massima
Nell’accezione generica, presente fin dall’antichità, giudizio, sia personale sia collettivo, proposto come norma generale o come regola di condotta, senza essere fondato su principi o dimostrazioni. In tal senso si parla di m. (o ‘sentenze’) dei poeti ‘gnomici’ (da γνώμη «opinione, consiglio»), di cui è espressione il corpus sapienziale ricondotto ai sette saggi (Platone, Protagora, 343 a; Stobeo, Antologia, III, 1, 172).
Nella logica medievale, sulla scorta di Boezio (Commentarii in topica Ciceronis, I; De differentiis topicis, I-II), si parla di m. in senso tecnico (non ‘morale’) in riferimento alla propositio maxima o suprema, ossia la proposizione «indubitata» di carattere generale cui ricondurre proposizioni che ne specificano via via l’applicazione a casi particolari («et universales et maximae propositiones […] sunt dictae, quoniam ipsae sunt quae continent caeteras propositiones», De differentiis topicis, II). In tal senso alcune proposizioni vengono a essere ‘massime’ sia perché si applicano a tutti i casi (ossia in quanto ‘universali’) sia perché non necessitano di dimostrazioni («per se notae propositiones, quibus nihil est notius, indemonstrabiles ac maximae et principales vocantur», De differentiis topicis, I), al modo degli assiomi o delle nozioni per sé note, benché fra le proposizioni massime siano inclusi anche loci communes che trovano applicazione nelle tecniche argomentative dialettiche e retoriche. Alano di Lilla, però, documenta un uso della nozione esteso anche all’astronomia e alla teologia («theologicae maximae», Regulae theologiae). Nelle Summulae logicales (V, 4) di Pietro Ispano la trattazione della m. rientra in quella dei loci; m. è dunque la proposizione che dà stabilità all’argomentazione («confert firmitudinem argomento»), il luogo primo, ossia più noto («maxima est propositio qua non est altera prior, idest notior»).
Accanto all’impiego logico, ancora presente nel 1638 in Jungius (Logica hamburgensis, V, 3, 5, in riferimento alla «proposizione maggiormente probabile»), è assai diffuso anche l’uso della m. in ambito pratico con riferimento a principi cui improntare le decisioni riguardanti la condotta morale o giuridica (ove indica orientamenti, accolti e tramandati, emersi nella risoluzione di contenziosi); in riferimento alla risoluzione morale soggettiva la nozione di m. è presente nei Saggi di Montaigne (Dell’amicizia, I, 28) e nella terza parte del Discorso sul metodo (1637) di Descartes, ove, in attesa di una trattazione compiuta, l’autore enuncia le m. della «morale provvisoria». L’uso in ambito pratico-morale è assai ampio nel genere saggistico letterario, esemplato, nel sec. 17°, dalle opere di Fr. de La Rochefoucauld (Réflexions ou sentences et maximes morales, 1665) e di J. de La Bruyère (Les caractères ou les moeurs de ce siècle, 1688; trad. it. I caratteri). Tuttavia, nel Saggio sull’intelletto umano (1670; Delle massime, IV, 7), Locke ripropone, con intento polemico, la convergenza fra m. e «proposizioni autoevidenti», ritenute, come gli assiomi, principi della scienza benché «nessuno […] si sia avventurato a mostrare la ragione e il fondamento della loro chiarezza o cogenza». Locke non riconosce né la priorità («non sono le verità che abbiamo conosciuto per prime», 9) né l’utilità («le altre parti della conoscenza non ne dipendono», 10) delle m., il cui impiego attiene alla dialettica e alla retorica, ma non alla scienza: «di grande utilità nel chiudere le bocche dei contendenti, ma non nella scoperta di verità» (12). In polemica con Locke, Leibniz nei Nuovi saggi sull’intelletto umano (1705; Delle proposizioni denominate massime o assiomi, IV, 7) distingue assiomi e massime in merito sia al valore conoscitivo sia all’origine, riconducendo queste ultime all’ambito empirico e riconoscendo che nella morale e nella logica (nei topici), esse siano talvolta prese come «proposizioni stabilite», sebbene non siano evidenti. Diversamente dagli ‘assiomi’, autoevidenti in quanto riconducibili agli «assiomi primitivi» e alla reale connessione delle idee, le m. espresse da proposizioni che riguardano «verità di fatto» sono «generali o vere il più sovente» ed essendo «apprese mediante l’osservazione o fondate su esperienze», allo stesso modo degli ‘aforismi’ della tradizione medica, non poggiano su «ragioni del tutto convincenti».
Nel 18° sec., accanto agli sviluppi della tradizione leibniziana in Wolff e all’uso politico ampiamente documentato in autori quali Thomasius, Montesquieu (Spirito delle leggi, 1748, III, 3; V, 2, 7) o Rousseau, che nel Contratto sociale (1762) parla della «volontà generale» da cui scaturiscono, in uno Stato bene ordinato, «m. chiare e luminose» (IV, 1), il concetto di m. è ancora presente in ambito pratico-morale. Baumgarten nella Metaphysica (1739) definisce m. le proposizioni maggiori dei sillogismi pratici («maiores suas propositiones syllogismorum practicorum sive maximas», Psycologia, sect. XVIII, facultas appetitiva superior, § 699; Ethica philosophica, 1740, § 246) descrivendole come «modi di pensare consueti» («gewöhnliche Gesimmungen»). Kant nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785) definisce la m. come «il principio soggettivo del volere» contrapposto alla legge pratica che è invece il «principio oggettivo, ossia quello che servirebbe anche oggettivamente da principio pratico a tutti gli esseri ragionevoli se la ragione avesse pieno potere sulla facoltà di desiderare» (I). Nella Critica della ragion pratica (➔) (1788), m. è il principio pratico in cui «il soggetto considera la condizione come valida solamente per la sua volontà» (I, 1); essa differisce dall’imperativo in quanto questo ha validità oggettiva ed è categorico, ossia il «motivo determinante» della volontà non vi è presente quanto al contenuto, ma «esclusivamente secondo la forma» (§ 5). È infatti unicamente la ‘forma’ legislativa, racchiusa nella m., a costituire il «motivo determinante della volontà libera» (§ 6). Da ciò derivano sia la possibilità di una legislazione universale, ossia valida per tutti gli esseri razionali, sia l’indipendenza della ragion pratica, e dunque la «libertà nel senso più rigoroso, cioè trascendentale». In tal senso Kant può enunciare la legge fondamentale della ragion pratica: «agisci in modo che la m. della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale» (§ 7; Fondazione, II).