massa
Termine correntemente usato, nel linguaggio politico e giornalistico per indicare una intera popolazione intesa come insieme indifferenziato, o comunque un gran numero di persone che presentano, o sono spinte ad assumere, comportamenti simili.
Storicamente la psicologia di m. ha costituito uno dei primi campi d’interesse della psicologia sociale, soprattutto in Francia con G. Le Bon (1895) e G. Tarde (1898). Essa studia fenomeni quali i movimenti giovanili, le dimostrazioni, gli scioperi «selvaggi», fenomeni caratterizzati da un trovarsi insieme non organizzato, provvisorio, non periodico, dotato di una certa attività (distinguendosi così anche da un passivo raggruppamento e da un raggruppamento «pubblico»). Secondo Le Bon esistono energie inconsce che vengono liberate dai vincoli sociali solo nelle situazioni anonime di m. (punto sviluppato successivamente da Freud). In seguito si è ipotizzato che l’assenza di interazioni regolative tra individui raggruppati provoca in essi un’illusione di forza e produce un contagio, che spinge l’azione alla rottura, con un livellamento dei comportamenti e con fusione affettiva e identificazione col «capo». L’individuo può venire «implicato» nella m. in grado più o meno rilevante a seconda della sua personalità.
Di uso frequente nelle scienze sociali, il termine presenta significati ambigui o generici. Per quanto riguarda i suoi contenuti esistono almeno due referenti soggettivi: il proletariato come classe generale, perché incarna gli interessi della stragrande maggioranza della società, secondo quello che era il punto di vista prevalente delle teorie marxiste; il ceto medio, cioè l’insieme dei gruppi che occupano le posizioni centrali nella piramide sociale, in quanto categoria residuale ma certamente assai estesa nei sistemi industriali. In ogni caso, le caratteristiche invarianti del concetto fanno riferimento a due dimensioni: una quantitativa, per cui la m. costituisce la base numericamente più ampia della società («i molti» di cui parlava già Aristotele nella sua tipologia sulle forme di governo); l’altra qualitativa, per cui la m. definisce una collettività «emergente» di individui, tale cioè da non poter essere ridotta alla loro somma, accomunati da qualche elemento per lo più oggettivo (lo stato di subalternità politica, la somiglianza degli stili di vita, la prossimità fisica o emotiva ecc.). Nella tradizione degli studi sociologici si possono distinguere ancora due tendenze di massima. Da una parte, la tendenza a considerare, in negativo, la m. come un prodotto del processo di spersonalizzazione dell’individuo in collettività indistinte: e in questo senso il concetto di m. verrebbe a coincidere con quello di folla, quale insieme di individui radunati occasionalmente che sviluppano pulsioni elementari ed emotive (G. Le Bon, 1895), o con quello di gente, un modo d’essere, un’attitudine conformista che forgia il cosiddetto uomo-m. in uno qualsiasi dei ruoli che si trova a occupare nella società (J. Ortega y Gasset, 1923). Dall’altra, la tendenza a considerare, in positivo, la m. come una formazione sociale di soggetti che mettono in comune le proprie esperienze di vita e agiscono solidalmente per un obiettivo condiviso (L. von Wiese, 1955), o come una forma di sociabilità che si attua mediante la fusione parziale di un gruppo (G. Gurvitch, 1963). Con l’intento di mediare fra queste posizioni e ottenere una definizione largamente denotativa del concetto di m., dopo averne passato in rassegna i possibili significati, W. Sombart escogita il concetto di m. statistica per dire di «una moltitudine di persone che agiscono in modo simile senza avere rapporti significativi fra loro» (Der proletarische Sozialismus, 1924). Ma la diffusione del termine nel linguaggio corrente delle scienze sociali deriva dagli sviluppi della teoria delle e dalle relative analisi sulla ineguale distribuzione del potere nella società. Il presupposto comune di queste analisi è che vi sia una dicotomia essenziale e irriducibile fra un «pubblico di élite», composto dalla classe politica, dai gruppi dirigenti e dalle avanguardie intellettuali, e un «pubblico di m.» contraddistinto come insieme di persone che posseggono un sistema di credenze cognitivamente povere ed emotivamente instabili, e che per questo si trovano in ogni caso esposte alle costrizioni, alle manipolazioni, alla eterodirezione dei «pubblici» di élite, sia nel caso si mobilitino per qualche progetto di mutamento sia nel caso si rivelino apatiche e refrattarie a ogni ipotesi di coinvolgimento politico. Convergono verso queste conclusioni autori di formazione diversa ma in qualche modo legati alla teoria delle élite: da G. Mosca, capostipite di tutta una letteratura ostile alla democrazia «di m.», a C. Wright Mills, esponente di spicco della scuola americana, per il quale la m. (inerte e passiva) è l’esatto rovescio del concetto di opinione pubblica (critica e attiva), mentre altri autori come H. Arendt (1958) sottolineano l’opportunità di applicare il termine m. solo a quella maggioranza di persone, politicamente neutrali o indifferenti, che non possono essere integrate in nessuna organizzazione fondata su un interesse comune (e sarebbe questo, peraltro, il terreno sociale più favorevole allo sviluppo dei regimi autoritari o totalitari). Le teorie sulla società di m. costituiscono dunque la naturale controparte della teoria delle élite, e mettono in luce come le conseguenze di taluni processi di modernizzazione – sviluppo economico, suffragio universale, urbanizzazione, consumismo, istruzione, tecnologia, mezzi di comunicazione – tendono a costruire una società di «uguali» che, se da una parte poggia su una base assai estesa di democratizzazione, dall’altra tuttavia alimenta dinamiche di disgregazione e di isolamento individuale.