materialismo indiano
Insieme di scuole e correnti filosofiche indiane che sostengono tesi in radicale contrasto con le linee guida della filosofia fiorita in India. La loro presenza è attestata già nei canoni buddista e giainista.
I materialisti, chiamati Cārvāka, Lokāyata o Bārhaspatya, sono interlocutori fissi nella maggioranza delle opere filosofiche indiane, mentre pochissimo (qualche citazione in opere dossografiche e un’unica opera completa) si è conservato che sia direttamente attribuibile a queste correnti. La stessa pluralità delle posizioni loro attribuite (fino alla negazione del materialismo stesso e allo scetticismo radicale, ➔ oltre epistemologia) fa pensare a un gruppo di scuole piuttosto che a un unico sistema (darśana) organizzato. Nei testi si parla di un testo fondamentale della scuola materialistica, detto Br̥haspatisūtra («I sūtra di Br̥haspati»), che sarebbe andato perduto, ma si tratta probabilmente di un’ipotesi senza riscontri storici e dovuta alla tendenza indiana a ricondurre ogni scuola a un identico schema di sviluppo a partire da un’opera fondamentale in sūtra attraverso i suoi vari commenti e subcommenti. Fino alla scoperta dell’unica opera preservata, il Tattvopaplavasiṃha («Leone dell’annichilimento di [tutti i] principi»), è stata anzi presentata l’ipotesi che si trattasse sostanzialmente di interlocutori fittizi, utili solo come bersagli dialettici perché propugnatori di tesi radicalmente avverse alle linee guida della filosofia indiana. Oltre alle citazioni nei canoni buddista e giainista, i Lokāyata sono citati (assieme ai soli Sāṅkhya e Yoga) nell’Arthaśāstra («Trattato sull’utile)», un trattato di politica forse del 3° sec. a.C., laddove si definisce la ānvīkṣikī vidyā, la scienza inquisitiva più volte accostata (come metodologia critica più che come elaborazione sistematica) alla «filosofia» occidentale. Il Lokāyata è parimenti trattato, ma in un’appendice (forse per non riconoscere pieno valore a una corrente materialista), nella prima opera dossografica indiana, lo Ṣaḍḍarśanasamuccaya («Summa dei sei sistemi filosofici») del giainista Haribhadra (770 ca.) e nella più nota dossografia indiana, il Sarvadarśanasaṅgraha («Compendio di tutti i sistemi filosofici») di Sāyaṇa Mādhava (14° sec.). Quest’ultimo, pur includendo ufficialmente il m. i., lo colloca al gradino più basso fra i vari sistemi filosofici. Tale generale ostilità delle élites intellettuali e religiose legate alla diffusione culturale in India è probabilmente responsabile della perdita della quasi totalità delle opere materialistiche. Il già citato Tattvopaplavasiṃha si è conservato in un’unica copia all’interno di una biblioteca giainista, in virtù dell’anekāntavāda giainista (➔ giainismo) e della conseguente apertura anche nei confronti di filosofie radicalmente diverse dalla propria. Per un’interpretazione contemporanea delle correnti del m. i. (➔ Sen, Amartya).
Ai vari materialisti viene attribuita la negazione di ogni valore conoscitivo della comunicazione linguistica (śabda, che comprende il Veda) e anche dell’inferenza. Alla base dell’inferenza (➔ anumāna) è infatti l’accertamento dell’inclusione del probans (per es., il fumo) nel probandum (per es., il fuoco), ma, data l’infinità dei casi possibili, tale accertamento è per definizione impossibile. Inoltre, cosa può essere conosciuto per inferenza? Non un universale (la cui esistenza era già nota e fondante per la formulazione dell’inclusione), ma nemmeno un particolare, dato che non c’è alcuna inclusione fra l’universale fumo e un particolare fuoco. La limitazione della conoscenza certa alla sola percezione sensibile determina lo scetticismo del m. i. nei confronti del rapporto di causa ed effetto alla base della retribuzione karmica (➔ karma) e in generale dell’esistenza di un Dio e di una possibile liberazione. Gli oppositori del m. i. obiettano che sulla sola percezione sensibile non è possibile stabilire alcun sistema filosofico, nemmeno quello materialista e che quindi la posizione del materialismo è autocontraddittoria. Jayarāśi (770-830 ca.), l’autore del Tattvopaplavasiṃha, replica con uno scetticismo radicale, che non mira a stabilire alcun sistema filosofico o religioso alternativo. L’opera demolisce i principi su cui poggiano gli altri sistemi filosofici e revoca in dubbio anche la stessa percezione sensibile e il materialismo. Secondo la prospettiva indiana ribadita da Jayarāśi all’inizio della propria opera, infatti, senza una base epistemologica è impossibile fondare alcuna ontologia, giacché è solo tramite i nostri strumenti conoscitivi che possiamo conoscere il mondo e se l’affidabilità di questi è messa in dubbio non è possibile procedere. Il Br̥haspatisūtra, continua Jayarāśi, pareva sì accettare gli elementi grossi (terra, acqua, fuoco, aria), ma si trattava solo della ripetizione di un’opinione comunemente diffusa, finalizzata a stimolare un’ulteriore messa in dubbio che coinvolgesse anche tali elementi.
Il diniego di una relazione di invariabile concomitanza fra causa ed effetto fa sì che alcuni materialisti spieghino ogni fenomeno in base semplicemente alla natura propria (svabhāva) della cosa o delle cose coinvolte. Simile è il rifiuto di riconoscere alcunché al di là degli elementi grossi percettibili. La stessa coscienza sarebbe, secondo un’affermazione riportata nello Ṣaḍḍarśanasamuccaya, un prodotto secondario del corpo e il suo essere immateriale non contraddirebbe tale ipotesi. Come infatti il potere di inebriare si sviluppa dalla fermentazione di sostanze di per sé non inebrianti, allo stesso modo la coscienza si svilupperebbe a partire dagli elementi materiali.
Coerentemente con il diniego di karman e di Dio, al m. i. vengono spesso attribuite posizioni edonistiche quali la supremazia di kāma e l’affermazione che l’unico inferno sia l’infelicità (terrena) e l’unica liberazione la morte. Parimenti attestate sono posizioni di aperta rottura con l’ordine brahmanico costituito, in partic. in riferimento ai sacrifici vedici, considerati utili solo ad assicurare un’entrata per la classe sacerdotale.