Masserie regie
Se nelle campagne del Mezzogiorno bassomedievale il nucleo che più di ogni altro svolge funzioni demiche e di colonizzazione agraria è il casale, villaggio aperto e senza mura (e in alcuni casi anche il borgo fortificato, il castrum), il principale centro di articolazione della produzione è invece la massaria, le cui testimonianze scritte si infittiscono sin dai primi decenni del sec. XIII. In passato la massa (termine latino modellato sul greco μᾶζα, letteralmente 'impasto di farina d'orzo' e, per estensione, campo coltivato) aveva indicato il grande latifondo laico o ecclesiastico, suddivisibile in lotti, detti massarie, affidate in gestione ai massari. A partire dal Duecento invece con il termine massarie vengono chiamate aziende rurali di vario tipo, piccole e grandi, che hanno forme di proprietà e gestione ampiamente differenziate, e che sul piano della caratterizzazione produttiva si distinguono sostanzialmente in tre tipi: 1) 'masserie di campo', che possono riguardare sia il semplice fondo coltivato, sia la vera e propria azienda cerealicola provvista di abitazione colonica, locali di deposito, strutture e strumenti di produzione; in questo tipo di masserie, va aggiunto, il parco-animali è strettamente funzionale ai lavori agricoli; 2) 'masserie di allevamento', riservate alla riproduzione del bestiame, soprattutto ovocaprini e suini, meno diffusamente bovini (sono dette invece aratie o maristalle le fattorie regie ‒ successivamente anche signorili ‒ di allevamento degli equini): in questo tipo di aziende a spazi, strutture e locali destinati agli animali e alla lavorazione dei loro prodotti, si aggiungono terre deputate al pascolo o coltivate in funzione del bestiame; 3) 'masserie miste', o massarie animalium et camporum, in cui le attività e le strutture agricole si integrano con quelle pastorali e di allevamento, in un rapporto di mutevole ma indispensabile equilibrio: in quest'ultimo tipo di azienda, è spesso il mercato la destinazione principale del prodotto.
Già nel Regno normanno l'introduzione di un regime fondiario capace di riservare al dominio signorile e regio vaste aree territoriali, coltivate e incolte, aveva posto in termini nuovi il problema della valorizzazione in senso produttivo delle terre demaniali. Ma solo con Federico II nasce un vero e proprio 'sistema' di aziende produttive dislocate in territori di dominio riservato al sovrano. Sono le massarie regie, masserie di stato, centri di organizzazione del lavoro agropastorale, una delle tessere fondamentali di un più ampio progetto di valorizzazione dei beni del demanio regio. Ne fanno parte sia le aziende attivate direttamente su ordine del sovrano, sia quelle inserite nel demanio a vario titolo, o perché proprietà di privati senza eredi, o perché requisite a ribelli e in alcuni casi a enti monastico-cavallereschi. Anche per questo dislocate un po' dappertutto 'a macchia di leopardo', le masserie regie sveve si concentrano in misura maggiore nei territori a più alto e costante tasso di produzione cerealicolo-pastorale, in primo luogo la Sicilia e la Puglia. Frammentaria ed episodica la relativa documentazione: per la Puglia essa vale comunque a esaltare la Capitanata come l'area (seguita a distanza dalla Terra di Bari settentrionale e dalla zona murgiana) di maggior addensamento delle masserie federiciane. Ne dobbiamo notizie e possibilità di localizzazione a un documento di eccezionale rilevanza, il Quaternus de excadenciis et revocatis, l'unico registro inventariale dei beni del demanio federiciano che sia giunto sino a noi, per quanto incompleto e privo della data esatta.
Redatto da funzionari regi verso il 1249, il Quaternus ci segnala nei particolari la consistenza e il tipo di utilizzo dei beni demaniali dislocati in diverse località (alcune delle quali oggi non più esistenti) del giustizierato di Capitanata. A Foggia sono individuabili due distinte masserie: la prima, definita imperiale, possiede orti e case nel "sobborgo di Maniaporco", tra cui un edificio presso il fossato della città che in censo annuo vale 3 once d'oro, grazie al trappeto (il frantoio per l'olio) di cui è dotato, e un altro edificio, in precedenza proprietà dei Teutonici, che dispone di un forno e di un cortile "pro palea"; la seconda, detta masseria della corte, gestisce altri beni rurali, tra cui case requisite al dominus Roberto "de Syone" (Roberto di Sion) e un orto in passato proprietà degli Ospitalieri. Questa seconda masseria era appartenuta sino a poco tempo prima a Pier della Vigna: gli viene revocata, con tutti gli altri beni, dopo la nota accusa di congiura, per essere inserita, conferma appunto il Quaternus, nel demanio regio.
Nelle fertili campagne comprese tra i corsi d'acqua del Candelaro, del Celone e del Cervaro, masserie regie sono censite a S. Chirico e Lama (nel territorio di Siponto), che possono contare sui proventi di vigneti e oliveti, e a Versentino (a nord-est di Foggia), che presso Foggia gestisce terreni requisiti ancora al dominus Roberto "de Syone", che rendono 75 salme di vino e 6 stai di olio all'anno, e un oliveto, a sua volta revocato agli Ospitalieri, che rende 9 stai di olio all'anno. In un altro territorio noto per la sua feracità, compreso tra Fiorentino e Lucera, una masseria federiciana è localizzata a Visciglieto: il massarius che la gestisce per conto della corte dispone di campi e di un "tenimentum" di 150 salme di semina. Ancora, masserie del demanio sono nelle campagne di Apricena (alla locale azienda viene assegnato un oliveto, del valore di 20 stai di olio, requisito ai Teutonici), Castelluccio (dispone di diverse domus), Casalcelano o Casone, nelle campagne foggiane (può contare su due edifici dotati di strutture produttive, uno con il centimolo o mulino della masseria, l'altro con il trappeto usato dalla masseria). Tra i beni demaniali dislocati nelle campagne di Salpi, a sud del torrente Carapelle, sono ricordate la masseria di Tressanti, che dispone di vigneti e oliveti censiti per 16 stai di olio e 20 salme di vino all'anno, e quella imperiale di Bonassisa, tra Orta Nova e Cerignola, che possiede a sua volta oliveti e vigneti di analogo valore, sottratti ai Teutonici. Infine in area garganica, nel territorio del casale di Sala (quasi certamente nelle campagne di S. Severo), è dislocata una masseria regia cui vengono assegnate tutte le terre tolte al monastero di S. Giovanni in Lamis (è oggi il convento di S. Matteo in S. Marco in Lamis): il relativo reddito annuo per la corte è stimato in 20 salme di raccolto, 30 stai di olio e 600 "cannatas" di vino. Della masseria di Sala un successivo documento, datato 1277, ci dice di più, presentandoci un complesso produttivo, costruito a spese di Federico II, formato da una residenza imperiale, "palacium unum soleratum cum camera", dotato di sette edifici: tre a uso di abitazione, più un magazzino, un fienile, una stalla e un trappeto.
Le pur scarse informazioni sovrapponibili a quelle del Quaternus confermano il ruolo centrale svolto dalla Capitanata nel sistema delle masserie regie: basti qui richiamare l'anonimo "dominus massarius" di Foggia interrogato come testimone, tra 1220 e 1224, nel corso di un'inchiesta sui diritti episcopali della città di Troia; la qualifica di massaro della corte imperiale in Terra di Bari con cui è citato nel 1247 frate Stefano, del monastero di S. Matteo di Sculgola presso Dragonara (nel Foggiano); e una disposizione di Federico II, contenuta nel registro del periodo 1239-1240, perché i mastri portolani di Puglia si impegnassero a distribuire in tutte le masserie regie gli ovini ceduti in censo annuo dai saraceni di Lucera. Proprio a Lucera, informa il cosiddetto Statuto sulla riparazione dei castelli (v. Statutum de reparatione castrorum), è dislocata una masseria regia affidata in gestione ai saraceni. Sono, questi ultimi esempi, solo frammenti dell'attenzione e della cura dedicate dal sovrano al funzionamento delle aziende masseriali. Un complesso di norme codificate in leggi ne regolava minuziosamente l'attività produttiva e la gestione amministrativa, affidata a sovrintendenti, i provisores massariarum (saranno poi chiamati magistri massariarum o mastri massari), da cui dipendevano tutte le masserie regie presenti all'interno di ogni circoscrizione (che inizialmente può comprendere anche una regione intera, successivamente viene modellata sul giustizierato). Al provisor responsabile delle aziende demaniali di Puglia è indirizzata una delle Novae Constitutiones, la Constitutio sive encyclica super massariis curiae, destinata a essere inviata, dato appunto il suo carattere di enciclica, anche agli altri provisores del Regno. Vi si espongono i principi e la normativa cui i provisores devono attenersi nella conduzione di quelle aziende.
Ogni provveditore o mastro massaro era tenuto a visitare periodicamente le masserie della zona di sua competenza, verificando l'attività del massarius, il responsabile della singola masseria, e del relativo organico di manodopera fissa o stagionale, servile (i famuli) o salariata (gli operarii o braccianti), generica o specializzata (il bubulcus, il vaccarius, il porcarius e così via). Ogni anno doveva annotare su appositi registri la quantità del raccolto e quella degli animali disponibili; indagare sugli eventuali cali di produzione, anche ricercandone le cause, sui furti di prodotti, strumenti e bestiame, sulla correttezza del comportamento del massaro e degli addetti ai vari lavori; controllare che gli edifici masseriali venissero riparati in caso di necessità, e così via. In particolare, doveva accertarsi che la singola masseria disponesse in sufficienza di terre fertili, di legna, fieno, paglia, di animali da cortile e di animali da lavoro, e che vi fossero coltivati non solo grano e orzo, ma anche avena, miglio, panico, sorgo, spelta, legumi, canapa, cotone, alberi da frutto, olivi e viti, e persino se vi fosse praticata l'apicoltura. La masseria-tipo federiciana, così come la definisce e propone l'enciclica, vuol essere un'azienda onniproduttiva, in cui deve essere praticata indistintamente ogni sorta di coltura e il cui prodotto deve valere sia per l'autoconsumo della corte che per il grande mercato e l'esportazione. Nella pratica, le disposizioni federiciane risultano sostanzialmente inapplicabili, sganciate come sono da un rapporto reale con il paesaggio agrario, con la natura del territorio e con le sue tradizioni produttive: emblematico l'esempio di quei massari o curatoli di Capitanata che, nel novembre 1239, rifiutano di seminare nei campi demaniali tutta l'avena di cui dispongono, come ordinato dal sovrano, e preferiscono continuare a seminare i cereali tradizionali: grano e orzo. E solo un anno prima, nel luglio 1238, Federico si era lamentato per la "negligenza" dei coltivatori di Terra di Bari, che seminavano poco e male e non utilizzavano al meglio i buoi aratori: la loro "pigrizia" causava seri danni all'agricoltura e alle casse del fisco, perché "da scarso seme non poteva aversi che scarso raccolto".
Programmata sulla carta come azienda policolturale, nella realtà quotidiana la masseria regia federiciana continuava a caratterizzarsi come azienda monocolturale a indirizzo prevalentemente cerealicolo, anche se non manca qualche indizio sulla introduzione nei suoi campi, quasi certamente ad opera o sul modello dell'esperienza cistercense, di innovazioni come la rotazione triennale delle colture. Ma più che all'introduzione di tecniche innovative o a una politica di costanti investimenti nell'agricoltura, l'attenzione dello Svevo appare dedicata agli aspetti normativi e spesso didascalici della conduzione masseriale. Lo confermano le disposizioni raccolte e ampliate nell'età di Manfredi in una serie di Statuta: da quelli sul bestiame, che accanto ai prezzi di alcuni generi alimentari definiscono sia i valori di mercato degli animali e delle loro pelli secondo l'età, sia il loro fabbisogno alimentare, le modalità di ingravidamento e persino la quantità richiesta per legge di parti e di nati; a quelli sui salari e sui compensi in vitto ai dipendenti del massaro (un tomolo e mezzo di frumento al mese per i dipendenti della masseria; due tomoli mensili agli operai esterni alla masseria, ai giumentari e agli scudieri; e questi ultimi ricevevano mensilmente anche un barile e mezzo di vino).
Sulle rese, è illuminante la disposizione fiscale De semine frugum, contenuta nello Statutum massariarum: vi si stabilisce che ogni salma di frumento seminato debba renderne dieci, e ogni salma di orzo dodici; ogni variazione in diminuzione doveva essere esplicitamente motivata dal massaro o con atto pubblico o con la testimonianza dei vicini. Le quote di raccolto che il massaro era tenuto a corrispondere al fisco sono collegate alle rese cerealicole: rendimenti reali o presunti? Se guardiamo alle capacità produttive della cerealicoltura dell'epoca, le rese appaiono piuttosto elevate, soprattutto se ipotizzate e pretese ogni anno. Ed è forse qui, nel suo carattere di azienda-modello che è tanto 'astratta' quanto condizionata da irrinunciabili esigenze fiscali, uno degli elementi di debolezza della masseria regia federiciana. Ciò non toglie che, inserita all'interno di un 'sistema', essa abbia svolto un duplice ruolo: di modello esemplare di razionalità almeno gestionale, se non produttiva, e di strumento di controllo e di governo del territorio.
fonti e bibliografia
Historia diplomatica Friderici secundi: la Constitutio sive encyclica super massariis curiae è nel vol. IV, 1, pp. 214-216.
Acta Imperii inedita: gli Statuta massariarum sono nel vol. I, pp. 754 ss.
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