Materia soffice
L’espressione materia soffice (soft matter) viene utilizzata per descrivere un vasto insieme di materiali, apparentemente anche molto diversi, le cui caratteristiche unificanti verranno discusse più avanti. Questi materiali hanno spesso proprietà intermedie tra lo stato solido e liquido, presentandosi a volte come solidi disordinati e molto deformabili, altre volte come fluidi parzialmente ordinati e molto viscosi. Senza farne un elenco completo, si citano alcuni esempi importanti introducendo qualche elemento terminologico.
I polimeri sintetici (macromolecole o polimeri) costituiscono un capitolo importante della materia soffice, basti pensare, infatti, che alcuni di essi sono tra le sostanze chimiche più prodotte in assoluto: per es., il polietilene (PE), il polipropilene isotattico (iPP), il polistirene atattico (aPS), che trovano moltissime applicazioni come materie plastiche o in alcuni casi anche come fibre tessili, le cui strutture molecolari sono descritte nella figura 1. Il PE è rappresentato in una conformazione transplanare, con l’eccezione del legame C−C centrale in una conformazione gauche che fa cambiare direzione alla catena. Nell’iPP, la catena principale porta, sempre nello stesso lato, un gruppo metile (−CH3) ogni due atomi di carbonio. Nell’aPS, gruppi fenilici (−C6H5) si trovano indifferentemente da un lato o dall’altro della catena principale. A causa di questa irregolarità strutturale, l’aPS è incapace di cristallizzare e a temperatura ambiente si trova allo stato vetroso, a differenza del PE e dell’iPP che sono semicristallini.
Le più comuni modalità di polimerizzazione portano a ottenere lunghe catene polimeriche, in cui le unità monomeriche sono regolarmente concatenate. In fase di sintesi, è possibile controllare la lunghezza e quindi il peso molecolare medio delle macromolecole (MW). In generale, questa variabile ha una notevole incidenza sulle proprietà finali del materiale, quale, per es., la resistenza meccanica. I materiali citati sopra sono omopolimeri, essendo costituiti da unità monomeriche tutte dello stesso tipo. È pure possibile copolimerizzare monomeri di due o più tipi diversi, per ottenere nuovi materiali macromolecolari con caratteristiche molto diverse da quelle di un’ipotetica miscela degli omopolimeri corrispondenti (due polimeri diversi, per quanto chimicamente simili, sono raramente miscibili). Limitiamoci al caso più semplice degli omopolimeri. Il loro uso come materiali presuppone normalmente che essi si trovino allo stato solido, che può essere a sua volta di tipo semicristallino (PE, iPP) o amorfo (aPS). Nella categoria dei materiali soffici vengono normalmente compresi questi stessi polimeri allo stato fuso o in soluzione. Esistono tuttavia anche polimeri, quali, per es., la gomma naturale e i siliconi, che passano dallo stato fuso a quello solido (semicristallino o amorfo) solo a temperature di gran lunga inferiori alla temperatura ambiente. Questo li rende utilizzabili come elastomeri, dopo averli reticolati mediante un processo di vulcanizzazione. Essendo entrambi amorfi, lo stato vetroso e quello fuso sono molto simili dal punto di vista strutturale: essi si differenziano nettamente per la mobilità delle macromolecole, che è assai minore nello stato vetroso rispetto al fuso. Il passaggio tra uno stato e l’altro si chiama transizione vetrosa (glass transition), di cui si tratterà in seguito. Per il momento, ci si limita a dire che essa avviene a una temperatura caratteristica di ogni polimero, comunemente indicata con Tg. La Tg dell’aPS è nettamente superiore alla temperatura ambiente (circa 100 °C), mentre la Tg di un buon elastomero può essere molte decine di gradi centigradi inferiore allo zero.
Per quanto riguarda i cristalli liquidi, ne esistono vari tipi classificabili in primo luogo in base al fatto di essere costituiti da sostanze a basso peso molecolare o polimeriche. Circoscrivendo l’ambito alle prime, un requisito di base affinché un composto molecolare possa mostrare un comportamento liquido-cristallino è che abbia una forma nettamente anisotropa, per es., a bacchetta o a disco. Ulteriori classificazioni sono possibili in base al tipo e al grado di ordine delle molecole all’interno del materiale (nematico, smettico o altro, fig. 2). Rispetto alla fase isotropa, che corrisponde allo stato di liquido convenzionale e che non ha ordine orientazionale né posizionale delle molecole, la fase nematica è caratterizzata da un ordine orientazionale, senza alcun ordine posizionale, mentre la fase smettica ha ordine sia orientazionale sia posizionale, per la formazione di strati molecolari lungo una direzione dello spazio. In generale, l’ordine strutturale di tali composti è intermedio tra quello di un solido cristallino e quello di un liquido vero e proprio, e per questo motivo gli stati liquido-cristallini vengono chiamati mesofasi e le loro molecole mesogene. Transizioni tra questi stati sono possibili variando le condizioni esterne, per es. la temperatura (cristalli liquidi termotropici). Le applicazioni dei cristalli liquidi negli schermi di computer e televisori sfruttano la possibilità di orientare velocemente le loro molecole applicando un debole campo elettrico, così da generare un mezzo otticamente anisotropo.
Micelle e membrane si formano in seguito all’aggregazione e autorganizzazione di sostanze anfifiliche (dette anche anfipatiche), nelle quali all’interno di ciascuna molecola sono presenti almeno un frammento idrofobo (per es., una o due catene idrocarburiche) e un frammento idrofilo (gruppi funzionali ionici o fortemente polari). Esempi sono i comuni detergenti (saponi, detersivi) e i fosfolipidi (fig. 3). Sostanze di questo tipo sono dette anche tensioattive, in quanto tendono a disporsi all’interfaccia tra una fase polare e una apolare (per es., acqua e olio) riducendone la tensione superficiale. Al di sopra di una certa concentrazione, esse tendono ad aggregarsi in strutture quali – in funzione della loro struttura molecolare, della natura del solvente e della temperatura – micelle (goccioline di fase apolare disperse in un mezzo polare, tipo olio in acqua), micelle inverse (il contrario, acqua in olio) o doppi strati. Molecole con una sola coda idrocarburica formano preferenzialmente micelle, mentre fosfolipidi con due code in preferenza doppi strati. Una tipica membrana cellulare è formata da una miscela di fosfolipidi simili alla dipalmitoilfosfocolina (con catene di 14-20 atomi di carbonio e teste che portano una carica negativa localizzata attorno al fosforo e una carica positiva localizzata attorno all’azoto, essendo quindi polari ma elettricamente neutre), unitamente a quantità variabili di colesterolo e a proteine di membrana che assicurano il trasporto di segnali e materia attraverso la membrana (fig. 3). I fosfolipidi tendono appunto a organizzarsi in doppi strati che possono successivamente formare superfici sferiche chiuse, dette vescicole o liposomi. In tutte queste strutture le molecole sono parzialmente ordinate, un po’ come in un cristallo liquido. Vengono appunto chiamate cristalli liquidi liotropici, in quanto la loro formazione dipende dalla presenza di un solvente con opportuna concentrazione.
Le sospensioni colloidali sono sistemi bifasici, in cui particelle submicrometriche di un certo materiale (dimensioni comprese tra 10 e 1000 nm) sono disperse in un mezzo continuo. Possono essere ulteriormente classificate, considerando lo stato di ciascuna delle due fasi (solido, liquido o gassoso). Esempi sono le emulsioni (liquido in liquido: latte, maionese), le schiume o aerogel (gas in liquido o in solido: polistirolo espanso, panna montata) e i sol (solido in liquido: senape, inchiostri). Per alcuni aspetti anche sospensioni di micelle sferiche, proteine globulari o addirittura virus, di cui si è parlato in precedenza, si possono considerare dei sistemi colloidali. Vari sono i modi per modulare le particelle: per es., se il mezzo disperdente è acquoso, è possibile modificare superficialmente le particelle mediante adsorbimento di molecole anfifiliche, o variando il pH e la concentrazione di sali disciolti in soluzione. In funzione della concentrazione e delle interazioni tra le particelle, queste possono essere ben disperse nel mezzo (se si respingono) o tendere ad aggregarsi per poi precipitare (se si attraggono); per le particelle solide, questo processo di aggregazione e precipitazione viene chiamato flocculazione. Nel caso della maionese, per es., goccioline di olio sono sospese con concentrazione molto alta in un mezzo acquoso nel quale è contenuta la parte proteica; la lecitina, presente in alta concentrazione nel tuorlo, è costituita da fosfolipidi anfifilici che rivestono la superficie delle gocce d’olio, stabilizzando in tal modo l’emulsione contro la loro aggregazione.
I gel sono materiali sostanzialmente solidi, ma al tempo stesso altamente deformabili, essendo costituiti al 90-99% da un liquido. Nei casi più comuni, questo liquido è l’acqua, e si parla allora di idrogel. Un gel può essere di natura macromolecolare o colloidale. Un gel macromolecolare è costituito da un reticolo di catene polimeriche sintetiche o naturali, saldate l’una all’altra da legami chimici (forti, praticamente permanenti) o da interazioni non covalenti (più deboli e quindi labili) e rigonfiate da un solvente. Un esempio è la comune gelatina alimentare, che si ottiene per trattamento del collagene, una proteina presente nelle ossa e nel tessuto connettivo di animali. In questo caso le interazioni tra le catene proteiche sono non covalenti, come dimostrato anche dal fatto che la gelatina viene liquefatta e si riforma in modo reversibile quando viene scaldata e poi raffreddata. In alternativa, la matrice solida può essere costituita da particelle colloidali. In questo caso, le interazioni tra le particelle devono essere abbastanza forti da saldarle l’una all’altra, ma non al punto da causarne flocculazione che equivarrebbe a una espulsione del solvente e quindi a un collasso del gel.
L’elenco precedente potrebbe facilmente continuare citando vernici, lubrificanti, adesivi, membrane polimeriche, bolle di sapone e così via. Esso dimostra la varietà e l’enorme importanza dei materiali soffici. Le loro applicazioni interessano l’industria alimentare, cosmetica, farmaceutica, elettronica e meccanica, oltre naturalmente quella chimica e petrolifera di base. Le ragioni che autorizzano a classificare questi materiali apparentemente così diversi all’interno di un’unica categoria sono almeno due. In primo luogo, le distinzioni tra questi materiali non sono mai così nette, e spesso essi vengono utilizzati congiuntamente uno all’altro. È possibile, per es., sintetizzare copolimeri con monomeri chimicamente molto diversi (eventualmente, uno polare e uno apolare), il che li rende simili ai tensioattivi a basso peso molecolare. In opportune condizioni, delle particelle colloidali di dimensioni regolari e forma anisotropa possono dare fasi liquido-cristalline analoghe a quelle dei composti a basso peso molecolare. Le proprietà di un cristallo liquido convenzionale possono essere modulate disperdendovi delle particelle colloidali. Infine, è possibile ottenere notevoli incrementi nelle prestazioni meccaniche di un polimero disperdendo al suo interno delle particelle colloidali rigide (per es., silice o nerofumo per il rinforzo degli elastomeri). Un secondo criterio per l’assegnazione alla stessa categoria, più profondo del primo, ha origine dalla fondamentale unitarietà nel comportamento di questi materiali. Il fisico francese Pierre-Gilles de Gennes (1932-2007), da molti considerato il padre della materia soffice, ha svolto un ruolo chiave nel riconoscere questa unitarietà e stabilire ponti con altri rami della fisica. Con la motivazione di aver rivelato che i metodi sviluppati per studiare i fenomeni di ordinamento in sistemi semplici possono essere generalizzati a forme più complesse della materia, in particolare ai cristalli liquidi e ai polimeri, nel 1991 fu insignito del premio Nobel per la fisica; de Gennes e la sua scuola hanno contribuito ad avvicinare molti scienziati, sia teorici sia sperimentali, a un campo di cui si riconosceva l’interesse applicativo ma non quello speculativo.
Implicazioni con la materia vivente
Le macromolecole biologiche comprendono proteine, acidi nucleici (DNA, DeoxyriboNucleic Acid; RNA, RiboNucleic Acid) e polisaccaridi. Le proteine per es., schematizzando al massimo, si possono considerare copolimeri costituiti da venti unità di base (gli amminoacidi naturali) connesse tra loro secondo una sequenza ben definita, che è espressione del codice genetico codificato all’interno del DNA di ciascun organismo. Da questa sequenza dipende la struttura tridimensionale assunta dalla proteina mediante ripiegamento (folding), che determina a sua volta il modo in cui essa interagisce a livello molecolare con l’ambiente circostante. L’enorme varietà di funzioni che vengono svolte dalle proteine (supporto strutturale, catalisi enzimatica, trasporto di sostanze attraverso la membrana cellulare, conversione dell’energia chimica in lavoro meccanico, regolazione dell’espressione dei geni ecc.) è resa possibile grazie alle potenzialità offerte da questo schema di base, selezionate nel corso di quattro miliardi di anni di evoluzione della vita sulla Terra. Molte di tali macromolecole svolgono la loro funzione attraverso processi di riconoscimento molecolare assai specifici e selettivi (interazioni enzima-substrato, proteina-DNA, proteina-proteina ecc.). Queste interazioni possono portare alla formazione di strutture anche molto grandi e complesse mediante processi di autoassemblaggio (self-assembly), di cui si sta iniziando soltanto ora ad apprezzare i dettagli strutturali. Esemplare è il caso dei virus, di cui esistono varie forme e tipi: in generale, sono dei complessi costituiti da un’unità centrale di acido nucleico (DNA o RNA, a seconda dei casi) e da un rivestimento esterno proteico (capside). Le interazioni che saldano l’unità centrale al rivestimento sono reversibili e rispondono agli stimoli ambientali, come dimostrato dal fatto che è possibile generare in vitro dei virus perfettamente operativi a partire dagli acidi nucleici e dalle proteine purificate, e che gli stessi si disassemblano ogniqualvolta riescono a penetrare una cellula per infettarla.
Esiste una stretta relazione tra i materiali soffici e la materia vivente. Sicuramente non tutti i materiali soffici sono viventi, mentre è vero il contrario: le strutture viventi, dal livello subcellulare fino agli organi degli organismi pluricellulari, sfruttano a proprio vantaggio le peculiari caratteristiche dei materiali soffici, di cui sono in gran parte costituiti (biopolimeri, fosfolipidi ecc.). Un organismo vivente, anche il più semplice quale una cellula procariota o addirittura un virus, è materia soffice in uno stato altamente organizzato e al tempo stesso dinamico. Questa organizzazione dinamica è indispensabile per svolgere tutta una serie di funzioni fondamentali, quali replicarsi in base al proprio disegno genetico, assorbire, convertire e utilizzare energia dall’ambiente circostante, percepire e rispondere agli stimoli ambientali (temperatura, acqua, luce, cibo ecc.). Per quanto i particolari ci possano sfuggire, possiamo essere certi che non è un caso che le strutture biologiche siano costruite con materiali soffici, in virtù della loro capacità di autoorganizzarsi e rispondere in maniera dinamica a variazioni anche minime delle condizioni esterne.
Autoassemblaggio e comportamento reologico
I materiali soffici sono noti anche come fluidi complessi. Il fatto che questi materiali siano in qualche modo anche dei fluidi, o che possano passare facilmente dallo stato fluido a quello solido e viceversa attraverso minime variazioni di composizione chimica o delle condizioni esterne, dovrebbe essere evidente in base agli esempi già citati. In che cosa consiste dunque la loro complessità, ossia ciò che li distingue dai fluidi semplici quale l’acqua? In primo luogo, il fatto che spesso non si ha a che fare con sostanze o miscele semplici, ma con miscele di due o più componenti (polimero e solvente; acqua, olio e tensioattivo ecc.) soggette a delicati equilibri di fase. Le conseguenze disastrose di un controllo imperfetto su questi equilibri di fase sono dimostrate dall’impazzimento della maionese.
Un secondo motivo di complessità e quindi di interesse per i materiali soffici, è dato dal fatto che spesso essi possiedono una struttura che emerge da fenomeni di autoassemblaggio. Questo può essere definito come l’organizzazione spontanea e reversibile di unità molecolari in strutture ordinate mediante interazioni deboli, non covalenti. Si è già accennato al caso dei virus; lo stesso folding delle proteine globulari è un esempio di autoassemblaggio intramolecolare, essendo guidato da interazioni non covalenti tra gli amminoacidi che portano i più polari di loro a disporsi alla superficie (a contatto con l’acqua) e i più idrofobi a rimanere seppelliti all’interno. Altri esempi sono l’ordine liquido-cristallino, l’organizzazione di molecole anfifiliche in micelle e doppi strati, o la microseparazione di fase nei copolimeri a blocchi. Generalmente questa struttura emerge alla scala mesoscopica, intermedia tra quella microscopica (<1 nm) e quella macroscopica (>10 μm). Nel dominio mesoscopico sono generalmente trascurabili tutti i fenomeni quantistici che caratterizzano gli atomi e le singole molecole. Allo stesso tempo, tuttavia, non è lecito assumere che valga la fisica classica dei corpi continui. La natura discreta della materia può avere ancora degli effetti importanti a questa scala. Le interazioni intermolecolari alla base di questa strutturazione mesoscopica sono generalmente deboli, e quindi suscettibili di rompersi e riformarsi in modo reversibile a temperatura ambiente. Queste interazioni (elettrostatiche, di dispersione, idrofobiche a legami idrogeno ecc.) sono nettamente distinte dai legami chimici, che sono forti e quindi determinano in modo praticamente permanente la struttura interna delle molecole o di un materiale duro quale un metallo o un materiale ceramico. Il fatto che la struttura mesoscopica di un materiale soffice non sia definita in modo permanente consente a tali materiali di fluire se sollecitati in questo senso, o rispondere in modo dinamico anche a minime variazioni di condizioni esterne quali la temperatura (solidificazione della gelatina), deboli campi elettromagnetici (orientazione delle molecole in un cristallo liquido), o il pH e la salinità del mezzo acquoso circostante (flocculazione o dispersione di un colloide).
In effetti, i materiali soffici hanno una struttura e un comportamento dinamico anche in assenza di sollecitazioni esterne. Questo è dovuto ai moti di agitazione termica, per cui porzioni di macromolecola o particelle colloidali scambiano continuamente la loro energia in virtù degli urti con le molecole del mezzo circostante. Questi urti avvengono con frequenze dell’ordine di 1012 Hz (qualche urto ogni ps), e ciascuno di essi comporta una variazione casuale dell’energia dell’ordine di ±kBT (ossia 0,026 eV=4,1×10−21 J a temperatura ambiente T=298 K, essendo kB la costante di Boltzmann). Tale energia termica è confrontabile con la tipica energia delle interazioni di non legame tra una coppia di atomi. La più semplice manifestazione dei moti di agitazione termica è il moto browniano, per cui una particella colloidale è in continuo moto casuale che la fa diffondere e le impedisce di sedimentare, se la sua dimensione è abbastanza piccola e la sua densità non è troppo diversa da quella del solvente. Pur essendo impossibile prevedere la traiettoria di una singola particella colloidale, è molto semplice descrivere in modo statistico il comportamento di un insieme di particelle. La legge della diffusione, formulata da Albert Einstein nel 1905, dice che lo spostamento quadratico medio di un insieme di particelle è direttamente proporzionale al tempo:
⟨[r(t)−r(0)]2⟩=6Dt [1]
essendo r(∙) la posizione di una generica particella a un certo istante (t oppure 0), e le parentesi ⟨∙⟩ una media su molte traiettorie di particelle diverse. La costante di proporzionalità D è il coefficiente di diffusione che è determinato dal rapporto tra le forze browniane (proporzionali a kBT, che favoriscono la diffusione) e le forze di attrito (proporzionali alla viscosità η del solvente e al raggio R della particella, che si oppongono a essa), secondo la legge di Stokes-Einstein:
kBT
D=--- [2]
6πηR
Un’altra manifestazione dei moti termici la troviamo nelle catene polimeriche che, oltre a diffondersi nello spazio, hanno anche dei moti diffusivi associati con i loro gradi di libertà interni (per es., la torsione dei legami carbonio-carbonio) che fanno fluttuare continuamente la loro conformazione. Facendo nuovamente riferimento alle micelle e al doppio strato lipidico rappresentati nella figura 3, si noti che i legami delle catene idrocarburiche assumono tutta una serie di conformazioni. Anche l’interfaccia con il mezzo acquoso non è così netta e ben definita e, se il doppio strato lipidico venisse osservato a una scala un po’ più grande, si noterebbe anche che questa interfaccia non è perfettamente planare, ma leggermente ondulata.
Un’ulteriore ragione di complessità nei materiali soffici è il loro comportamento reologico, che non è quasi mai banale. Per comportamento reologico banale intendiamo quello di un normale liquido, quale l’acqua o il miele. In questi fluidi, detti newtoniani, lo sforzo applicato σ è proporzionale alla velocità di deformazione γ·: σ=ηγ·, dove η è la viscosità del liquido. Sia lo sforzo sia la deformazione e la sua derivata rispetto al tempo sono in generale delle grandezze tensoriali ma, per semplicità, le abbiamo considerate scalari: la figura 4A illustra la loro definizione, nel caso di una deformazione di taglio (shear); il fluido è confinato tra due piastre parallele, poste a distanza d; la piastra superficiale ha area A e, sotto l’azione di una forza F, si muove con velocità v rispetto alla piastra inferiore, che è immobile. La viscosità di qualunque fluido – sia semplice sia complesso – dipende fortemente dalla temperatura, diventando praticamente infinita quando questa scende fino alla temperatura di transizione vetrosa Tg. In alcuni casi, un materiale soffice si comporta come un liquido molto viscoso o un solido molto deformabile, ma, molto spesso, non è né l’uno né l’altro. Per es., un polimero fuso quale il polietilene o il polistirolo (PS) si comporta come un fluido molto viscoso a basse velocità di deformazione, ma se è soggetto a una deformazione molto rapida ha una risposta elastica, simile a quella di una gomma reticolata, che tende a riportarlo alla sua forma originaria. La deformazione diviene irreversibile quando questa viene mantenuta abbastanza a lungo. Tale comportamento viene detto viscoelastico. Un altro esempio è rappresentato da un prodotto di largo consumo quale il dentifricio, che viene a volte definito un vetro soffice o, in modo più colloquiale, un solido facilmente spalmabile. In generale, si parla di un fluido non newtoniano quando non c’è più una relazione lineare tra lo sforzo e la velocità di deformazione. Spesso questo comportamento è modellizzabile con un’espressione del tipo σ=σ0+kγ·n, dove σ0 rappresenta l’eventuale sforzo di snervamento (yield stress) e n è un esponente diverso da 1. Di conseguenza, continuando a definire una viscosità efficace come rapporto tra sforzo applicato e velocità di deformazione, questa non è più una costante ma diventa una funzione del tipo ηeff=σ/γ·=σ0/γ·+kγ·n−1. Si parla di comportamento pseudoplastico (shear thinning) quando la viscosità decresce al crescere della velocità di deformazione (esponente n<1), di comportamento dilatante (shear thickening) nel caso contrario (esponente n>1); questi sono illustrati schematicamente nella figura 4B. Facendo sempre ricorso a un esempio comune, le vernici sono formulate in modo tale da avere comportamento pseudoplastico, e infatti scorrono facilmente sotto l’azione del pennello, mentre la loro viscosità cresce molto quando questa si arresta, il che è vantaggioso per evitare la formazione della non desiderata goccia. Anche il sangue, che in prima approssimazione è una sospensione molto concentrata di globuli rossi in un fluido newtoniano (il plasma), ha comportamento pseudoplastico. In generale, i comportamenti non newtoniani possono essere collegati a una qualche variazione nella struttura del fluido indotta dal flusso. Un esempio può essere l’allungamento e la rottura delle goccioline di un’emulsione, quando la velocità di deformazione supera un certo valore critico determinato dalla competizione tra le forze viscose e la tensione superficiale delle gocce. Un altro motivo di complessità nel comportamento reologico dei fluidi complessi si trova nell’evidenza che, superate certe velocità di deformazione, il flusso può risultare disomogeneo e non valgono più le solite condizioni al contorno tra il fluido e le pareti solide che lo confinano: fenomeni di shear banding e di wall slip (fig. 4A, caso ii) nei quali, differentemente da un fluido semplice newtoniano in moto laminare lento non turbolento (caso i), il flusso si struttura in bande con velocità di deformazione diverse e il fluido a contatto con le pareti non si muove in modo solidale con esse. Questo può complicare molto l’interpretazione di dati sperimentali, rispetto al caso di semplici fluidi newtoniani, anche per il fatto che la velocità di deformazione locale (microscopica) risulta diversa dalla velocità di deformazione globale (macroscopica).
Infine, i materiali soffici sono complessi in quanto si trovano spesso in stati di non-equilibrio, in cui possono permanere per tempi anche molto lunghi, essendo separati da stati termodinamicamente più stabili da alte barriere di energia libera. Un esempio sono gli stati di tipo vetroso, che possono essere ottenuti da un polimero fuso o da una sospensione colloidale attraverso una brusca variazione delle condizioni esterne (temperatura, pressione o concentrazione), in modo da evitare la cristallizzazione del materiale. Un altro esempio è costituito dai gel, la cui struttura e proprietà dipendono non solo dalle condizioni istantanee (concentrazione, pH, temperatura ecc.), ma anche da quelle al momento della loro preparazione. In generale si può dire che le proprietà di molti fluidi complessi dipendono da tutta la loro storia pregressa, ed è impossibile darne una descrizione completa indipendentemente dalla variabile tempo. Essi possono anche essere soggetti a vari fenomeni di invecchiamento (aging) che indicano un lento riarrangiamento strutturale verso stati con caratteristiche leggermente diverse (per es., un vetro con densità leggermente maggiore, oppure un’emulsione con goccioline di dimensioni mediamente più grandi). Questi fenomeni di invecchiamento non vanno quindi confusi con i fenomeni di degradazione chimica dovuti, per es., a lenti processi di ossidazione.
Ruolo dell’entropia
Da un punto di vista chimico-fisico, il comportamento dei materiali soffici dev’essere descritto in base alla struttura e alle interazioni tra le sue componenti elementari. Quando si pensa alla strutturazione di un sistema, si è naturalmente portati a pensare che questa sia possibile grazie allo stabilirsi di interazioni specifiche tra le sue componenti (legami covalenti, interazioni elettrostatiche, legami a idrogeno ecc.). Nel caso dei materiali soffici, però, questa visione meccanica è vera solo in parte. A causa della loro natura intrinsecamente dinamica, di cui si è già precedentemente parlato, le componenti di un materiale soffice (molecole, porzioni di macromolecole o particelle colloidali) non sono rigidamente vincolate a occupare una certa configurazione di minima energia, ma potranno trovarsi in un numero Ω di microstati molto grande. Il sistema che ne risulta ha sempre un’alta entropia. Ammettendo che i microstati siano numerabili e abbiano tutti praticamente la stessa energia, questa è data dalla relazione
S=kBlnΩ [3]
Per le leggi della termodinamica, la funzione che determina la stabilità relativa dei possibili macrostati di un sistema (per es., stato solido, liquido-cristallino o liquido isotropo per un sistema di molecole termotropiche, oppure il grado di deformazione di un materiale elastico) è l’energia libera di Gibbs G=H−TS∼E−TS (con ottima approssimazione, è possibile identificare l’entalpia H con l’energia interna E, se consideriamo solo le fasi condensate escludendo lo stato gassoso). In un materiale duro quale per es. un metallo, un semiconduttore o un ceramico, l’entropia è in prima approssimazione trascurabile. La durezza del materiale deriva dal fatto che qualunque tentativo di deformarlo si traduce in forte aumento dell’energia interna immagazzinata nei suoi legami chimici (covalenti, ionici, o metallici). Invece, in un materiale soffice, il termine di energia interna – o, più precisamente, la sua variazione in seguito a una deformazione oppure a un passaggio di stato – è confrontabile e in alcuni casi trascurabile rispetto al termine entropico (−TS).
Un esempio classico degli effetti entropici nei materiali soffici si ha nel caso dei polimeri liquidi. Consideriamo, per es., il PE allo stato fuso, avente formula [−CH2−]N (il numero N è tipicamente molto grande, da 1000 fino a più di 100.000). In primissima approssimazione, la forma globale assunta da una catena può essere specificata dando la distanza r tra le sue coda e testa. La struttura di minima energia per la catena corrisponderebbe allo stato completamente esteso con r=∣r∣≅Nl, essendo l=0,15 nm la lunghezza di un legame carbonio-carbonio. Infatti, nel polietilene o simili polimeri idrocarburici, ogni cambiamento di direzione prodotto per rotazione attorno a un legame C–C vale circa 1 kBT, a temperatura ambiente (fig. 1). Tuttavia, questa configurazione estesa ha una bassissima entropia, dal momento che si può realizzare in un unico modo. Le conformazioni più disordinate, in cui la catena segue un cammino casuale cambiando frequentemente direzione (ogni 5-6 atomi di carbonio, in un polimero flessibile quale il polietilene), hanno energie più alte ma in compenso hanno un’alta entropia. Si può dimostrare che la probabilità che la catena assuma una conformazione caratterizzata dal valore r del vettore testa-coda si distribuisce con legge gaussiana:
ΩN (r) 3 3r2
WN(r)=---=(----)3/2exp(−----) [4]
ΩN 2π ⟨r2(N)⟩ 2 ⟨r2(N)⟩
essendo ΩN il numero totale di conformazioni della catena, mentre ΩN(r) è il numero di conformazioni compatibili con il vincolo che la distanza sia pari a r. Nell’equazione [4], ⟨r2(N)⟩ è il valore quadratico medio della distanza tra gli estremi. Esso è dato da:
⟨r2(N)⟩≅Nl2 [5]
La distribuzione gaussiana introdotta con l’equazione [4] è molto importante nella descrizione dei fenomeni naturali perché si applica a tutti i casi in cui un certo evento è prodotto da un gran numero di fattori casuali e indipendenti tra loro. Non a caso la si ritrova anche nella descrizione del moto browniano. Infatti esiste una stretta analogia tra la conformazione delle catene in un polimero fuso e il moto di una particella browniana, che si può verificare osservando che le variabili t ed N svolgono ruoli analoghi nelle equazioni [1] e [5]. In questo senso siamo perfettamente autorizzati a dire che in un polimero fuso le catene seguono un cammino casuale.
Si può derivare dall’equazione [4] la forza necessaria per mantenere i due atomi alla distanza r:
d [lnW (r)] r
f(r)=−kBT-----=3kBT-- [6]
dr ⟨r2⟩
Si osservi che questa forza è proporzionale alla distanza come in una molla ideale, e che la costante di forza di questa molla è proporzionale alla temperatura assoluta, a dimostrazione che il fenomeno è puramente entropico. Generalizzando, si può dire che le forze necessarie per produrre una deformazione elastica sono all’incirca invarianti con la temperatura T nel caso dei materiali duri, mentre variano sensibilmente in un intervallo ristretto di T nel caso della materia soffice. Si vedrà che la linearità della forza con l’allungamento e la sua proporzionalità alla temperatura trovano diretta applicazione alla elasticità dei reticoli polimerici (gomme e gel).
Per i motivi appena discussi, i materiali soffici sono stati a volte definiti come il regno dell’entropia. Parlando, per es., dei cristalli liquidi e dei copolimeri a blocchi, si è anche sottolineata la capacità di molti materiali soffici di autorganizzarsi in strutture più o meno ordinate. Sorge un’apparente contraddizione, dovuta al fatto che l’entropia viene spesso considerata sinonimo di grado di disordine. In effetti, questo non è sempre vero. Un sistema ad alta entropia ha accesso a un alto numero di microstati entro tempi confrontabili con quelli di osservazione del sistema (quest’ultima precisazione è importante nel caso di sistemi con dinamica molto lenta, quali i vetri). In alcuni casi, un sistema può trovare il modo di aumentare il proprio numero di microstati – cioè la propria entropia – passando spontaneamente a uno più ordinato. I materiali soffici possono offrire alcuni esempi molto chiari di questo tipo di transizioni di fase guidate dall’entropia.
Un primo esempio di ordinamento entropico fu chiaramente identificato alla fine degli anni Quaranta, quando Lars Onsager (1903-1976) spiegò la comparsa di un ordine liquido-cristallino nelle sospensioni di Tobacco mosaic virus (TMV), al di sopra di una certa concentrazione critica. Oggi si conosce esattamente la struttura di questo virus: è una bacchetta di lunghezza L=260 nm e diametro D=18 nm. È costituito da una singola unità centrale di RNA contenente 6000 basi azotate, impaccato a elica per effetto dell’interazione con 2130 copie di un’unica proteina. Onsager non aveva informazioni così dettagliate sulla struttura del TMV, ma non ne aveva nemmeno bisogno per trarre le sue conclusioni. Affrontò il problema scrivendo un’espressione dell’energia libera di un sistema di filamenti rigidi e sottili, soggetti esclusivamente al vincolo di non potersi sovrapporre (interazioni di volume escluso). Questa energia libera è in effetti di tipo puramente entropico, essendo escluso a priori ogni effetto entalpico dovuto a interazioni attrattive tra le particelle. L’energia libera di Onsager è funzione di un parametro d’ordine orientazionale che esprime il grado di parallelismo tra le bacchette. Minimizzando l’espressione dell’energia libera rispetto a questo parametro d’ordine, egli riuscì a dimostrare il passaggio discontinuo (transizione di fase del primo ordine) da una fase isotropa a una fase nematica, quando la frazione in volume delle bacchette diventa pari a ϕtrans≅4D/L. In altre parole, il sistema si ordina con una perdita di entropia orientazionale, a fronte però di un guadagno in entropia posizionale, dal momento che le bacchette hanno minore probabilità di interferire una con l’altra quando sono parallele.
In anni più recenti, si è riconosciuta la generalità di questi effetti entropici. Per es., è stata osservata la cristallizzazione di particelle colloidali perfettamente sferiche e monodisperse, interagenti con un potenziale del tipo sfere dure (hard spheres). Anche in questo caso, per frazioni in volume ϕ>0,5, si è dimostrato che la fase cristallina ordinata ha in realtà un’entropia maggiore rispetto alla fase amorfa, nella quale le particelle sono totalmente bloccate in una configurazione disordinata.
Studi quali quelli appena descritti su sistemi colloidali modello hanno contribuito ad affinare le conoscenze di base sulla natura e la dinamica delle transizioni di fase, e sono tuttora attivamente perseguiti in diversi laboratori. In studi di tipo fondamentale sulla cristallizzazione o la transizione vetrosa, ci sono importanti vantaggi derivanti dal lavorare con particelle colloidali, invece che con sostanze a basso peso molecolare o polimeri. Un primo vantaggio deriva dalla possibilità di variare a piacere e in modo praticamente continuo l’intensità e il raggio d’azione delle interazioni tra le particelle, giocando su fattori quali la loro dimensione, la carica elettrica e l’adsorbimento di molecole anfifiliche alla loro superficie. Un secondo vantaggio deriva dalle dimensioni e dalla dinamica intrinsecamente lenta delle particelle, che ha consentito di usare tecniche quali la microscopia a forza atomica o la microscopia confocale per visualizzare direttamente e in tempo reale fenomeni quali la nucleazione e la crescita di fasi cristalline.
Leggi di scala
Viene qui nuovamente presa in esame la conformazione delle catene in un polimero fuso. La radice quadrata di ⟨r2 (N)⟩, denominata RN, ha le dimensioni di una lunghezza, ed è utile in quanto consente di stimare in modo facile e diretto le dimensioni medie di una catena polimerica. La seguente legge di scala (scaling law) riduce all’osso la dipendenza di RN dalla lunghezza di catena N:
RN∝N0,5 (catena in un liquido polimerico) [7]
I prefattori, che sono stati trascurati, dipendono dalla natura chimica del polimero. Invece l’esponente 0,5, che è uguale per tutte le macromolecole, è una manifestazione della universalità nel loro comportamento. L’analoga legge di scala per lo spostamento medio di una particella browniana è:
ΔR∝t0,5 (moto browniano) [8]
In realtà, nel sottolineare l’analogia tra conformazione di una catena polimerica e il moto browniano, abbiamo trascurato una differenza. Una catena polimerica, a differenza di una particella browniana, non potrà mai ripassare da un punto già visitato, perché questo comporterebbe una sovrapposizione tra segmenti diversi. Esiste quindi un vincolo di volume escluso. Tuttavia, in un polimero fuso, questo non modifica il risultato finale: le interazioni intramolecolari sono esattamente compensate da quelle intermolecolari, e quindi le catene polimeriche assumono comunque una conformazione imperturbata, caratterizzata dalla legge di scala [7]. Questo teorema di Flory è stato verificato sperimentalmente in modo convincente, mediante esperimenti di scattering di neutroni su fusi polimerici contenenti una piccola frazione di catene deuterate. Il discorso cambia quando il polimero viene disciolto in un buon solvente. Le sue catene assumono ancora una conformazione disordinata, ma non più imperturbata. Le catene si espandono in modo da soddisfare il vincolo di volume escluso (seguono dei self-avoiding walks), con una nuova legge di scala:
RN∝Nν(catena in un buon solvente) [9]
Il nuovo esponente fu inizialmente stimato da Paul John Flory (1910-1985) essere pari a ν=0,6, in base a un semplice calcolo che bilanciava l’energia di repulsione dei segmenti (che tende a espandere la catena) e l’entropia della catena (che si oppone all’espansione). Il valore esatto fu successivamente stimato pari a ν=0,588, in base a calcoli molto più complessi basati sul metodo del gruppo di rinormalizzazione, importato dalla teoria dei fenomeni critici (questi comprendono la transizione gas-liquido in prossimità del punto critico e la comparsa di ordine in un materiale ferromagnetico). Per gli scopi pratici, l’esponente ν=0,6 è sufficientemente accurato. La differenza tra gli esponenti 0,5 e 0,6 è solo apparentemente piccola. I suoi effetti diventano significativi con catene lunghe: quando N=10.000, per es., essa comporta un’espansione del raggio di un fattore 2,5, passando dallo stato fuso alla soluzione.
Queste leggi di scala sono importanti in quanto consentono di stimare o correlare in modo semplice altre proprietà, e qui se ne vuole dare un esempio. Gran parte del volume racchiuso da una catena polimerica in soluzione è in realtà occupato dal solvente. Infatti, in base all’equazione [9], il rapporto tra il numero di monomeri e il volume medio di una catena è dato da N/RN3≅N1−3ν≅N−0,8, che tende a zero quando N è molto grande. Questo fa di una catena polimerica un oggetto frattale. Considerazioni sulla probabilità di intersezione tra due oggetti siffatti portano alla conclusione che, per quanto siano in gran parte vuoti, una frazione apprezzabile di loro segmenti arriverà a toccarsi se i loro centri di massa vengono avvicinati. Ciascun contatto comporterà una debole interazione repulsiva, dell’ordine di 1kBT, ma a causa del loro grande numero l’interazione complessiva tra due catene risulterà molto superiore all’energia termica. Quindi, da questo punto di vista le catene si comportano come se fossero sfere incompenetrabili di raggio RN. Questo ha interessanti conseguenze per quanto riguarda la pressione osmotica Π di una soluzione polimerica. Se cP è la concentrazione del polimero (numero di catene per unità di volume), si ha:
Π 1
--=cP (1+-B2cP+...) [10]
kBT 2
Il primo termine fra parentesi rappresenta il caso ideale, in cui tutte le interazioni tra catene sono trascurabili. Il secondo coefficiente del viriale B2, che rappresenta le deviazioni dall’idealità dovute all’interazione tra coppie di catene, è proporzionale al loro volume di interazione, e quindi B2∝N3ν. Vediamo che il secondo termine correttivo diventa confrontabile con il primo quando cP∝N−3ν, quindi a concentrazioni molto basse quando N è grande. A questa concentrazione, le catene si toccano senza però sovrapporsi. Oltre questa concentrazione, si ha una soluzione semidiluita in cui le catene iniziano a compenetrarsi. Aumentando ulteriormente la concentrazione del polimero, la conformazione media delle catene assomiglierà sempre di più allo stato imperturbato caratterizzato dalla [7] – nel limite in cui la quantità di solvente diventa piccola rispetto al polimero ricadiamo nel caso di un fuso – e la pressione crescerà con la concentrazione secondo leggi di scala ricavabili in base ad altre considerazioni. In conclusione, si può osservare che il polimero è un oggetto che cambia la sua natura frattale a seconda della concentrazione.
Gomme e reticoli polimerici
Un importante capitolo della materia soffice, collegato ai polimeri sia naturali sia sintetici, è rappresentato dalle gomme e dai reticoli polimerici. Anche i gel macromolecolari sono sostanzialmente dei reticoli polimerici che inglobano una gran quantità di solvente, in rapporto al loro peso asciutto. Una gomma viene ottenuta da un elastomero mediante un processo di vulcanizzazione o reticolazione, che può essere effettuato per trattamento con zolfo o perossidi organici. Storicamente, la prima gomma vulcanizzata – cioè praticamente utilizzabile – è stata la gomma naturale proveniente dal lattice della pianta Hevea brasiliensis, il cui processo di vulcanizzazione risale alla metà del 19° sec. (in realtà, popolazioni dell’America Centrale e Meridionale erano già a conoscenza di procedimenti analoghi in età precolombiana). La reticolazione crea dei legami chimici permanenti tra le catene polimeriche. Il sistema passa dallo stato di liquido viscoso a quello di solido facilmente deformabile, costituito da un reticolo tridimensionale di catene interconnesse in un’unica, enorme macromolecola. Si ha, quindi, un esempio di come una minima variazione chimica del sistema – la formazione di un numero relativamente piccolo di legami tra le catene – possa produrre un drammatico cambiamento delle proprietà macroscopiche. A livello più microscopico, tuttavia, i singoli segmenti delle macromolecole mantengono una discreta mobilità, simile a quella che avevano nell’elastomero prima della reticolazione. Bisogna anche osservare che, con ottima approssimazione, una gomma non cambia il proprio volume sotto deformazione, e in questo senso è più simile ai liquidi che ai solidi convenzionali, che tendono invece a contrarsi.
Ogni deformazione applicata al campione è reversibile perché le catene non possono allontanarsi l’una dall’altra a causa delle giunzioni, ma può essere molto grande se le giunzioni sono abbastanza diluite nel campione (anche di un fattore dieci, in allungamento). Dalla linearità della forza esercitata dalle singole catene che collegano giunzioni vicine tra loro, discende che anche un campione macroscopico risponde linearmente sotto deformazione di taglio:
σ≅nkBT×γ [11]
Il prefattore G≅nkBT è il modulo elastico, che significativamente risulta proporzionale al numero n di catene per unità di volume che collegano giunzioni vicine tra loro e alla temperatura assoluta T. Valori tipici di G sono dell’ordine di 105 Pa per una gomma e 102 Pa per un gel, contro 1011 Pa per un materiale duro quale un metallo o un ceramico.
Quando un campione di gomma vulcanizzata è portato ad alte deformazioni – in particolare sotto forte allungamento – compaiono fenomeni non lineari, che possono essere ricondotti a due categorie: nella prima, quando le catene si avvicinano alla loro massima estensione (Nl), la forza retrattile cresce più rapidamente di quanto previsto dalla descrizione gaussiana delle catene; nella seconda le catene, diventando tra loro parallele e perdendo entropia (perché sono più ordinate), tendono a cristallizzare in forma estesa, con un aumento della resistenza meccanica. In conclusione, entrambi i fenomeni portano a un aumento della resistenza alla rottura del campione.
Questi fenomeni non lineari sono più accentuati nel caso di reticoli costituiti da filamenti più rigidi delle comuni catene polimeriche. Un esempio di notevole importanza biologica e tuttora oggetto di intensi studi è rappresentato dal citoscheletro e dai suoi modelli in vitro. Questa struttura è presente in tutte le cellule eucariote, dove svolge diverse funzioni: conferisce alla cellula una stabilità meccanica, le consente di muoversi o modificare la sua forma in risposta a stimoli esterni (chimici, meccanici ecc.), partecipa attivamente alla divisione cellulare, organizza e razionalizza il funzionamento del citoplasma associandosi a proteine motore per il trasporto di materiale al suo interno. I componenti principali del citoscheletro sono i filamenti di actina, i microtubuli e i filamenti intermedi. Ciascuno di essi è costituito dall’associazione reversibile di unità proteiche, e sono quindi dei polimeri di polimeri. Per es., le fibre di actina (F-actina) sono dei filamenti elicoidali con un diametro di circa 7 nm, che si autoassemblano a partire da un’unica proteina globulare (la G-actina) fino a raggiungere lunghezze confrontabili con le tipiche dimensioni di un’intera cellula eucariota (10-50 μm); hanno una lunghezza di persistenza di 17 μm, che qualitativamente rappresenta la distanza sotto la quale sono trascurabili le distorsioni dovute ai moti termici, e il filamento si comporta come una bacchetta rigida. Per confronto, un polimero idrocarburico quale il polistirene ha una lunghezza di persistenza di circa 1 nm (equivalente a 6-7 legami chimici), ed è per questo ritenuto flessibile. Anche il DNA ha una lunghezza di persistenza di soli 50 nm. Siccome la lunghezza della F-actina è simile alla sua lunghezza di persistenza, non è assimilabile né a una catena flessibile né a una bacchetta rigida, e si ha invece a che fare con una catena semiflessibile (semiflexible o wormlike chain, nel linguaggio della fisica dei polimeri). I filamenti di F-actina formano un reticolo tridimensionale, in cui i punti di giunzione tra due filamenti non sono legami chimici permanenti, ma delle altre proteine che interagiscono con loro in modo specifico e reversibile, consentendo a questo reticolo di ristrutturarsi in risposta a stimoli intra- o extracellulari.
Esperimenti reologici in vitro su modelli di questi reticoli hanno dimostrato che, in virtù della natura semiflessibile delle loro catene, sono in grado di formare dei gel meccanicamente stabili anche a frazioni in volume molto basse di F-actina (meno dello 0,01%, in condizioni ottimali); inoltre, a differenza di gomme e gel convenzionali quali, per es., la poliacrilammide, hanno un comportamento nettamente non lineare, avendo la peculiarità di irrigidirsi già a gradi di deformazione relativamente modesti (strain hardening). È logico quindi pensare che queste caratteristiche siano importanti anche per assicurare il funzionamento ottimale del citoscheletro in vivo.
Aspetti dinamici
Si è già sottolineato il fatto che il comportamento dei materiali soffici non può essere pienamente compreso indipendentemente dalla variabile tempo, e che questi materiali spesso possiedono una memoria a lungo termine della loro storia precedente. Questo obbliga a prendere in considerazione aspetti dinamici quali la velocità con cui le molecole si diffondono nel materiale, o il modo in cui questo risponde a sollecitazioni meccaniche con frequenza o velocità di deformazione diverse. Tra tutti i possibili esempi, ci si limiterà a discuterne due tratti dalla fisica dei polimeri.
I polimeri assumono facilmente lo stato vetroso, dove il disordine strutturale si accoppia alla sostanziale soppressione dei moti di scorrimento tra le molecole. In verità questo stato è possibile anche per sostanze non polimeriche come l’acqua; tuttavia nel caso dei polimeri lo stato vetroso è ottenibile a temperature Tg più alte (anche superiori alla temperatura ambiente) e con raffreddamento non particolarmente brusco. Un caso di notevole interesse pratico è rappresentato dal polistirolo atattico, comunemente usato allo stato espanso negli imballaggi e come isolante termico e acustico. Questo polimero non può cristallizzare perché gli anelli fenilici spuntano dalla catena principale in modo disordinato (fig. 1), a differenza dei polimeri stereoregolari come il polipropilene isotattico ottenuto da Giulio Natta (1903-1979), e quindi è condannato a permanere allo stato amorfo. A temperature sufficientemente alte (superiori a 150 °C) il polimero si comporta come un normale liquido – in genere molto viscoso – ma, quando la temperatura si avvicina ai 100 °C, improvvisamente la massa si irrigidisce. Il sistema si è contratto a un punto tale che le macromolecole non riescono più a muoversi (transizione vetrosa). In realtà, a differenza dei classici vetri inorganici (per es., silicati di sodio e calcio), i vetri polimerici conservano una relativa morbidezza, dovuta al fatto che i segmenti e i gruppi laterali delle macromolecole mantengono una sia pur limitata possibilità di movimento. Questo consente loro di assorbire e dissipare meglio l’energia degli urti, rendendoli meno fragili dei vetri inorganici.
Una caratteristica importante della transizione vetrosa è la sua sensibilità alla tecnica di misura e alla velocità di raffreddamento del materiale. In generale, diminuendo la velocità di raffreddamento – cioè aumentando il tempo della misura – diminuisce anche il valore misurato della Tg. Questo viene interpretato dicendo che la transizione vetrosa si verifica quando il tempo di rilassamento del materiale (definibile come il tempo necessario perché gli atomi di un liquido perdano memoria del proprio stato scambiandosi posizione) diviene uguale al tempo di osservazione sperimentale. Ecco quindi l’importanza della variabile tempo. In questo senso, la transizione vetrosa non risulta essere una comune transizione di fase termodinamica, ma è piuttosto una transizione di tipo cinetico. I dettagli di come questo avvenga non sono stati ancora completamente chiariti, e infatti la transizione vetrosa è tuttora oggetto di molte ricerche. Anche i sistemi colloidali che, come si è accennato all’inizio di questo saggio, mostrano degli analoghi fenomeni di arresto strutturale, si prestano molto bene a questo tipo di studi fondamentali.
Il secondo esempio riguarda la viscosità e il coefficiente di diffusione delle macromolecole nei polimeri fusi, al di sopra della Tg. Si intende che la viscosità di cui si parla è quella misurata a basse velocità di deformazione (i polimeri liquidi hanno generalmente comportamento pseudoplastico, fig. 4). Trascurando fattori quali la temperatura o la natura chimica delle unità monomeriche, la dipendenza di queste grandezze dalla lunghezza N delle macromolecole può essere descritta facendo ricorso a delle leggi di scala. Si è trovato che ogni polimero è caratterizzato da una lunghezza di catena caratteristica chiamata Ne (il pedice e sta per entanglement, v. oltre), a cavallo della quale queste leggi di scala cambiano drammaticamente: per il coefficiente di diffusione,
D∝- 1 Nper N<Ne, D∝- 1 N2perN>Ne [12]
per la viscosità,
η∝N per N<Ne, η∝N3,4 per N>Ne [13]
Nel caso del polistirene atattico, per es., Ne corrisponde a circa 160 unità monomeriche. La forte dipendenza della viscosità dal peso molecolare per N>Ne (raddoppiando N, η aumenta di un fattore dieci) ha delle importanti conseguenza pratiche. In generale, per un manufatto in materiale plastico (per es., una sedia da giardino o il paraurti di un’auto), un aumento del peso molecolare si traduce in un miglioramento delle sue prestazioni meccaniche. Tuttavia questo manufatto dovrà essere prodotto mediante processi di estrusione o stampaggio del polimero allo stato fuso. Questo pone un limite ai pesi molecolari utilizzabili in pratica, perché valori troppo alti si tradurrebbero in un aumento di viscosità tale da rendere il polimero non più facilmente lavorabile.
Le osservazioni sperimentali riassunte dalle equazioni [12] e [13] hanno trovato una giustificazione teorica quantitativa a partire dal concetto di entanglement, che rappresenta un allacciamento temporaneo tra due catene. In un polimero fuso costituito esclusivamente da catene relativamente corte, queste sono libere di diffondere senza interferire troppo tra loro. Al di sopra della lunghezza Ne però, le catene iniziano ad aggrovigliarsi l’una con l’altra. Il numero di allacciamenti a cui è soggetta ciascuna catena è all’incirca pari al rapporto N/Ne. Ciascuno di essi rappresenta un vincolo che le impedisce di diffondere in direzione perpendicolare al proprio contorno. L’unico moto diffusivo che sopravvive è lo scorrimento della catena avanti e indietro lungo il proprio contorno, in un moto simile a quello di serpente (reptation). Questo equivale a dire che la catena è confinata in un tubo costituito dalle catene adiacenti. Ciascuna catena avrà perso la memoria del proprio stato iniziale solo dopo essere riuscita a diffondere completamente al di fuori di questo tubo, circostanza che potrà richiedere molto tempo. Questo è in accordo qualitativo con la forte depressione del coefficiente di diffusione e l’aumento ancora più forte della viscosità con il peso molecolare.
Prospettive per sintesi future
In questa trattazione dei materiali soffici sono stati tralasciati molti argomenti importanti (un esempio su tutti è costituito dai fenomeni interfacciali). Si sarebbe potuto argomentare sulla cartilagine, che fornisce una lubrificazione ottimale nelle articolazioni dell’uomo con dei bassissimi livelli di attrito, ma anche sulle proteine secrete da molluschi marini quali le cozze, che assicurano un’adesione molto stabile a qualunque tipo di superficie bagnata. In entrambi i casi, al momento non esistono materiali artificiali che possano eguagliarne le prestazioni. Molti degli attuali sforzi di ricerca nel campo della materia soffice sono indirizzati a capire la struttura e il funzionamento di specifici materiali di origine biologica, con l’idea di trarne ispirazione per produrre materiali artificiali con analoghe prestazioni.
A un livello più fondamentale e in una prospettiva di lungo termine, è viva la speranza che i concetti e le metodologie sviluppate nel campo dei materiali soffici possano contribuire a chiarire i meccanismi di funzionamento di strutture molto più complesse, quale un’intera cellula. La figura 5 illustra la struttura interna dell’organismo unicellulare più semplice e più ampiamente studiato da biochimici e biologi molecolari, il batterio dell’Escherichia coli. Si tratta di un disegno d’artista, prodotto però sulla base di un insieme di informazioni sperimentali sulla struttura delle singole proteine, organelli, membrane e così via: la parete cellulare è colorata in verde ed è costituita da due membrane concentriche saldate da proteine che le attraversano; un flagello si diparte dalla parete in direzione dell’esterno ed è azionato da un grosso motore molecolare. La zona citoplasmatica è colorata in blu e viola; le grandi molecole viola sono ribosomi, le piccole molecole a L sono RNA di trasporto e i fili bianchi sono RNA messaggero; gli enzimi sono colorati in blu; la regione in giallo è il nucleoide, contenente il DNA batterico avvolto attorno a dei nucleosomi.
Risulta chiaro che l’interno della cellula è molto affollato, ma anche altamente strutturato e organizzato. Come interagiscono tra loro tutti questi componenti, e come si integrano e coordinano le loro funzioni? Comprendere tali aspetti è forse la sfida scientifica del 21° sec., che al momento presenta difficoltà ancora rilevanti per poterla prevedere vinta oltre ogni ragionevole dubbio. Naturalmente, tale sfida è altamente multidisciplinare e richiederà contributi dalla biochimica, dalla biologia molecolare e strutturale, dalla fisiologia e dalla bioinformatica, oltre che dalla fisica statistica. Risulta comunque chiaro che la descrizione dal punto di vista atomico, ereditata dalla chimica e dalla fisica del 20° sec., potrebbe essere eccessivamente dettagliata per molti scopi. Uno scienziato dei materiali soffici tende naturalmente ad adottare una descrizione più a grana grossa ragionando, per es., in termini di intere proteine piuttosto che di singoli amminoacidi. Il linguaggio della materia soffice potrebbe essere utile per arrivare a una sintesi con l’opportuno grado di riduzionismo, tale da fornire un’adeguata visione d’insieme del funzionamento di un’intera cellula vivente.
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