MASOLINO
. Tommaso di Cristoforo Fini detto M., pittore, nacque nel 1383 a Panicale, non è certo se di Valdelsa o di Valdarno; morì forse nel 1447. Nel 1423 era a Firenze iscritto all'Arte dei medici e speziali; nel 1424 gli pagavano lavori per la Compagnia della S. Croce in S. Stefano a Empoli; nel 1425, a Firenze, eseguiva qualche minor lavoro di decorazione per la Compagnia di S. Agnese in S. Maria del Carmine; nel 1427 era ancora in Ungheria, chiamatovi forse dal fiorentino Pippo Spano; nel 1432 dipingeva a Todi, nel S. Fortunato, una Madonna con angioli. A Castiglione Olona, presso Varese, nella collegiata gli affreschi della vòlta dell'abside sono iscritti col suo nome.
Le lontane peregrinazioni (a Roma sono attestate dall'affresco di Todi e dalle opere quivi lasciate) poterono far conoscere meglio a M. quello "stile internazionale" della pittura gotica (v. gotica, arte) che a Firenze si rifrangeva anche nell'arte di Lorenzo Monaco e forse aveva avuto un divulgatore in quel Gherardo Starnina, reduce di Spagna, ammirato anche nel ritrarre costumi esotici, che il Vasari afferma maestro di M. nel colorire, ma la cui arte finora è del tutto oscura. Come primo ha osservato il Toesca, molti caratteri congiungono a quello stile l'arte di M.: la tenue modellazione, a tinte lievi e brillanti; il senso del ritmo gotico, che si appaga in ondulazioni lineari, e intravvede appena le masse; la varia, ma superficiale osservazione che s'indugia nell'esteriorità (ornati, vesti, particolari) e non tocca il fondo delle cose. Il goticismo che poté esser confermato in M. dalla vicLinanza dell'Angelico e più di Lorenzo Ghiberti, anche s'egli non fu tra i suoi aiuti alla prima porta del battistero di Firenze (come vuole il Vasari: e potrebbero illudere i documenti che forse si riferiscono a un altro Tommaso di Cristofano), persistette nella sua arte sino alla fine, ma ebbe singolari vicende per la maggiore avventura avuta dal pittore: il suo incontro, e per un momento i suoi rapporti di maestro, con Masaccio (v.). Questi gli sottentrò anche nella sua opera maggiore - la cappella Brancacci in S. Maria del Carmine, a Firenze - e presto percorse lontano tutta la sua orbita, sparendo quando a M. restava ancora quasi un ventennio di attività. Dinnanzi al giovine prodigioso, che fu seguito da quanti artisti più nuovi aveva Firenze, M. dié prova di saggezza e di prontezza nell'apprenderne quanto poteva convenire alla sua individualità, tanto minore: rimase qual era, senza forzare a toni irraggiungibili la propria arte; accolse da Masaccio le nuove concezioni di spazio e di luce, in grado assai inferiore quelle di rilievo, temprandole tutte in modo da non discordare col suo intimo carattere gotico, che così prese accento squisitamente fiorentino. E in molti modi esteriori, non certo nell'altezza spirituale, così si accrebbe la sua affinità con l'Angelico.
Le opere rimaste di M. non si possono classificare sicuramente, e senza leggerezza, nella loro successione, sia perché tutte appartengono a un periodo troppo ristretto (1423-1435), sia perché l'artista ha ondeggiato fra modi diversi, come bene si può ammettere per la sua stessa natura: né è sempre argomento certo per la loro cronologia il vario aberrare delle loro linee prospettiche. A riconoscerle dànno sicuro paragone gli affreschi della collegiata di Castiglione Olona, benché vi sia chi ne attribuisce ancora molte allo stesso Masaccio (v.).
Una Madonna del 1423 (Brema, Kunsthalle), tenue nelle forme, tutte composte in un gotico fluire di linee, sembra la più antica opera a noi giunta di M.: in quell'anno, Masaccio, ventiduenne, già doveva affermarsi. Un'altra (Monaco, Alte Pinakothek), in cui è deliziosamente espresso il desiderio del Bambino, viva di azzurri e di colori rosati, non meno gotica nella composizione, ma modellata con più consistenza, è di tempo alquanto più inoltrato. Intorno allo stesso momento potrebbe M. aver affrescato le storie di Maria nella collegiata di Castiglione Olona, che fu consacrata nel 1425: non soltanto le esili figure, ma le architetture vi si adattano ingenuamente al rastremarsi degli spicchi della vòlta dell'abside come se il concetto di profondità non fosse ancora tanto appreso dal pittore quanto poi negli affreschi del battistero, di data non lontana 1435). Nell'Annunciazione della raccolta Goldmann (New York) M. insiste nello sfondo prospettico, ma non riesce a definirlo: insufficienza che bene accompagna il raffinato goticismo delle figure, sì che giustamente il Berenson dubita se il dipinto preceda o segua gli affreschi della collegiata. Più tardi M. poté eseguire per la basilica Liberiana di Roma quel polittico poi disperso (Napoli, Pinacoteca: Fondazione di S. M. Maggiore; Assunta; Filadelfia, Museo Johnson: Quattro Santi, Roma, Pinacoteca Vaticana: Morte della Madonna e Crocifissione; forse parti del polittico) che il Vasari attribuì a Masaccio, come un altro trittico già in S. Maria Maggiore a Firenze, poi anch'esso scomposto (Firenze, Uffizî: S. Giuliano; Novoli, pieve: Madonna, perduta; Montauban, museo: predella), nel quale l'influenza di Masaccio è più evidente, anche nel chiaroscuro, ma persistono tutte le qualità proprie di M., nel tenue colorito, nell'incantevole grazia, nel manierismo gotíco. Gli affreschi che il Vasari ricordò di M. nella cappella Brancacci in S. Maria del Carmine a Firenze (v. masaccio) sono in parte scomparsi: restano il Peccato originale, la Predicazione di S. Pietro, la Resurrezione di Tabita e la Guarigione dello storpio.
Se nella Predicazione di S. Pietro la mancanza di spaziosità contrasta con gli affreschi di Masaccio, nel Peccato originale, dove M. spiega le sue qualità migliori, il contrasto è anche maggiore: sul chiuso sfondo, i gracili corpi hanno rilievo insensibile, colorati a leggiere sfumature, in una luce tenue quasi senza ombre; l'azione è incerta; nulla caratterizza l'istante e gli affetti. Nella Resurrezione di Tabita e nella Guarigione dello storpio, entro il grande spazio a riscontro del Tributo di Cristo, capolavoro di Masaccio, le due "storie" sembrano anche più slegate per le due studiate figure nel mezzo, tanto deboli di struttura quanto brillanti nel costume; lo sfondo riesce a determinare la profondità meglio che nelle precedenti opere di M., ma è in tutto inferiore alle illusive costruzioni prospettiche di Masaccio; ai convenzionalismi gotici va congiunta la consueta molle modellazione, fuorché in qualche breve tratto forse finito da Masaccio.
M. aveva interrotto la sua opera nella cappella Brancacci probabilmente per recarsi in Ungheria: ma colà nulla finora di lui è stato ritrovato, e breve dovette essere il soggiorno per la sopravvenuta morte dello Spano, suo patrono. Forse già nel 1428 egli era tornato in Italia; e in quell'anno, a Roma, poté condurre almeno in parte i dipinti della cappella del Sacramento in S. Clemente, chiesa titolare del card. Branda Castiglione, che già di lui si era servito nella collegiata di Castiglione Olona: ciò è da supporre osservando l'influsso di Masaccio e lo sviluppo della prospettiva lineare anche maggiori in S. Clemente che nella Resurrezione di Tabita, mentre quella data si accorda con la probabile collaborazione di Masaccio.
A Masaccio il Vasari attribuì tutti gli affreschi di S. Clemente; invece, per quanto siano ridipinti in gran parte, vi si riconoscono i caratteri di M., e di fattura e di contenuto, così nel S. Cristoforo e nell'Annunciazione all'esterno, come nei Ss. Dottori ed Evangelisti sulla vòlta e, sui lati, nelle storie di S. Caterina e di S. Ambrogio. In queste ultime l'influenza di Masaccio meglio si vede nel più largo effetto di luce. La Crocifissione, sulla parete di fondo, certamente ideata da M. nella composizione slegata, fu da lui dipinta in gran parte; ma v'intervenne anche un collaboratore, che poté essere Masaccio.
L'affresco del 1432 nel S. Fortunato a Todi (dove sono resti di un altro dipinto di M. sul portale di sinistra) mostra come il pittore andasse accentuando la modellazione, se pur lievemente e sempre fedele ai suoi principî gotici, fino all'opera ultima - gli affreschi del battistero di Castiglione Olona - in cui la sua arte si spiegò in nuovo modo.
Era egli ritornato al borgo di Branda Castiglioni, a servizio del cardinale: vi decorò di affreschi anche il suo palazzo (ne resta un grande fantastico paesaggio); vi eseguì (1435) l'intera decorazione del piccolo battistero, fin nell'esterno.
Non ha fondamento critico la distinzione tra diversi pittori con l'intervento di un maestro lombardo, immaginata da H. Beenken e dal Lindberg: tutta la decorazione del battistero, non vasta, fu condotta da un solo artista, la cui identità è certa: M., che vi dipinse, come nella cappella di S. Clemente, a buon fresco e a tempera, adoperandovi un pennelleggiare leggiero quasi per effetti atmosferici. Inutili le dimostrazioni dinnanzi all'evidenza assoluta data dalle rispondenze di colorito e di disegno, di contenuto e di forma, coi dipinti della vicina collegiata e con gli altri fin qui ricordati. Il modo di vedere dell'artista si amplia, per riflessi della nuova pittura fiorentina, ma non si modifica. Tra i primi, nell'ideare l'insieme della decorazione, M. finge aperte le pareti all'intorno: e in uno sfondo continuato compone le storie del Battista. Si schiude il paesaggio; architetture scandiscono lo spazio dinnanzi alle lontananze: e anche se lo sfuggir delle linee, come nel Banchetto di Erode, pur sorpassando ogni altro precedente tentativo di M., non giunge a piena illusione prospettica, ciò non è difetto accompagnandosi all'attenuata modellazione che si risolve in delicato e brillante colore. Il tono narrativo, pur senza profondità, si anima di varietà, nei costumi, nei ritratti osservati superficialmente ma con brio; su tutto è quel senso di candore e di grazia proprio al pittore fin dalle prime opere.
A M. sono da attribuire a Empoli una Madonna nel S. Stefano (circa 1424), non lontana dagli affreschi della cappella Brancacci, e una Pietà nel Battistero, più intenta a Masaccio; non gli appartengono invece né la Crocifissione della raccolta Griggs, né quella della chiesa di Montecastello, né una Trinità (Detroit, Institute of Art) che è già nell'orbita di Filippo Lippi.
V. tavv. CXVII-CXX.
Bibl.: È la stessa che per Masaccio (v.) riguardo alle questioni generali. Vedi più particolarmente: B. Berenson, Study a. criticism of Ital. Art, II, Londra 1920, pp. 77-89; id., in Dedalo, VIII (1922-23), p. 630 segg.; R. Offner, ibid., p. 636; P. Toesca, M., Bergamo 1907; id., in Boll. d'arte, n. s., III (1923-24), p. 3 segg.; M. Salmi, in Dedalo, VIII (1927-1928), p. 227 segg.; H. Beenken, in Zeitsch. für bildende Kunst, LXIII (1929-1930), p. 158; L. Venturi, Dipinti italiani in America, Milano 1931.