Massimiliano I d’Asburgo
Primogenito dell’imperatore Federico III e di Eleonora del Portogallo, Massimiliano, nato a Wiener Neustadt nel 1456 e morto a Wels nel 1519, sposò nel 1477 Maria, erede di Carlo il Temerario duca di Borgogna. Tale unione dinastica, con la strenua volontà di mantenere la vasta ma eterogenea eredità borgognona, condusse Massimiliano a uno scontro pressoché permanente con il regno di Francia, al quale comunque già nel 1477 dovette cedere il cuore del ducato, ossia la Borgogna medesima. Eletto e incoronato re dei Romani nel 1486, si consacrò a diverse campagne militari volte a riunire saldamente nelle sue mani i domini di casa Asburgo. Se in un primo momento subì dei rovesci e venne addirittura imprigionato a Bruges dalla lega dei mercanti fiamminghi ostili alla sua autorità (1° febbr. 1488), poi, liberato alla fine del 1488, conseguì risultati più solidi tanto nelle Fiandre quanto in Tirolo. Mortagli già nel 1482 Maria, fallito un tentativo di matrimonio con Anna di Bretagna, nel 1494 Massimiliano sposò Bianca Maria Sforza, nipote di Ludovico il Moro. A lui si unì nella lega (1495) contro Carlo VIII che rientrava in Francia dopo la conquista del Regno di Napoli. Con ciò cominciava un suo più diretto impegno nella politica italiana che si sarebbe rivelato fallimentare, poiché né gli doveva mai riuscire la tanto sospirata incoronazione imperiale in Roma (poté averne una nel duomo di Trento, presente M., il 4 febbr. 1508), né poté evitare una serie di sconfitte militari e diplomatiche che dovevano eroderne fortemente il prestigio. Prima fra le quali la spartizione del ducato di Milano, negli anni a cavallo del secolo, tra la Francia e Venezia. Non ebbero miglior fortuna negli anni successivi i tentativi di riprendere alla Serenissima i territori di pertinenza imperiale che questa si era via via accaparrata in Cadore, in Friuli, in Istria. In effetti la sua adesione alla lega di Cambrai (1508) gli procurò solo effimere riacquisizioni, che finì per dover di nuovo, in massima parte, lasciare alla Repubblica di Venezia (vicende, queste ultime, che M. ripercorre nel secondo Decennale, vv. 115 e segg.). Poco prima della sua morte, la battaglia di Marignano (1515) sancì, per allora, la supremazia francese nella Pianura Padana.
Se la velleitaria politica internazionale di Massimiliano, e quella italiana in particolare, sfociò in una serie di insuccessi, anche sul piano interno il suo potere, che già subiva forti limitazioni per la realtà di fatto multipolare del mondo germanico, conobbe un ulteriore indebolimento sancito nella nuova costituzione dell’impero elaborata nella Dieta di Worms nel 1495, nella quale veniva riconosciuta una direzione collegiale della politica imperiale aperta ai grandi elettori.
Quanto mai fortunata si rivelò invece la strategia di alleanze matrimoniali che condusse Massimiliano a intrecciare le sorti della propria a quelle di altre dinastie regnanti, e in primo luogo – grazie al matrimonio della figlia Margherita con Giovanni figlio di Ferdinando d’Aragona e di Isabella di Castiglia, e quindi del figlio Filippo con Giovanna, terzogenita dei medesimi sovrani iberici – al trono di Spagna, sul quale doveva succedere nel 1516 il nipote Carlo. Nel 1515, con un altro doppio matrimonio assicurò alla casa d’Asburgo la successione ereditaria sulla Boemia e l’Ungheria.
Massimiliano ebbe sempre come obiettivo la vocazione universale dell’impero, senza però mai riuscire a darle un autentico contenuto politico. Più efficace e duratura fu invece l’opera riformatrice da lui avviata nell’amministrazione dello Erblande, i domini ereditari degli Asburgo, per i quali gettò le basi di un vero e proprio Stato con la creazione – sul modello, forse, di quel che aveva visto nel ducato borgognone del suocero – di una burocrazia stabile e centralizzata, direttamente dipendente dal sovrano. M., che pure nella sua missione presso la corte imperiale nella prima metà del 1508 si era ben accorto di come dietro Massimiliano non ci fossero, militarmente ed economicamente, che il Tirolo, la Carinzia e gli altri domini ereditari, non colse in lui, né forse poteva, quest’aspetto di pater Austriae, continuando a vederlo solamente come l’imperatore del Sacro romano impero, con tutte le debolezze e le contraddizioni che ciò comportava.
Nella considerazione machiavelliana, come peraltro in quella dei contemporanei italiani, salvo forse gli osservatori veneziani, Massimiliano fu dunque in primo luogo l’imperatore del Sacro romano impero; e pertanto, come in altri casi analoghi, il nome di lui sta nei testi del Segretario fiorentino per quella istituzione politica. Nondimeno, più di altri sovrani con i quali ebbe modo di intrattenersi personalmente e studiarne i comportamenti (per es., Luigi XII), Massimiliano suscitò in M. un forte interesse anche per il suo profilo umano e psicologico. Donde il fatto che nei suoi testi, parlando di lui, M. talvolta non analizza che le strutture e la politica dell’impero, e spesso con sagacia e acutezza davvero mirabili; ma talaltra, invece di essere quella trasparente antonomasia, Massimiliano è soprattutto un individuo particolare, del quale, in quanto sovrano, conviene osservare i comportamenti e la personalità per trarne più generali insegnamenti.
La prima importante menzione che di Massimiliano si trova negli scritti di M. è nel Discursus de pace inter imperatorem et regem, un frammento del gennaio-marzo 1500, dove però non è ancora possibile vedere l’uomo dietro l’istituzione: riprendendo le parole di un innominato personaggio incontrato alla corte francese, M. osserva che, politicamente, la debolezza e la povertà dell’imperatore sono di per sé stesse la debolezza e la povertà dell’impero in quanto impero, se pur non certo delle sue parti (cfr. § 6). Comunque, un più specifico giudizio sulla «natura» dell’imperatore, su quel suo carattere così instabile e imprevedibile, era corrente nelle cancellerie europee, nonché in quella fiorentina: «la natura del Re de’ Romani è varia et instabile etiam contro a’ propri commodi, et benché deliberi bene non vi sta poi sù», scrivevano, per es., Lucantonio degli Albizzi e Francesco Soderini il 24 marzo 1502 dalla corte francese (ASF, Sigg. Resp. 20, c. 113v). Valutazioni analoghe M. se le sentì confermare, allorché si recò alla corte dell’imperatore nel 1508, in un ragguaglio su Massimiliano fattogli da un diplomatico savoiardo, il quale gli aveva indicato come la prima e maggiore difficoltà per un osservatore nel cogliere le linee della politica imperiale fosse nella segretezza che regnava a corte: «questa nazione è secretissima, e lo ’mperadore esercita questo suo secreto in ogni qualità di cosa» (M. ai Dieci, 17 genn. 1508, LCSG, 6° t., p. 107). Ben presto nel corso della legazione «la larghezza del paese», ossia la vastità geografica ma anche l’eterogeneità politica della Germania, e i «secreti governi» di Massimiliano (cfr. Vettori [ma M.] ai Dieci, 8-23 febbr. 1508, Lettere, p. 162) si rivelano come i fattori che ostacolano la comprensione della politica imperiale, sebbene per altro verso M. comprenda rapidamente come la segretezza dell’imperatore non sia che il fragile schermo della sua mancanza di mezzi politici.
I termini essenziali del giudizio su Massimiliano, dove in qualche modo il piano umano acquisisce autonoma leggibilità andando a costituire la premessa per quella esemplarità negativa che il personaggio assumerà tanto nel Principe che nei Discorsi, sono messi a fuoco in una importante lettera scritta a meno di un mese dall’arrivo in corte:
Che l’imperatore abbi assai soldati e buoni, nessuno ne dubita; ma come li possa tenere insieme, qui sta el dubbio. Perché non li tenendo lui se non per forza di danari ed avendone da l’un canto scarsità per sé stesso, quando non ne sia proveduto da altri, il che non si può sapere; da l’altro sendone troppo liberale, si aggiugne difficultà a difficultà. E benché essere liberale sia virtù ne’ principi, tamen e’ non basta satisfare a mille uomini quando altri ha bisogno di ventimila, e la liberalità non giova dove la non aggiugne. Quanto a e’ governi sua [...] e’ non si può negare che non sia uomo sollecito, espertissimo ne le armi, di gran fatica e di gran esperienza, ed ha più credito lui che cento anni fa alcuno suo antecessore; ma è tanto buono ed umano signore che viene ad essere troppo facile e credulo (Vettori [ma M.] ai Dieci, 8 febbr. 1508, LCSG, 6° t., pp. 152-53).
Dalla «povertà» dell’imperatore pur, come dirà altrove, nell’immensità delle sue entrate, alla sua debolezza politica quale riflesso della struttura multipolare dell’impero; dall’incostanza e anche insipienza che ne rendono non solo imprevedibili gli atti, ma anche irrazionali e controproducenti, indebolendone la reputazione, al suo grande valore d’uomo d’arme e di sovrano giusto e «umano», seppure a tal punto che finisce per essere troppo accessibile e persino credulo: i lineamenti del complesso e ambivalente ritratto machiavelliano di Massimiliano, che stringe l’uomo all’istituzione, abbozzando anche una movenza trattatistica intorno al tema della «liberalità», sono già tutti in questa lettera, la quale, firmata da Vettori come di consueto in questa legazione, è però per buona parte di pugno di Machiavelli. Tale ritratto sarà sviluppato e perfezionato da M. nel Rapporto di cose della Magna (in partic. §§ 24-37) e quindi nel più breve, e per buona parte centrato proprio sulla personalità di Massimiliano, Discorso sopra le cose della Magna e sopra l’imperatore (in partic. §§ 2-5), mentre Massimiliano non entra affatto come individuo (ed è certo significativo) nel posteriore Ritratto delle cose della Magna.
In ogni caso M. costruisce un giudizio nel quale la «natura» dell’imperatore è chiaramente l’altro fattore, con la peculiare struttura politica dell’impero, che impedisce di mettere a frutto lo straordinario potenziale politico e militare di cui pur Massimiliano dispone, annullando le molte qualità che potrebbero farne un principe «ottimo»: «Ha infinite virtù; e se temperasse quelle 2 parti sopraddette, sarebbe un uomo perfettissimo, perché gli è perfetto capitano, tiene il suo paese con iustizia grande, facile ne le audienze, e grato, e molte altre parti da ottimo principe» (Rapporto di cose della Magna, § 46). In effetti, aveva asserito poco prima,
considerato e’ fondamenti sua, quando e’ se ne sapessi valere, e’ non sarebbe inferiore ad alcun potentato cristiano [...]. Potrebbe [...] se fusse uno re di Spagna, in poco tempo, far tanto fondamento da sé che gli riuscirebbe ogni cosa. [...] Ma lui, con tutte le soprascritte entrate, non ha mai un soldo, e, che è peggio, e’ non si vede dove e’ se ne vadino (§§ 25-30).
«Uomo gittatore del suo sopra tutti gli altri che a’ nostri tempi o prima sieno stati» lo definirà un anno dopo, aggiungendo che
è vario, perché oggi vuole una cosa e domani no; non si consiglia con persona e crede ad ognuno; vuole le cose che non può avere, e da quelle che può avere si discosta: e per questo piglia sempre i partiti al contrario (Discorso sopra le cose della Magna e sopra l’imperatore, §§ 2-3).
Quest’ultimo giudizio era attribuito nel Rapporto a uno dei primi consiglieri di Massimiliano, Luca Rinaldi: nel Discorso M. lo assume direttamente sotto la propria responsabilità, per tornare a restituirlo a Rinaldi nel Principe. Nel mettere insomma a fuoco le conseguenze politiche prodotte dall’indole caratteriale di Massimiliano, M. osserva che essa dà luogo a due fondamentali e parimenti esiziali difetti politici: la prodigalità e l’incapacità di fruire avvedutamente del consiglio altrui. Limite, quest’ultimo, che a sua volta si declina negli ulteriori aspetti della vulnerabilità all’adulazione e della credulità.
Nel ritratto di Massimiliano delineato durante la legazione in Tirolo del 1508 e assestato negli scritti sulla Germania immediatamente successivi, si intravvedono in filigrana due distinti capitoli del Principe, dei quali il sovrano asburgico è l’indiscusso eroe negativo, una volta non nominato, e una volta tale che, avendolo M. nominato, da solo basta a reggere tutta l’esemplificazione offerta in quel capitolo.
Se infatti nel cap. xvi del Principe consacrato alla liberalità e alla parsimonia, il profilo di Massimiliano appare chiaramente nel rovescio dell’esemplificazione moderna, tutta in positivo («Ne’ nostri tempi noi non abbiamo veduto fare gran cose se non a quelli che sono tenuti miseri: li altri, essere spenti», xvi 7; e si ricordi che proprio parlando dell’imperatore nella legazione del 1508 M. aveva riflettuto sulla «liberalità»), successivamente, nel cap. xxiii, che tratta dei modi in cui la permeabilità all’adulazione non solo rivela una specifica debolezza caratteriale nel principe, ma ne mina profondamente l’azione perturbandone le decisioni, M. non richiama che un unico esempio, quello appunto dell’imperatore. Nel delineare la logica e le dinamiche che devono presiedere al virtuoso comportamento principesco nella scelta dei consiglieri e nel modo di servirsene, schivando la «peste» dell’adulazione che avvelena le corti, M. è perentorio: «Chi fa altrimenti, o precipita per li adulatori o si muta spesso per la variazione de’ pareri: di che ne nasce la poca esistimazione sua» (Principe xxiii 6). E a tale proposito, nessuno meglio di Massimiliano può fornire esemplificazione di chi abbia fatto «altrimenti»:
Pre’ Luca, uomo di Massimiliano presente imperadore, parlando di sua Maestà, disse come e’ non si consigliava con persona e non faceva mai di cosa alcuna a suo modo. Il che nasceva dal tenere contrario termine al sopraddetto; perché lo imperadore è uomo secreto, non comunica e’ sua disegni, non ne piglia parere: ma come nel metterli in atto si cominciano a conoscere e scoprire, gli cominciano a essere contradetti da coloro che lui ha d’intorno, e quello, come facile, se ne stoglie; di qui nasce che quelle cose che lui fa uno giorno distrugge l’altro, e che non si intenda mai quello che si voglia o che disegni fare, e che non si può sopra le sua deliberazioni fondarsi (Principe xxiii 7-8).
Dunque, come aveva ben compreso fin dai tempi della legazione in Tirolo, non è certo per una questione di segretezza il fatto che di Massimiliano «non si intenda mai quello che si voglia o che disegni fare», ma per autentica incapacità di decisione politica.
L’incostanza dell’imperatore e quindi la sua sostanziale inaffidabilità politica, dopo essere state richiamate nel corso di varie analisi nella corrispondenza con Vettori del 1513 (per es., e con giudizi assai crudi, nelle lettere del 29 apr., del 10 e del 26 ag.), sono evocate in un luogo dei Discorsi (II xi 3) con un procedimento retorico piuttosto raro in M., quasi una sorta di esempio non storico ma potenziale: tanto sono ormai proverbiali quei suoi difetti, che il nome di Massimiliano è sufficiente per fornire l’adeguato commento a un episodio narrato da Livio, in cui si mette in guardia nei confronti di alleati dal nome eventualmente prestigioso e altisonante, ma che in realtà non sono in grado o hanno ragioni per non voler mettere a disposizione le proprie forze.
Bibliografia: H. Wiesflecker, Kaiser Maximilian I. Das Reich, Österreich und Europa an der Wende zur Neuzeit, 5 voll., Wien-München 1971-1986; H. Wiesflecker, Maximilian I. Die Fundamente des habsburgischen Weltreiches, Wien-München 1991. Sul giudizio machiavelliano si vedano: M. Brosch, Machiavelli am Hofe und im Kriegslager Maximilians I., «Mitteilungen des Instituts für österreichische Geschichtsforschung», 1903, 24, pp. 87111; F. Chabod, Scritti su Machiavelli, Torino 1964, pp. 344-46; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 1° vol., Il pensiero politico, Bologna 1993, pp. 255-67.