materia (matera)
Questo termine, almeno nella specifica accezione filosofica, è adoperato da D. secondo i significati dottrinali ormai acquisiti da una lunga tradizione speculativa e nell'ambito della problematica tipica delle concezioni aristotelico-scolastiche. Prima di analizzare i singoli testi delle opere dantesche, sarà quindi opportuno segnare almeno le linee generali di tale tradizione, ricordando che, in questo come in altri casi, non è sempre agevole indicare con esattezza i rapporti tra le concezioni accettate da D. e le varie dottrine proprie di questo o quel filone della cultura scolastica alle quali attinse con notevole libertà e senza la preoccupazione di una precisa e rigorosa osservanza di ‛ scuola '.
Alle origini di tali dottrine sta indubbiamente il concetto aristotelico di m. come principio del tutto indeterminato che, nella sua realtà, non è in sé né " questo " né " quello ", ma può diventare " questo " o " quello ", giacché può essere determinato da qualsiasi forma; e, pertanto, questa " materia prima " costituisce insieme alla ‛ forma ' e alla ‛ privazione ' il principio universale di tutta la realtà corporea, sia nel mondo iperlunare che in quello sublunare. Questa m. prima non è di per sé intelligibile o conoscibile (Metaph. Z 10, 1036a); infatti la sua natura del tutto indeterminata impedisce che essa sia oggetto di conoscenza (Phys. III 6, 207); e pertanto può essere conosciuta solo in modo indiretto in rapporto con ciò che la determina e, cioè, con la ‛ forma ' la quale c'induce necessariamente a presupporre l'esistenza di un sostrato. La m. è dunque un principio potenziale, indeterminato, ma capace di ricevere le determinazioni; e, quindi, sebbene sia un ente, non s'identifica però con alcuno dei singoli enti particolari e determinati, né con alcuna delle determinazioni reali; anzi, in questo senso, essa è piuttosto un " non ente ", o, per dir meglio, non è un ‛ atto ' che possa essere ‛ in potenza ad altri atti ', bensì una pura, astratta " potenza ". Inoltre, la m. non è né ‛ quantità ', né ‛ qualità ', né qualsiasi altra categoria o principio da cui l'essere sia determinato (Metaph. Z 23, 1029a 20-21).
Simili conclusioni non escludono però che Aristotele abbia anche una certa concezione positiva della m., necessaria per indicare la funzione positiva esercitata da essa nei confronti dei ‛ composti ' e della loro costituzione ontologica. In questo senso, come scrive Aristotele (Phys. I 9, 192a), la m. è il " sostrato " di tutto ciò che esiste in natura (e da essa deriva alcunché essenzialmente e non accidentalmente), il fondamento in cui termina tutto quanto si corrompe o dissolve. Dalla riconosciuta necessità metafisica di un tale sostrato dipende poi logicamente la tesi aristotelica dell'eternità o ‛ non produzione ' della m. prima che corrisponde all'eternità del primo motore ed è, insieme con esso, l'immutabile presupposto del divenire e del perenne mutare di tutte le cose o realtà determinate. In questo senso, la m. e la forma realizzano, nell'ambito dell'esistenza naturale, il rapporto metafisico tra potenza e atto; la loro unione è universale e necessaria; né può esistere alcuna realtà la quale sia priva di m. e di forma. Anzi, come ribadisce Aristotele, la m. è m. della forma con lo stesso diritto e la medesima necessità per cui la forma è sempre forma della m.; e il divenire non è altro che il succedersi delle diverse ‛ forme ' nella materia. Sicché il ‛ sinolo ' di m. e di forma costituisce l'unica realtà effettuale e concreta, l' ‛ individuo in atto ' o questo qui ' (τόδε τι) o ‛ sostanza prima ' (οὐσία ἡ πρώτη).
Non possiamo ovviamente discutere le diverse interpretazioni del concetto aristotelico di m. proposte dai diversi commentatori ellenistici che chiosarono questi testi capitali della Metaphysica e della Physica, né le discussioni e le polemiche che emersero dalle analisi di filosofi spesso inclini a suggestioni platonizzanti. Giova però ricordare, per i riflessi che le sue dottrine ebbero indirettamente sulle discussioni filosofiche dell'alto Medioevo, la concezione della m. formulata da Plotino e presto largamente diffusa nella cultura greco-latina. Secondo Plotino la m. era, certo, il " sostrato " potenziale e indeterminato; ma questo carattere dell'indeterminatezza gli permetteva di concepire la m. sia come concetto o principio proprio del mondo intelligibile, sia come aspetto o carattere proprio del mondo sensibile. Nel primo punto di vista, la m. in quanto appartenente a una realtà dove tutto è essere, assumeva anch'essa le caratteristiche dell'ente; ma, nel secondo punto di vista, e in quanto opposta all'intelligibile, essa era piuttosto un " non ente ", o, addirittura, un ‛ male ' contrapposto al ‛ bene ' assoluto dell'essere. Mero indeterminato, pura negatività, la m. era insomma il " non essere " che limita l' ‛ essere ' (Enn. II 4, 14-16; VI 1, 26; III 7, 6).
Simili concezioni influenzarono solo in parte la dottrina agostiniana della m. nella quale sono presenti influenze aristoteliche e stoiche. E si comprende come dall'incrocio e dall'intreccio di così diverse ispirazioni filosofiche derivasse una concezione abbastanza generica ed elementare della m., molto diffusa nella cultura altomedievale, che, mentre poneva in tutte le cose create una propria m., identificava sostanzialmente il nesso potenza-atto con il rapporto tra m. e forma e giungeva così a concepire la realtà come costituita tutta di realtà ‛ composite ', in contrapposto all'unità essenziale di Dio, l'unico essere privo di m. dotato di un'assoluta simplicitas.
La dottrina aristotelica della m. ebbe invece larga fortuna nella cultura filosofica araba dove la diffusione dei testi metafisici e ‛ fisici ' dello Stagirita ripropose i problemi già discussi dai commentatori ellenistici e bizantini in un contesto naturalmente influenzato dai principi religiosi e teologici della fede musulmana. In particolare Avicenna concepì la m. come principio di distinzione, divisione e individuazione, o, meglio, come il ‛ possibile puro ' che, in quanto tale, non partecipa di per sé stesso all'essere. Mera negazione, " non essere ", essa poteva solo ricevere le forme sostanziali impresse dall'intelletto attivo, indipendentemente dalla propria attitudine a ricevere questa o quella forma. Ma, al tempo stesso, la m. costituiva, per Avicenna, il fondamento della molteplicità, l'origine del particolare e del contingente, l'elemento negativo nella cui oscurità s'immergeva la luce eterna e immutabile delle ‛ forme '. Più vicina alle tesi originarie di Aristotele fu invece l'interpretazione di Averroè il quale, nei suoi commenti, insisté soprattutto sul carattere ‛ eterno ' e ‛ increato ' della m., proponendo così un tema fondamentale per le future discussioni filosofiche e teologiche.
La penetrazione in Occidente dei testi aristotelici e dei commenti arabi suscitò subito reazioni molto significative e caratteristiche da parte dei filosofi e teologi latini. Da un lato i seguaci dell'agostinismo cercarono di difendere le tesi tradizionali respingendo le dottrine aristoteliche o tentando di trascrivere in termini aristotelici e con un più rigoroso frasario speculativo una concezione della m. che risaliva spesso piuttosto a Boezio che allo stesso Agostino. Alberto Magno mirò invece a spiegare il divenire e i processi di mutamento della realtà ammettendo che la forma, sebbene ancora non sviluppata e in forma confusa, fosse già presente nella m. prima dell'agire di un agente esterno (" incohatio formarum "); sicché la " virtus formativa " poteva attuare nella stessa m. l'anima vegetativa che è presente nel seme e, in modo non diverso, anche l'anima sensitiva. Solo gli esseri spirituali (angeli e intelligenze) non sono composti di m. e di forma, bensì unicamente di " quod est " e " quo est "; e, in quanto tali, essi sono estranei alla distinzione e ai processi di corruzione tipici dei ‛ compositi '. Per Bonaventura la m., invece, s'identificava totalmente con la potenza e l'atto con la forma; mentre Dio, atto puro, era necessariamente pura forma, ogni essere creato da Dio doveva esser composto di m. e di forma, ossia di potenza e di atto. La m. era, insomma, un principio essenzialmente indefinito; essa diventava spirituale o corporale secondo la semplicità o la composizione formale dell'essere in cui entrava come principio costitutivo.
Assai più complessa e ricca d'importanti motivi e problemi dottrinali fu però la dottrina della m. formulata da Tommaso. Egli accettò, nei limiti della realtà naturale, la concezione aristotelica della m., ma respinse l'ipotesi che essa fosse ‛ increata ' ed eterna, riprendendo una discussione già iniziata dallo stesso Alberto. In Ver. V 9, egli affermò quindi la creazione divina della m. (più tardi accentuata in Sum. theol. I 3 8); la definì come primo sostrato del divenire (I 10 6), uniforme in sé (23 5), ingenerabile e incorruttibile dopo la prima creazione (7 2, 84 3, 16 8; Cont. Gent. II 55). In questo senso la m. era appunto caratterizzata dalla potenzialità, e aveva più del non essere che dell'essere (Cont. Gent. III 20); come principio potenziale, non aveva un proprio essere, ma esisteva soltanto in funzione della creazione, perché il suo " esse " derivava sempre della forma (Cont. Gent. IV 63). Sicché m. e forma erano, per Tommaso, realtà ‛ concreate '; ma una volta posta la creazione, anche la m. rimaneva indistruttibile e ingenerabile, mentre la forma, con la sola eccezione dell'anima umana, veniva ‛ edotta ' dall' ‛ agente naturale ' dalla stessa potenza della materia.
Non è qui il caso di sviluppare la teoria tomista della m. per quanto concerne il problema dell'individuazione e il concetto di m. " signata quantitate ". Ma occorrerà ricordare che, oltre a quello della creazione della m., gli scolastici si proposero anche altri problemi; e cioè se Dio conoscesse la m. prima o, almeno, ne avesse l'idea (cfr. Tomm. Ver. III 5). Per Tommaso la soluzione di un tale problema dipendeva naturalmente dall'ammissione della " creatio materiae " da parte di Dio; e, infatti, una volta risolta positivamente la questione non v'era dubbio che almeno la sua idea dovesse essere presente in Dio " cum quicquid ab ipso causato, similitudinem ipsius utcumque retineat ". Restava però, in ogni caso, da stabilire se la m. avesse in Dio un'idea propria distinta dall'idea del ‛ composito ' oppure no. Ed è comprensibile che quei filosofi (come Duns Scoto o Enrico di Gand) i quali attribuivano alla m. un minimo grado di attualità, ritenessero che l'onnipotente volontà divina potesse crearla anche priva di forma; laddove Tommaso, concependo la m. come priva di ogni attualità e come pura potenza, sosteneva che Dio possiede della m. un'idea non distinta da quella del composto (cfr. Ver. III 5).
Visti questi precedenti sarà quindi più facile intendere il significato di m. nel contesto filosofico delle opere dantesche. Troviamo così questo termine (in Mn I III 8) nel senso del sostrato comune delle cose corruttibili e, dunque, di " m. prima " o principio che non può esistere senza una forma e che di per sé è concetto negativo e impensabile, noto alla mente umana solo ‛ argomentando ' dai suoi effetti (Cv III VIII 15, XV 6).
A questo proposito D., in altro passo molto noto del Convivio (IV I 8) si chiede, ripetendo un quesito che abbiamo visto ben presente nelle discussioni di scuola, se la prima materia de li elementi era da Dio intesa; e afferma (III VI 5) che può intenderla realmente solo nell'idea dei motori celesti o nelle idee della specie. Comunque, come risulta da Pd XXIX 22-30 (cfr. anche VII 64-69) la m., per D., è stata creata nella sua pura realtà sostanziale da Dio (per la creazione della m. degli elementi, cfr. VII 136), insieme con i cieli composti indissolubilmente di m. e di forma e con gli angeli che sono pure forme, e rappresenta l'ultimo grado dell'ordine della creazione sia in senso logico che nel criterio di dignità. Nello stesso significato il termine è usato in Quaestio 45, in Cv II I 10-11 (tre volte; e cfr. VE II 7); mentre in Pd XXIX 34 (Mn II II 2-3) è adoperato esplicitamente pura potenza, che diviene attuale solo per mezzo della forma. Per questo, appunto, la m. è continuamente soggetta a mutamento (‛ fluitans materia ', Mn II II 2), disponibile ad assumere tutte le forme; e tuttavia, una volta attualizzata da una forma, essa resta priva di tutte le altre, pur continuando a possederle " in potenza " (Quaestio 45, If XXV 100-102); è infatti intenzione della natura che tutta le forme ‛ in potenza ' nella ‛ m. prima ' si riducano in atto (Quaestio 46-47, Pd I 129).
La m., la forma e la privazione costituiscono pertanto i principi necessari di tutte le cose create e che sono soggette ai processi di generazione e corruzione (Cv II XIII 17, Quaestio 41-48). Anzi, nella sua totalità, la m. è distribuita sotto le forme materiali (Quaestio 45); e affinché si attui tutta la sua potenza, è necessaria la pluralità e molteplicità delle cose generabili (Mn I III 8). La m. infatti individua la forma (Cv III VI 6); in questo senso D. afferma (VIII 7) che l'anima ne la faccia de l'uomo... tanto sottilmente intende che, per sottigliarsi quivi tanto quanto ne la sua materia puote, nullo viso ad altro viso è simile; perché l'ultima potenza de la materia, la qual è in tutti quasi dissimile, quivi si riduce in atto: l'ultima potenza, cioè la più prossima disposizione all'atto, della m. è ‛ attuata ' nel viso dell'uomo, dove meglio opera l'anima-forma, che dalla m. è individuata. Per tutto questo la m., assunta una forma, può mutarla con un'altra (Cv II XIV 10, Pd XIII 67-72, I 41-42, VIII 128); è però variamente disposta all'azione dei corpi celesti a causa delle imperfezioni individuali (Cv III IV 7 [due volte], VI 6; e cfr. II IX 7, III II 4, Mn II II 3, Pd XIII 67 ss., Rime LXXXIII 94-99). Siccome la forma, in quanto tale, non è mai suscettibile d'imperfezione (cfr. Cv III VI 6, Mn II II 3, Pd XIII 67-72), ogni imperfezione può dipendere solo dalla m. o sostrato; e, appunto in questo senso, D. parla (Quaestio 44 e 74) di ‛ inobedientia materiae ' e in Pd I 129 di materia sorda. Se invece la m. è disposta nella migliore maniera e le influenze celesti esercitano al massimo la loro potenza, si realizza la più perfetta e compiuta condizione, come quella che presiedette alla creazione di Adamo e alla nascita di Cristo (Pd XIII 73 ss., Cv IV V 4). Inoltre D. parla di mala disposizione della m. come causa della bruttezza, laddove la causa di ciò che nasce bene è l'influsso del cielo che dispone la m. nel migliore e più perfetto dei modi (Mn II II 3, Rime LXXXIII 101). Con riferimento alla dottrina degli elementi, in Pg XVIII 30 si afferma che la forma del fuoco più in sua matera dura, cioè è meglio legata alla sua m., e quindi è meno facilmente corruttibile, quando è nel suo luogo naturale.
La m. è, dunque, la componente essenziale di ogni realtà, ne è una delle cause (Cv IV XX 10), con la sola esclusione dei puri principi spirituali che sono Dio, gli angeli e l'anima umana in quanto è distinta dal corpo (III IV 9) e hanno appunto il carattere specifico di sostanze ‛ partite da materia '; cfr. anche II IV 2 sustanze separate da materia, cioè intelligenze, le quali la volgare gente chiamano Angeli; III II 14 l'anima [umana] è tanto in quella sovrana potenza [la ragione] nobilitata e dinudata da materia, che la divina luce, come in angelo, raggia in quella; Pg XVIII 50 Ogni forma sustanzïal, che setta / è da matera ed è con lei unita. Al contrario, l'anima degli animali e delle piante (Cv III VII 5, tre volte) è ‛ tutta in materia compresa ', ossia consiste nella m. o potenza stessa del corpo organico che, secondo una celebre definizione aristotelica, passa di potenza in atto; pertanto, essa è priva di ogni modo di essere e di operare al quale non partecipi il corpo.
Infine, D. dedica particolare interesse alla m. specifica dei corpi celesti (diversa da quella dei corpi terrestri e detta " quintessenza "), la quale è in potenza solo rispetto a quell'unica forma ed è completamente attuata, senza che vi sia in essa alcuna privazione o corruzione (Pd VII 130-132, XXIX 35-36). Ma un problema è posto da Cv II III 8 li cattolici... pongono esso [Empireo] essere immobile per avere in sé, secondo ciascuna parte, ciò che la sua materia vuole, al qual proposito ci si chiede se l'Empireo abbia veramente una m. e delle parti. Alla luce di quanto si dice nella Commedia (cfr. B. Nardi, La dottrina dell'Empireo, pp. 207 ss.), si può intendere che l'Empireo, ‛ luogo ' dell'universo, sia propriamente " splendore dell'idea " e " pura luce ", quindi sia immateriale, e che D., per dimostrarne l'immobilità, faccia ricorso all'argomento della compiuta perfezione e attuazione dell'Empireo secondo tutte le sue intrinseche possibilità e le sue parti, usando però materia (potenza o possibilità) e parti in senso traslato: dal momento che si concepisce il moto come " actus imperfecti ", passaggio dalla potenza all'atto, la compiuta perfezione può essere descritta come l'attuazione di tutta la potenza (materia) in tutte le sue parti. Ma ci si può tenere alla lettera del discorso di D. e pensare che l'Empireo, alla stregua degli altri cieli, sia un ‛ corpo ' perfetto, cui siano proprie m. e parti (v. EMPIREO).
La correlazione m.-forma è usata in Vn XX 7, dove il primo termine designa il suggetto che è cor gentil e il secondo termine la potenzia attuata che è Amore, e in Pg XVIII 37, dove il termine denota l'amore come disposizione potenziale.
Il termine m. è usato a designare non la m. prima, ma la m. già determinata e formata, e tuttavia suscettibile di ulteriore determinazione: indica il " sanguis menstruus ", che è m. della generazione dell'uomo (v. FORMATIVO) in Cv IV XXI 4 e Pg XXV 51, mentre in Cv IV XXIII 7 la materia de la nostra seminale complessione sono i quattro elementi (cfr. XXI 4; v. COMPLESSIONE); in III V 6 (secondo Platone la terra col mare... si girava a torno al suo centro... ma tarda molto per la sua grossa matera), m. è quella di cui risulta il pianeta; è il " mondo materiale " nella sua totalità in Pd XVII 38 (fuor del quaderno / de la vostra matera); infine, in If XXV 125 designa la parte del muso del serpente sovrabbondante rispetto al volto umano nel quale quello si trasforma, e in Pd II 75 fora di sua materia sì digiuno sta per la parte meno densa della luna.
Per il contesto di Cv II XIV 9 (il cielo stellato per lo polo che non vedemo significa le cose che sono sanza materia, che non sono sensibili, de le quali tratta la Metafisica), cfr. Aristotele Metaph. VI I, 1026a 10-12 " Si vero est immobile aliquid et sempiternum et separabile, palam quia est theoricae id nosse, non tamen physicae " e Tommaso Exp. in Metaph. VI lect. I, nn. 1162-65.
In tutta una serie di occorrenze, m. designa l'argomento o tema preso a trattare da un letterato; in tal caso m. è termine tecnico proprio della tradizione retorica e più generalmente letteraria; per la retorica, cfr. B. Latini La rettorica (ediz. F. Maggini, Firenze 1968, 53 ss.), dove si passano in rassegna varie opinioni, da quella di chi sosteneva " che materia puote essere ogne cosa sopr'alla quale convenisse trattare " (19 1, p. 54), a quella di Aristotele, per il quale " rettorica èe sopra tre maniere di cose, e catuna maniera èe generale delle sue parti; e queste sono dimostrativo, diliberativo e iudiciale " (19 3, p. 55; ma è da tener presente anche che m. è detto l'oggetto proprio di ciascun'arte; per la medicina, cfr. 19, pp. 53 ss.; più generalmente è detto in Cv I XI 11 Molti sono che amano più d'essere tenuti maestri che d'essere, e per fuggir lo contrario, cioè di non esser tenuti, sempre danno colpa a la materia de l'arte apparecchiata; cfr. Mn II II 3 e Cv IV IX 5); per l'uso in D. nel senso precisato di " argomento " o " tema " di una composizione letteraria, cfr. I XI 12 e 17, III IV 1, IV II 3, 12 e 13; If XX 2, Pg IX 71 , XII 87, Pd I 12 e 27, X 27, XXX 36; Vn XIII 9 9, 10, XVII 1 e 2, XVIII 9 (due volte), XXII 7, XXV 6, XXX 1; Rime LXXXIII 74; Mn II II 1.
Il termine è inoltre usato dal poeta nel senso di " argomento del sillogismo " (Mn III IV 5), di " oggetto di un voto " (Pd V 52 e 54), di " argomento ", " motivo " o " cagione " di affanno (Vn VIII 8 4), di " argomento " o " motivo " di un dubbio (Pg XXII 29) o di un'obiezione (Cv IV VIII 10) mentre in Rime CVI 108 vale " consigli ".
Bibl. - Busnelli-Vandelli, Convivio (ai luoghi citati, e con un'interpretazione strettamente tomista); B. Nardi, D. e la cultura medievale. Nuovi saggi di filosofia dantesca, Bari 1949², 248-259; ID., Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967², 167-214.