TROISI, Massimo
– Nacque a San Giorgio a Cremano (Napoli) il 19 febbraio 1953. Sesto e ultimo figlio di Alfredo e di Elena Adinolfi, ferroviere lui, casalinga lei, crebbe in una famiglia unita e numerosa.
Se l’infanzia trascorse tranquilla, l’adolescenza fu più travagliata, tra le difficoltà a scuola (frequentò senza successo un istituto per geometri) e una salute minata da febbri reumatiche e scompensi cardiaci. A quindici anni iniziò a calcare le scene del teatrino della chiesa di Sant’Anna a Torre del Greco, insieme ad alcuni amici tra cui Raffaello Arena, più noto come Lello, futuro compagno di cabaret, di televisione e di cinema. Palestra artistica per definizione, l’esperienza nella prima compagnia teatrale servì per superare le timidezze di carattere, recitare alcuni classici della comicità napoletana (Eduardo De Filippo, Antonio Petito, Raffaele Viviani ecc.), lavorare sul corpo e sulla maschera (gli adattamenti erano in stile pulcinellesco), sperimentarsi nei primi tentativi di scrittura per la scena.
Dopo la prematura scomparsa della madre, nel 1971, nonostante le insistenze paterne per terminare gli studi e fare il concorso per entrare in ferrovia, Troisi si gettò a capofitto nel mondo del teatro. Erano gli anni successivi al Sessantotto e il panorama artistico era attraversato da aneliti avanguardisti e rivendicazioni sociali e politiche. Fu spontaneo e necessario, per la compagnia del teatrino parrocchiale, cercare una sede più grande – individuata in un ex garage a San Giorgio a Cremano – e fondare un centro di aggregazione giovanile. Insieme a concerti, spettacoli per bambini, mostre d’arte, farse, mercati delle pulci e così via, il nuovo gruppo teatrale chiamatosi Rh-Negativo portò in scena anche alcune pièces originali. La prima fu Crocifissioni d’oggi per la quale Troisi curò scrittura e regia (insieme a Peppe Borrelli): si trattava di una serie di quadri dedicati a questioni spinose come l’emigrazione al Nord, i diritti delle minoranze, l’aborto. Con un nuovo nome, Centro Spazio Teatro, l’ex garage divenuto ormai ritrovo artistico di tutta la comunità sangiorgese iniziò a inserire in cartellone anche numeri di cabaret. Gli sketch scritti da Troisi con l’aiuto di Lello Arena e poi di Enzo Purcaro (in arte Decaro), unitosi al gruppo in un secondo momento, erano brevi atti unici ispirati a fatti di cronaca o a eventi di costume. Giochi di parole, ritmo incalzante e situazioni surreali costituivano lo scheletro su cui si sarebbe edificata la loro comicità futura.
Prima della consacrazione teatrale e televisiva, Troisi dovette tuttavia sottoporsi a un’operazione al cuore visto il peggioramento delle sue condizioni di salute. Data la delicatezza dell’intervento, la sostituzione di una valvola mitralica venne eseguita, nell’aprile del 1976, da una équipe di cardiologi del Methodist Hospital di Houston. Al ritorno in Italia, Massimo entrò in una nuova compagnia teatrale che gli amici di sempre – Lello Arena, Enzo Decaro, Pino Calabrese e Umberto Tommasselli – avevano nel frattempo costituito: I Saraceni. Ben presto però Calabrese e Tommasselli si sfilarono e i tre superstiti, forse per via del maggiore affiatamento o di una formazione più agile, ottennero rapidamente successo. Tra la fine del 1976 e l’inizio del 1977 il gruppo presentò un nuovo spettacolo intitolato Non si ride di solo pane in alcuni teatri campani. Poi, in primavera, grazie a una serie di fortunate coincidenze, giunse l’ingaggio del teatro Sancarluccio di Napoli dove nelle due settimane di cartellone il seguito di pubblico crebbe a dismisura. Ad aprile I Saraceni, nel frattempo rinominatisi La Smorfia in omaggio alla cabala partenopea, si esibirono al teatro La Chanson di Roma, dove il loro spettacolo restò in programma per ben tre mesi. A settembre fu la volta di Torino dove parteciparono alla trasmissione radiofonica Cordialmente dall’Italia e poi al programma televisivo Non Stop, senza contare gli spettacoli notturni al Centralino, uno dei teatri off più vitali della città. Il 1978 fu un crescendo di affermazioni. Troisi scrisse un nuovo spettacolo intitolato Così è (se vi piace), omaggiando Luigi Pirandello, portato in tournée in diversi teatri della penisola (dal Valle di Roma al ritorno al Sancarluccio di Napoli, dal Verdi di Salerno all’Instabile di Genova, dal Ciak di Milano al Petruzzelli di Bari passando per Lecce, Brindisi, Matera, Perugia, la Versilia ecc.). In aggiunta vi furono nuove apparizioni televisive per il varietà La sberla e per una puntata di Domenica In condotta da Corrado e dedicata alla nuova comicità italiana. La consacrazione definitiva arrivò pochi mesi dopo quando Pippo Baudo scelse La Smorfia come partner comico per Luna Park, la trasmissione del sabato sera della RAI. A quel punto il repertorio del trio era collaudato e alcuni sketch seguivano ritmi vertiginosi specialmente per le abitudini televisive del tempo. L’Annunciazione, il dialogo con San Gennaro, l’Arca di Noè, il commissariato e così via: Troisi era sempre il fulcro comico delle gag, impersonando di volta in volta personaggi timorosi e rancorosi, timidi e crudeli, beffardi e opportunisti. Insomma reinterpretò e aggiornò – pur senza dichiararlo – la maschera tragicomica di Pulcinella.
Il rapido e improvviso successo portò allo scioglimento della Smorfia. Divergenze caratteriali con Decaro, ambizioni artistiche incompatibili, ricerche di nuovi stimoli: quale fossero le vere ragioni della separazione, Troisi stava ormai volgendo da qualche tempo lo sguardo verso il cinema. In effetti in quel periodo le proposte per il debutto sul grande schermo arrivarono numerose, la maggior parte delle quali intenzionata a sfruttare l’onda lunga del successo televisivo. Tuttavia, tra copioni che non funzionavano e produttori improvvisati, nel comico partenopeo si fece strada ben presto l’idea di scrivere di proprio pugno e recitare in prima persona personaggi e storie che appartenessero al proprio background familiare. Nacque così, un po’ in sordina, Ricomincio da tre (1981), storia di Gaetano, un timido ragazzo di San Giorgio a Cremano che decide di lasciare il paese per andare a vivere al Nord. Aiutato dall’amico Mauro Berardi nella ricerca di un produttore, dalla fidanzata Anna Pavignano, da Ottavio Jemma e Vincenzo Cerami nella stesura dello script, da Umberto Angelucci e Sergio D’Offizi nella cura della regia (perché divenne chiaro che l’intera responsabilità artistica sarebbe finita nelle sue mani), affiancato sul set dal sodale Lello Arena e da altri amici, Troisi confezionò un piccolo film capace di adattare il ritmo serrato della recitazione da varietà a quello più disteso della narrazione cinematografica. Anche in questo caso il successo fu clamoroso: campione di incassi di quella stagione, la pellicola ottenne vari riconoscimenti tra cui quattro Nastri d’argento e due David di Donatello.
A dispetto dei trascorsi teatrali e televisivi, che non rinnegò mai, Troisi trovò nel cinema una dimensione ideale per rendere più sottile e sfumata la propria comicità e per lavorare meglio su uno degli aspetti che già ai tempi della Smorfia sembrava prioritario: la ricoloritura del gesto e della parola attraverso lo scardinamento autoironico e metariflessivo delle regole della rappresentazione. Si pensi al mediometraggio Morto Troisi, Viva Troisi! (1982), un mockumentary sulla sua morte che anticipa di pochi mesi lo Zelig di Woody Allen, costruito su finte interviste, found footage (spezzoni di film e apparizioni televisive), caricature delle convenzioni di genere; oppure a No grazie, il caffè mi rende nervoso (regia di Lodovico Gasparini, 1982), dove interpretò la parte di se stesso, minacciato e poi ucciso da un maniaco; o ancora a Scusate il ritardo (1983) dove, attraverso il personaggio di Vincenzo, innamorato di Anna, ma incapace di trattenerla a sé, lavorò sulla figura dell’inetto, rendendola ancora più ombrosa, paurosa e svogliata di quanto la tradizione del cinema comico italiano avesse già fatto. Si pensi soprattutto a Non ci resta che piangere (1984) firmato insieme a Roberto Benigni, nuovo campione di incassi, caratterizzato da un continuo gioco di smascheramenti dei meccanismi della gag e da uno straordinario e irriverente grammelot tosco-napoletano. Il dispositivo comico fu così efficace da trasformare la pellicola in un cult: il bidello Mario (Troisi) e l’insegnante Saverio (Benigni) si ritrovavano, senza spiegazione, nella Toscana rinascimentale dei Medici, costretti a un difficile ambientamento in un nuovo/vecchio mondo all’interno del quale il solito disagio dei personaggi di Troisi risultò ancora più lancinante e divertente.
Se durante la prima metà degli anni Ottanta trame, ambienti e caratteri servirono soprattutto a sfruttare la napoletanità contagiosa dell’attore/regista, tutta giocata tra la fisicità asciutta e l’indolenza di un Eduardo e il capovolgimento semantico della lingua di un Totò, sul finire del decennio e in quello successivo le sue opere si fecero viceversa più intimiste e introspettive, con una comicità continuamente contrappuntata da tonalità malinconiche e dolceamare. Fu il caso di Le vie del Signore sono finite (1987), film ambientato durante gli anni del fascismo e incentrato sulla storia di un barbiere che non cammina per una malattia psicosomatica causata da una pena d’amore. Fu pure il caso di Pensavo fosse amore... invece era un calesse (1991) dove, con Gaetano, un ristoratore di Napoli legato sentimentalmente a Cecilia, Troisi ritornò al prototipo dell’indeciso in amore, la cui pigrizia costituisce un cinico controcanto alla vana ricerca di felicità degli altri personaggi. In tutti questi lavori, ma anche nelle tante presenze nei programmi nazional-popolari di quel periodo, dove dimostrava grande abilità nel gestire i tempi televisivi (con Baudo, Maurizio Costanzo, Gianni Minà, Renzo Arbore, senza contare le partecipazioni al Festival di Sanremo), Troisi si costruì un idealtipo che osservava, con disincanto, imbarazzo e un po’ di insofferenza, un’Italia a due facce: una dimentica del passato per via della crescita economica, del rampantismo, del consumismo sempre più diffuso; l’altra rinchiusa in un passato/presente di assistenzialismo, fine delle ideologie (quella del comunismo in primis), una corruzione così pregnante da portare all’implosione della prima Repubblica e allo scoppio di Tangentopoli.
Fu, tuttavia, nelle interpretazioni di film altrui che Troisi trovò una profondità recitativa a suo modo spiazzante e inedita, riconosciuta dalla critica con una Coppa Volpi nel 1989, una candidatura agli Oscar nel 1994 e altri importanti riconoscimenti. Stiamo parlando in particolare dei personaggi che Ettore Scola gli affidò nei tre film Splendor (1989), Che ora è? (1989) e Il viaggio di Capitan Fracassa (1990) e di quello che gli cucì addosso, pochi anni dopo, Michael Redford in Il postino (1994), quando emerse, con grande forza, la fragilità del suo corpo attoriale, sempre più scavato, inerme e sofferente. Ad accentuare i caratteri del registro tragico furono ragioni sia interne, sia esterne ai film. Tra le prime va rammentata l’importanza di essere guidato da registi di grande esperienza, integrato in produzioni ambiziose, accompagnato sul set da attori come Marcello Mastroianni o Philippe Noiret, bravi a lavorare su silenzi e sfumature. Tra le seconde, per così dire autobiografiche, potremmo ricordare le corrispondenze tra le parabole narrative del cinema e alcune esperienze di vita di Troisi: una vita sentimentale più disordinata (dopo un lungo sodalizio professionale e sentimentale con Anna Pavignano, Troisi si impegnò in alcune relazioni con donne dello spettacolo e modelle); uno stato di salute che tornò a essere precario specialmente dopo il 1993, tanto da rendersi necessaria una nuova operazione al cuore.
Gli ultimi mesi di vita di Troisi furono in effetti particolarmente difficili. L’intervento chirurgico, che si svolse di nuovo a Houston, non andò bene: in sala operatoria ebbe un infarto e fu costretto a rimanere in ospedale per più di un mese e mezzo. Durante la lunga degenza gli fu prospettata la necessità di un trapianto, ma la produzione del Postino era ormai in fase avanzata e l’attore decise di terminare il film prima di ritornare in ospedale. Lo sforzo fu tuttavia troppo gravoso per il suo fisico.
Morì il 4 giugno 1994 a causa di un nuovo attacco cardiaco, a soli 41 anni, a casa della sorella a Roma. Aveva appena terminato le riprese svolte tra Salina, Procida e Pantelleria.
La prima mondiale alla Mostra internazionale del cinema di Venezia del 1994, il successo di pubblico tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, le cinque candidature agli Oscar, tra cui anche quella per la (sua) migliore interpretazione furono un premio di consolazione troppo magro per compensare il dolore di una fine così prematura. La stampa e il pubblico avevano dovuto dire addio a una delle figure più importanti della comicità napoletana del Novecento, capace di far apprezzare in tutta Italia e, da ultimo, anche all’estero, forme dialettali, coloriture, giochi semantici, tempi comici propri di una lunga tradizione di rappresentazione della vita degli umili e degli ultimi.
Fonti e Bibl.: A. Coluccia, Scusate il ritardo. Il cinema di M. T., Torino 1996; M. Hochkofler, Comico per amore. La favola bella e crudele di M. T., Venezia 1996; G. Sommario, M. T. L’arte della leggerezza, Roma 2004; A. Pavignano, Da domani mi alzo tardi, Roma 2007; T. Sciddurlo, Il linguaggio dell’anima. Il cinema di M. T., prefazione di C. Bolli, Perugia 2007; Per M. T. Saggi, ricordi, riletture, a cura di S. Aulicino - S. Iorio, Atripalda 2010; R. Troisi - L. Ippoliti, Oltre il respiro. M. T., mio fratello, Pavona di Albano Laziale 2011; Le vie di T. sono infinite, a cura di V. Caprara - P. Sabbatino - G. Scognamiglio, Napoli 2012; M. T. Pulcinella senza maschera, a cura di D. Longoni, Milano 2017; M. Hochkofler, Caro Massimo, Milano 2019.