 110r, 111r). L'immatricolazione dell'artista sembra da porsi prima del 1328 (Hueck, 1972). In precedenza il suo nome era comparso nei libri del Tribunale di Mercanzia, tra il settembre e l'ottobre del 1341 (Firenze, Arch. di Stato, Tribunale di Mercanzia, 4163), per una lite sorta con la Compagnia dei Bardi, che aveva intimato il sequestro dei beni del pittore (Poggi, 1910). M. è ricordato tra gli iscritti alla Compagnia di S. Luca (Firenze, Arch. di Stato, Accademia del disegno, già Compagnia dei pittori, 1, c. 12r) nel 1350, data a cui non corrispondono opere né ulteriori menzioni; è possibile, però, che il nome di M. sia stato copiato con altri a questa data scritta d'ufficio, passibile poi di essere corretta, con l'aggiunta di numeri romani, al momento della morte dell'artista, con probabilità già avvenuta durante la pestilenza del 1348, come sembrerebbe confermare il documento pistoiese di S. Giovanni Fuorcivitas (Chiappelli, 1900), che a metà secolo non lo ricorda tra i maggiori pittori viventi.In un documento del 1392 (Firenze, Arch. Guicciardini, Albizzi 288), trascritto da Corti (in Wilkins, 1985, pp. 119-120), si ricorda, perché bisognosa di restauro, una Deposizione dalla croce, ora perduta, sopra la porta del cimitero di S. Pier Maggiore a Firenze, lodandone l'autore Maso, "grande maestro". La mancanza del patronimico non conforta sull'identità con M. (esistevano altri pittori con lo stesso nome nelle matricole di quegli anni), la cui personalità artistica ha preso spessore attraverso approssimazioni successive della critica contemporanea, talvolta fuorviata dall'ambiguità delle fonti. Infatti, in aggiunta ai dati documentari ricordati, l'unico contributo determinante è venuto da Ghiberti (Commentari, II, 7), che lo ricorda autore degli affreschi con Storie di s. Silvestro e Costantino della cappella dedicata a s. Silvestro in Santa Croce, quella per i Bardi, qui individuati anche nel ramo di Vernio, famiglia con la cui società M. è attestato avere ingaggiato la lite del 1341, a riprova di intercorsi interessi, anche se non necessariamente limitati alla decorazione della ricordata cappella, dal momento che si fa esplicita menzione del sequestro al pittore di tre tavole e di una predella.Oltre a opere oggi perdute, quali il Duca d'Atene nella facciata della torre del Podestà, come riferisce il Libro di Antonio Billi (ante 1530), o la Pentecoste in Santo Spirito, Ghiberti (Commentari, II, 7) ricorda anche un tabernacolo vicino Santo Spirito, che ricerche di questo secolo hanno identificato con probabilità con quello poi trasferito in via del Leone e oggi conservato nei depositi della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, lavoro invece unanimemente riconosciuto di Giottino sulla base dei documenti e della testimonianza di Albertini (1510).Proprio da questa errata partenza è nato l'equivoco sintetizzato da Vasari (Le Vite, II, 1967, pp. 229-236) nella figuracompendio di decenni di giottismo fiorentino, quel Tommaso di Stefano detto Giottino che è perdurato nella storiografia moderna, nonostante che, avvertito da Sirén (1927-1928), Offner (1929) avesse ben dissipato le ombre sul problema, riconsiderato poi anche da Coletti (1942), con la messa in luce delle due personalità posteriori e il chiarimento che dell'asse giottesco strettamente familiare M. non faceva parte.Di M. le fonti contemporanee e posteriori profondono grandi elogi, sempre relegandolo alla sua condizione di allievo di Giotto (Landino, 1481), con definizioni spesso non banali o di convenienza. Così Filippo Villani, nel De origine civitatis Florentiae (1400 ca.), dice che M. "omnium delicatissimus, pinxit mirabili et incredibili venustate"; ma è sempre Ghiberti (Commentari, II, 7) che dà la definizione più intensa, anche se spesso giudicata sibillina, nella frase "abbreviò molto l'arte della pictura". Questa definizione è interpretata da Volpe (1983) come una prefigurazione da parte di Ghiberti di quel disegno del primato della pittura fiorentina stilato da Vasari, in cui M. si sarebbe inserito a diritto per rendere più celere il processo di maturazione avviato da Giotto. In realtà il termine 'abbreviare' si può anche intendere nel suo significato più tecnico-formale, ovvero quale capacità di sintesi plastico-cromatica e luministica nell'orchestrare le scene in un contesto spazioso correttamente impostato. Le premesse di questo stile sono da ricercare nella fase giottesca fiorentina sia della cappella Peruzzi sia, soprattutto, della cappella Bardi in Santa Croce, in cui già si privilegia la scelta di campiture cromatiche pure su entità volumetriche sapientemente impostate in piani prevalentemente paralleli, che impongono sovente una visione frontale.Questo intendimento dello stile di M. si invera nell'opera sua più complessa, ovvero gli affreschi della cappella Bardi di Vernio in Santa Croce; a questo rispondono coerentemente quelle opere che Offner (1929) assegnò a M. al momento della corretta ricostruzione della fisionomia del pittore: la lunetta con l'Incoronazione della Vergine sopra la porta laterale di navata di Santa Croce (Firenze, Mus. dell'Opera di Santa Croce) e i due polittici giunti incompleti. Il primo, con le quattro tavole pervenute nella Coll. Solly di Firenze e là rimaste probabilmente fino al 1821 (Wilkins, 1985, p. 181), è oggi ulteriormente depauperato per la scomparsa di due tavole, quelle con S. Giovanni Battista e S. Antonio Abate, durante l'ultimo conflitto mondiale; permangono la Vergine con il Bambino (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.) e il S. Antonio da Padova (New York, Metropolitan Mus. of Art; Zeri, Gardner, 1971). L'altro polittico mantiene ancora gli scomparti componenti il registro principale (la Vergine con il Bambino e i Ss. Maddalena e Andrea, Giuliano e Caterina), più una piccola cuspide con la Crocifissione. La sua collocazione nella cappella Vettori in Santo Spirito a Firenze, per la quale M. è attestato aver realizzato opere in affresco, risale con sicurezza al sec. 16°-17° (Bocchi, Cinelli, 1677, p. 146), ma non è noto se, nella redazione prebrunelleschiana, la chiesa eremitana fosse l'originaria destinazione.A questo ristretto e ineccepibile catalogo offneriano, Berenson (1932) aggiunse il trittico Babbot (New York, Brooklyn Mus.) e i tre pannelli con l'Assunta che dà la cintola a s. Tommaso (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.), la Dormitio Virginis (Chantilly, Mus. Condé) e l'Incoronazione della Vergine (Budapest, Szépmuvészeti Múz.), riconosciuti da Brandi (1938-1939) far parte di uno stesso insieme, che Ragghianti (1954) supponeva appartenere all'altare della Cintola nel duomo di Prato e Longhi (1959) essere più specificamente il tabernacolo della Cintola; ipotesi contrastata da Boskovits (1988, p. 110), che propende invece per legare i tre pannelli in un trittico di foggia inconsueta, testimoniata da un esemplare di fine Trecento di derivazione daddesca, un tempo ad Arezzo (Firenze, depositi della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici).Questo è il catalogo dell'opera pittorica masesca su cui convergono quasi unanimemente i pareri degli studiosi. Fa eccezione, invece, l'anconetta di Berlino (Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.), che, riconosciuta a M. da Coletti (1942), gli è ora riassegnata da Conti (1994) e da Bellosi (in corso di stampa), mentre Boskovits (1988) l'aveva dirottata verso il corpus del Maestro di San Lucchese. La compresenza di M. e di Andrea di Cione è proposta da Kreytenberg (1994-1995) nelle teste decorative del coro di S. Maria Novella a Firenze. Altre opere che sono state attribuite al pittore, pur in strettissima relazione con lo stile di M., danno invece ampiamente conto del seguito immediato di cui egli godette e di cui parlano le fonti. Così gli affreschi della navata di S. Francesco a Pistoia, con Storie di Eraclio e Deposizione (Longhi, 1959; Conti, 1994), possono riferirsi al nucleo che va etichettato sotto il binomio Alesso d'Andrea-Bonaccorso di Cino, come del resto quelli della cappella Gatteschi nel transetto, con Storie di s. Donnino, attribuiti dubitativamente a M. da Berenson (1963), già complicati da riflessi nardeschi (Neri Lusanna, 1993), mentre una serie di altaroli e pannelli trovano più motivata collocazione nell'ambito del ricordato Maestro di San Lucchese, un altro significativo seguace di M., in seguito accostatosi ad Andrea di Cione (Bayonne, Mus. Bonnat; Detroit, Inst. of Arts; Altenburg, Staatl. Lindenau-Mus.; Edimburgo, Nat. Gall. of Scotland; Londra, Wildenstein Coll.).Di maggiore peso è invece la controversia critica che si è accesa su altre due opere attribuite o negate a M.: alcune delle teste in affresco dipinte sugli sguanci delle finestre della cappella palatina di Castelnuovo a Napoli - riconosciutegli da Salmi (1943-1946) e largamente accettate (Previtali, 1967, p. 121; Bologna, 1969a; Boskovits, 1975; Leone de Castris, 1986) - e la pala con la Madonna con il Bambino, i ss. Matteo e Giorgio e angeli di S. Giorgio a Ruballa, presso Bagno a Ripoli (prov. Firenze). L'accoglimento o meno di una di queste due opere (Volpe, 1983) o di entrambe (Boskovits, 1975) nel catalogo masiano implica da un lato il riconoscimento di uno spiccato discepolato di M. all'interno della bottega giottesca, dall'altro la compromissione prolungata con la bottega di Bernardo Daddi. Se Bologna (1969b) ha ribadito il discepolato giottesco di punta riconoscendo addirittura a M. l'esecuzione, ancora all'interno del terzo decennio, di una cospicua parte degli affreschi francescani della cappella Bardi in Santa Croce, questo viene decisamente negato, anche nell'esperienza napoletana, da chi come Volpe (1983) ha invece proposto l'inserimento nel catalogo delle opere di M. della Madonna di S. Giorgio a Ruballa, tanto masiana nello stile, seppure di impianto daddesco, da non trovare mai posto definitivo nel corpus delle opere di Daddi. Inoltre, la data 1336, letta sul bordo inferiore della cornice della pala, rilancia il problema degli imprestiti giocati all'interno della consorteria giottesca tra M., Bernardo Daddi e Taddeo Gaddi nel quarto decennio, periodo che registra in Firenze anche la significativa presenza di Ambrogio Lorenzetti, cui M. più volte è stato accostato per un proficuo scambio delle istanze stilistiche fiorentino-senesi. Anche l'assegnazione della pala al giovane Andrea di Cione (Bellosi, in corso di stampa), in tempi non documentati per questo artista, non inficia ora la conclamata convinzione sulla consistenza della frequentazione M.-Daddi in quegli anni: lo provano, dal versante di Daddi, il S. Paolo di Washington (Nat. Gall. of Art), già attribuito a M. e forse datato 1333, e, dal versante di quest'ultimo, il polittico già nella Coll. Solly, in cui la Vergine rivela una costruzione plastica, per radicato e soffuso chiaroscuro, ancora daddesca. Questa convinzione è suffragata anche da dati esterni, dal momento che - come ha messo in risalto una ricerca sui punzoni (Skaug, 1994) - risulta che M. utilizzasse strumenti simili a quelli di Daddi, tanto da supporre i due maestri in stretto contatto.Se nell'ottica offneriana di un'alta considerazione dell'opera scelta di Daddi non osta (Volpe, 1983; Boskovits, 1989) ammettere uno stretto connubio tra Daddi e M. e l'affermarsi prestigioso ma più tardo di quest'ultimo, la posizione di Longhi (1959), e di chi ne ha seguito strenuamente l'assunto, verte invece a riconoscere a M. un notevole grado di invenzione e di autonomia e quindi di precocità, sì da porlo in posizione preminente rispetto agli altri membri dell'équipe giottesca. Così per Longhi, a monte dei trittici miliari di Bernardo Daddi e di Taddeo Gaddi, datati rispettivamente 1333 e 1334 (Firenze, Mus. del Bigallo; Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.), non può esservi che un pensiero di M., magari desunto da un prototipo giottesco ed esemplificato dalla serrata spazialità del trittico Babbot, mostrata anche dalla calibrata sistemazione dei molti astanti attorno alla Vergine. Inoltre un esordio significativo di M. negli anni venti contribuirebbe a spiegare esiti di portata fiorentina, riflessi già (più che anticipati) nella pittura toscana, che urgono per es. nel 1329, con misura plastica e spaziale dilatata, nel polittico del Carmine di Pietro Lorenzetti (Siena, Pinacoteca Naz.).Nell'assenza di dati cronologici incontrovertibili, ricca di congetture si presenta l'indagine sugli affreschi con Storie di s. Silvestro e Costantino in Santa Croce. L'appiglio per un tentativo di precisazione cronologica può essere offerto dalle indicazioni araldiche contenute nella cappella. Infatti in essa compare l'arme della famiglia Bardi nelle decorazioni murali dipinte e nelle vetrate, mentre la stessa, realizzata in scultura, è arricchita dal simbolo del castello di Vernio (donde il nome di questo ramo della famiglia) nel monumento funebre in marmo sovrastato dall'affresco della Visione beatifica, ovvero il Giudizio finale impartito da Cristo al singolo. Considerando che i possessi di Vernio furono acquisiti ufficialmente soltanto nel 1335-1336 (Ferretti, 1976) e accettando, in base a considerazioni tecniche da verificare ulteriormente, l'affermazione che la tomba si configura come l'ultima tappa dell'arredo della cappella prima dell'intervento di Taddeo Gaddi (Conti, 1972; Wilkins, 1985, p. 171), si è a più riprese tentato di arretrare il termine ante quem per la realizzazione di tutta la restante impresa al 1337 ca. (Ferretti, 1976) o al 1336-1339 (Wilkins, 1985). Dati indiziari potrebbero confortare questa ipotesi. Caduto, forse, il collegamento della cappella Bardi di Vernio in Santa Croce con la lite avvenuta nel 1341 tra M. e la società dei Bardi (Conti, 1972; Ferretti, 1976), non viene meno in realtà neanche il termine post quem imposto dalla morte di Gualtieri de' Bardi avvenuta nel 1336, dal momento che la realizzazione della cappella non appare con certezza legata a una volontà testamentaria del fratello di Gualtieri, Gualtierotto, morto già nel 1331 (Wilkins, 1985, pp. 148-149). L'induzione, conseguente quest'ipotesi, di un'esecuzione degli affreschi ante 1335 (Bartalini, 1995) mira a inserirsi in quel processo di revisione che ha interessato la datazione di molte opere toscane ed emiliane degli anni trenta: dagli affreschi del Camposanto pisano, opera di Buonamico Buffalmacco, ai lavori dello pseudo-Jacopino, all'attività fiorentina di Dalmasio nella cappella Bardi dedicata a s. Gregorio Magno, in S. Maria Novella a Firenze. In questa prospettiva la cappella Bardi di Vernio non sarebbe soltanto a monte degli affreschi fiorentini di Dalmasio (post 1335) e parallelo di contemporanee importanti realizzazioni di Taddeo Gaddi e di Bernardo Daddi e dell'ultima impresa della bottega giottesca (cappella di S. Maria Maddalena, Firenze, palazzo del Bargello), ma spingerebbe a postulare un'attività dello stesso M. ben più arretrata, estremizzando così l'assunto longhiano.Una posizione così radicale pare tuttavia trovare un ostacolo nella raffigurazione del Giudizio finale affrescato nell'avello del monumento funebre della cappella Bardi, che segue infatti l'iconografia della Visione beatifica, ovvero il Giudizio finale impartito al singolo subito dopo la morte: tesi fieramente avversata da papa Giovanni XXII (1316-1334), quanto sostenuta dall'ambiente francescano con Guglielmo di Ockham (Végh, 1986). Nonostante la posizione dell'Ordine francescano e l'esistenza di rappresentazioni consimili in miniatura, sembra tuttavia improbabile che una raffigurazione così ufficiale e in vista potesse essere stata eseguita prima della morte del pontefice e prima che il suo successore inviasse una bolla di distensione a tale proposito al re di Francia nel febbraio del 1336. È plausibile ritenere inoltre che gli affreschi raffigurati (Costantino malato si accinge al bagno di sangue, Visione dei ss. Pietro e Paolo, Viaggio di s. Silvestro, Riconoscimento delle effigi dei ss. Pietro e Paolo e Battesimo di Costantino, Miracolo del toro, Miracolo del drago), che per i soggetti rientrano nell'iconografia canonica del tema già sperimentata in esempi illustri - oratorio di S. Silvestro ai Ss. Quattro Coronati a Roma e S. Piero a Grado presso Pisa -, rispondano nei tempi all'attenta politica dei Bardi, volta, attraverso il tema di S. Silvestro e Costantino, ad avvalorare una scelta in linea con le aspettative della casata d'Angiò di Napoli, con cui i Bardi erano in relazione, e che essi, inoltre, ribadiscano il legame con la protostoria di Firenze evangelizzata al tempo di s. Silvestro (Giovanni Villani, Nuova cronica, II, 23; ed. a cura di G. Porta, I, Parma 1990, p. 89), nonostante i dubbi nutriti da Wilkins (1985) sul rapporto di questo santo con la città. Questi temi, comunque densi di significato, si intrecciano alle vicende di una città come Firenze ostile al potere dilagante dei Bardi, i quali, dopo aver cercato alleanze extracittadine, trovarono agli inizi degli anni quaranta nell'appoggio del duca di Atene un punto di forza per recuperare i possessi (tolti loro nel 1341) e quel prestigio che portò nel 1355 gli eredi di Piero de' Bardi al vicariato imperiale.Nonostante la complessa sistemazione di questi riferimenti cronologici, la sequenza delle restanti opere di M. non sembra, almeno al suo interno, subire variazioni di rilievo: parte da quelle più classicamente giottesche, quali le tavolette di Budapest, Berlino e Chantilly, dal trittico Babbot e dalla lunetta con l'Incoronazione della Vergine in Santa Croce, per approdare al polittico già nella Coll. Solly; a questo è avvicinabile anche una Madonna con il Bambino (Palermo, Coll. Chiaromonte-Bordonaro), oggi di difficile valutazione per le gravi ridipinture.Gli affreschi della cappella Bardi di Vernio - di stile più personalmente definito e maturo nelle soluzioni cromatiche volumetriche e spaziali, corredati delle importanti vetrate, che, sebbene ancora da esaminare più partitamente, rispecchiano in maggior grado lo stile di M. (Wilkins, 1985) che non quello di Taddeo Gaddi (Ladis, 1982) - segnano l'apice di un percorso che sterza poi nelle monumentali figure a mezzo busto del polittico della cappella Vettori in Santo Spirito. La grande pagina dell'affresco è comunque il mezzo con cui M. può meglio dispiegare soluzioni spaziose originali e complesse (per es. Miracolo del drago sullo sfondo del romano Campo Vaccino) che, tenendo fede, sulla traccia giottesca, a una resa plausibile e prossima al naturale, utilizzano i valori cromatici in funzione strutturale e tentano la prospettiva intuitiva non solo con scorci articolati e punti di riferimento calibrati (White, 1957), ma anche con modulazioni chiaroscurali nel contrasto di grandi partiti d'ombra e di luce. A tale rigore si sottopongono anche le figure, isolate e astratte nella loro grandezza, come nella scena del Miracolo del toro, ma tuttavia pervase da intensi moti d'animo espressi dalle fisionomie indagate con forte resa ritrattistica e mondanamente caratterizzate con attenta resa dei costumi; elementi che tornano anche nel S. Giuliano del polittico di Santo Spirito, volumetricamente rilegato dal bordo bianco in prezioso contrasto con il manto rosso soppannato di vaio. A tanto lucido rigore, infatti, non faceva difetto un senso copioso dell'ornato architettonico (fondali con incrostazioni marmoree, come nel Battesimo di Costantino) e della decorazione in oro, a conferma di un senso vivo della materia, perdutosi ancor prima del troppo deprecato restauro eseguito da Benini negli anni Trenta, in cui, a detta dei testimoni, sarebbe sparita quella carica di suggestione che aveva permesso agli stessi un accostamento audace agli affreschi pierfrancescani del coro del S. Francesco di Arezzo e la menzione di Beato Angelico (Toesca, 1951).La grandezza di M., conclamata dai letterati di poco più tardi, soltanto in parte sembra essere stata percepita dagli artisti contemporanei: lo emularono fedelmente i suoi allievi più stretti, sopra ricordati, lo citò Andrea di Cione, lo divulgarono nelle Marche, con propaggini meridionali fin troppo esaltate (Bologna, 1969a), figure non di secondo piano come Puccio di Simone e Allegretto Nuzi, lo riscoprì il revival prototrecentesco di fine secolo (Volpe, 1979). Sebbene rilevante, l'influenza delle sue opere non appare avere avuto però un'estensione prossima a quella delle opere di Gaddi o di Daddi, che sopravvisse con una sterminata produzione affidata alla bottega e ai collaboratori.Tuttavia la personalità di M., come quelle di Arnolfo di Cambio, di Giotto e di Andrea di Cione, è indicata dalle fonti in tutta la sua versatilità nelle arti. Ghiberti (Commentari, II, 7) lo definisce "molto docto nell'una arte e nell'altra" e dice che "scolpì meravigliosamente di marmo". Si è pertanto arrivati ad attribuirgli l'invenzione architettonica dell'edificio di Orsanmichele (Kreytenberg, 1983) e a rintracciarne l'attività di scultore, attestata da Ghiberti, nel misurato monumento funebre del vescovo di Fiesole Tedice Aliotti (m. nel 1336) in S. Maria Novella (Valentiner, 1935), cui sono stati aggiunti il Mosè, proveniente dal campanile, e soprattutto alcuni dei rilievi dei Sacramenti dello stesso (Firenze, Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore; Kreytenberg, 1979), in passato assegnati ad Alberto di Arnoldo. In effetti, specialmente in quello della Cresima, le figure si dispongono con lucidità e forte evidenza in uno spazio calibrato grazie a una tornitura essenziale, plastica e volumetrica allo stesso tempo, come appare dalla figura di vescovo còlto di profilo che si stacca dal fondo con l'avvolgente gravezza delle figure dipinte da Maso.Su questa linea anche la proposta avanzata da Negri Arnoldi (1990) di cogliere, se pur dubitativamente, la presenza di M. fuori contesto nel bolognese monumento Pepoli in S. Domenico, ricordato da Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 131) come di Jacopo Lanfrani, appare degna di considerazione, sebbene non dimostrabile. Mantenendo le brillanti proposte quali ipotesi di lavoro, occorre ammettere che il gruppo di opere qui ricordato si può considerare la realizzazione plastica più prossima alle pitture di Maso.
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