Matematici in guerra: la polemica fra Newton e Leibniz
Anche i matematici, quando litigano, non se le mandano a dire. È quello che è successo nella più famosa polemica scientifica dell’età moderna, che vede coinvolti da una parte Isaac Newton e dall’altra Gottfried Leibniz. Oggetto della querelle è nientemeno che la priorità nell’invenzione dell’analisi infinitesimale su cui si è fondato lo sviluppo di buona parte della matematica a partire dal Settecento.
Nel 1661 Newton entra al Trinity College di Cambridge per intraprendere i suoi studi scientifici. Poco dopo, lo scoppio della peste a Londra e nei dintorni lo costringe a interrompere gli studi e a far ritorno a casa, dove nel biennio 1665-66 getta le basi del calcolo differenziale e integrale. In un decennio scrive le sue principali opere sul calcolo: il De Analysi per aequationes numero terminorum infinitas (1669), il Methodus fluxionum et serierum infinitarum (1671) e il Tractatus de quadratura curvarum (1676). Ma vittima di un carattere che teme e non sopporta le critiche, Newton ne rinvia la pubblicazione di almeno un trentennio.
Nel frattempo, Newton diventa uno studioso di fama e viene nominato professore lucasiano di matematica a Cambridge. È anche al centro di una fitta rete di relazioni scientifiche. Tra gli altri, nel 1676 entra in contatto epistolare con un giovane tedesco che, dopo gli studi in diritto e filosofia, sembra avere intrapreso la carriera diplomatica. Leibniz aveva già pubblicato il De arte combinatoria (1666) e inventato una macchina calcolatrice, ma i suoi studi matematici sono più recenti, sicuramente accelerati da un viaggio compiuto a Londra nel 1673. Indirettamente, tramite comuni conoscenti, chiede informazioni e delucidazioni sul calcolo a Newton che risponde affabilmente, con quelle che vengono ora indicate con first e second letter, non nascondendo i contenuti delle proprie ricerche. Anche la risposta di Leibniz è cortese e fornisce un quadro abbastanza veritiero delle sue conoscenze d’allora.
Si tratta per il momento di un normale scambio di informazioni e opinioni tra due ricercatori interessati a un comune argomento, sia pure con un diverso periodo di studi alle spalle e una diversa consapevolezza dei problemi sul tappeto. La situazione cambia nel 1684 con la pubblicazione da parte di Leibniz dell’articolo Nova methodus su un periodico edito in Germania, gli «Acta Eruditorum». Lo scritto contiene i principi del calcolo nella versione leibniziana. Il calcolo è naturalmente lo stesso, ma l’ispirazione, gli approcci, la terminologia e le notazioni di quelli che saranno tra poco i protagonisti della polemica sono diversi. Newton rivela un atteggiamento più empirico. I fondamenti del suo calcolo saranno via via presentati sotto forme non sempre identiche, così come cambieranno i termini impiegati (momenti, flussioni, prime e ultime ragioni) ma rimarrà costante il riferimento all’esperienza fisica, alla velocità. La sua è una matematica del moto che tratta con intervalli di tempo finiti che potenzialmente diventano sempre più piccoli. Sono le serie lo strumento matematico privilegiato che permette di effettuare questo passaggio che, nelle varie versioni, in qualche modo anticipa il concetto di limite. Leibniz è invece più sistematico e geometrico, non utilizza né precorre alcuna idea di limite ma tratta direttamente con quantità infinitesime. Non deve giustificare la procedura per cui quantità finite diventano evanescenti ma l’esistenza matematica di grandezze assegnate dal rapporto differenziale come infinitamente piccole (il cui corrispettivo a livello filosofico sono le monadi in quanto particelle elementari di materia) che poi algebrizza come ordinarie quantità finite in base a un principio di continuità per cui il termine finale di ogni transizione gode delle stesse proprietà dei termini che l’hanno generato. Al di là delle differenze, quello che viene maggiormente percepito dalle due rispettive “scuole” è che si tratta della stessa algebrizzazione, basata su una comune fondamentale intuizione che può essere così espressa in termini moderni: tutta una serie di problemi (ricerca dei massimi e dei minimi, delle tangenti, delle velocità ecc.) richiede l’uso delle derivate, cioè di rapporti incrementali generati da un incremento sempre più piccolo attribuito alla variabile indipendente; il calcolo delle aree e dei volumi viene invece realizzato ricorrendo agli integrali, laddove i due procedimenti – di derivazione e di integrazione – sono strettamente correlati, risultando l’uno l’inverso dell’altro.
Dopo la pubblicazione dell’articolo sugli «Acta Eruditorum», Newton comincia a sospettare che Leibniz abbia abbondantemente approfittato delle notizie contenute nella first e nella second letter per confezionare il suo scritto e figurare così come l’inventore di un calcolo che Newton aveva concepito ben 20 anni prima (anche se non aveva mai pubblicato i suoi risultati). Nei Principia Mathematica (1687) aggiunge allora uno scolio che, all’interno dell’opera, non ha nessun altro scopo se non quello di cominciare ad avanzare la sua priorità: «Quando, nelle lettere scambiate tra me e l’espertissimo geometra G.W. Leibniz dieci anni orsono, io indicai di essere in possesso di un metodo per determinare i massimi e i minimi, per tracciare le tangenti e svolgere operazioni analoghe che servivano per i termini irrazionali così come per quelli razionali, nascosi lo stesso metodo in lettere anagrammate che esprimevano tale sentenza: “Data ogni equazione che comporta quantità fluenti, trovare le flussioni, e viceversa”; quella persona famosa replicò che anch’egli aveva scoperto un metodo di questo genere e me lo rivelò; differiva poco dal mio a parte le parole e la annotazione». Non è più il clima cordiale dello scambio di lettere del 1676, ma la polemica non è ancora scoppiata. Ad accenderla vent’anni dopo non saranno i diretti protagonisti, quanto alcuni tra i principali esponenti delle loro “scuole”.
Nell’entourage leibniziano è il matematico svizzero Johann Bernoulli a insinuare per primo il dubbio che le opere dei matematici inglesi non mettano sufficientemente in evidenza i meriti di Leibniz e che Newton abbia radicalmente innovato e approfondito il suo calcolo solo dopo l’articolo sugli «Acta Eruditorum». È un sospetto che per il momento circola privatamente, mentre la risposta che arriva dall’Inghilterra è pubblica con il matematico svizzero Nicolas Fatio de Duillier che, per risollevare l’onore di Newton, scosso dall’enorme successo del calcolo leibniziano, non ci pensa due volte ad accusare Leibniz di plagio. La fama del matematico tedesco sarebbe del tutto immeritata perché, al di là della forma in cui è stata poi presentata, la grande invenzione è storicamente inglese. La risposta di Leibniz, pubblicata nel 1700, non tira in ballo Newton ed è ancora pacata «perché sarebbe uno spettacolo ridicolo vedere uomini dotti che professano gli ideali più elevati scambiarsi insulti come pescivendoli». I matematici inglesi però non demordono. Mentre la tardiva pubblicazione del Tractatus de quadratura curvarum (1704) di Newton convince Leibniz che forse Johann Bernoulli non aveva tutti i torti con i suoi dubbi, il fisico scozzese George Cheyne scrive nel 1703 che «tutto ciò che è stato pubblicato da altri [...] è solamente una ripetizione o un facile corollario di quanto Newton molto tempo fa comunicò ai suoi amici o al pubblico». Nel 1708, un altro acceso sostenitore newtoniano – lo scozzese John Keill – ribadisce l’accusa di comportamento fraudolento nei confronti del matematico tedesco che avrebbe semplicemente copiato le idee di Newton «dopo che ne ebbe mutato il nome e il simbolismo». Leibniz trova il comportamento britannico – almeno quello di Cheyne e Keill – chiaramente denigratorio e decide che è il momento di chiedere pubbliche scuse, portando la disputa al livello della diplomazia internazionale e protestando formalmente con la Royal Society (di cui è membro) con due lettere dei primi mesi del 1711. Si aspetta che Newton, e quindi la Royal Society da lui diretta, si dissoci dalle posizioni più oltranziste, ma le sue lettere non sortiscono l’effetto desiderato. Keill ribadisce con forza la convinzione che Leibniz non si sia comportato onestamente dal momento che non ha riconosciuto i meriti di Newton e il suo contrattacco, letto durante una riunione della Royal Society, viene trasmesso a Leibniz senza che la società se ne dissoci ufficialmente. La stessa Royal Society stilerà un rapporto, pubblicato con gli estratti dei documenti più rilevanti e conosciuto come Commercium Epistolicum, che condanna Leibniz come un plagiario colpevole di avere nascosto la propria conoscenza delle idee altrui.
Anche la risposta dei “continentali” non si fa attendere e la polemica continuerà per vari anni con diversi episodi. Gli effetti della querelle saranno di medio-lungo termine. La mancata accettazione dell’invenzione dell’analisi infinitesimale realizzata indipendentemente da Newton e Leibniz, con reciproche influenze ma anche con diversi orientamenti, ha portato a una rottura tra i matematici continentali e quelli britannici che si è protratta per più di un secolo, con il conseguente isolamento di questi ultimi, per via del successo incontrato dai metodi analitici di Leibniz, e il mancato sviluppo della loro tradizione matematica.