MATILDE di Canossa
MATILDE di Canossa. – Figlia di Bonifacio, signore di Canossa e marchese di Toscana, e di Beatrice di Lorena, nacque tra la seconda metà del 1045 e la prima del 1046 probabilmente a Mantova, dove Bonifacio aveva il suo palatium, ma non mancano altre città che rivendicano tale onore. Il padre era al suo secondo matrimonio, avendo sposato, poco dopo la morte della prima moglie Richilde (1036), Beatrice, nipote di Gisella, moglie dell’imperatore Corrado II. M. discendeva quindi da esponenti di rilievo della grande feudalità italica e germanica ed era stata preceduta dalla nascita di un fratello, Federico (chiamato anche Bonifacio), e di una sorella, Beatrice. La sua infanzia fu presto turbata dalla morte del padre, assassinato durante una battuta di caccia il 6 maggio 1052. Poco tempo dopo morirono in circostanze misteriose sia il fratello, sia la sorella. Due anni dopo la madre sposò Goffredo il Barbuto, duca della Bassa Lotaringia, anch’egli vedovo e padre di Goffredo il Gobbo. L’unione delle case di Canossa e di Lotaringia, avvenuta senza l’approvazione dell’imperatore Enrico III, di cui entrambi erano vassalli, suscitò la reazione dell’imperatore che, sceso in Italia, fece prigioniere Beatrice e M. (il duca Goffredo era già fuggito in Lorena), portandole presso la sua corte di Spira, dove furono liberate solo dopo la morte di Enrico III (5 ott. 1056). Nel febbraio del 1057 Beatrice, M. e Goffredo il Barbuto rientrarono in Toscana, accompagnando il pontefice Vittore II, che aveva presenziato con loro ai funerali dell’imperatore a Goslar. In questo modo Goffredo esercitava una funzione tradizionale nella dinastia dei Canossa, il paparum ducatus.
Per dieci anni M. non compare nelle cronache; probabilmente seguì la famiglia e soggiornò a lungo in Lorena; dalla primavera del 1067 è indicata con la madre: accompagnò il patrigno in Italia; fu con la famiglia a Roma a metà anno; poi, nell’estate dell’anno seguente, Beatrice e M. seguirono il duca Goffredo, gravemente ammalato, nel suo ritorno in Lorena, prima a Bouillon poi a Verdun, dove morì il 24 dic. 1069. Prima di questa data era stato celebrato il matrimonio tra M. e il fratellastro Goffredo il Gobbo. Mentre Beatrice tornò subito in Italia, M. restò col marito a Verdun. Visse così un breve periodo matrimoniale, durante il quale partorì una bimba, battezzata col nome di Beatrice ma che morì poco dopo il parto, il 29 genn. 1071. Furono mesi molto duri per la difficoltà di M. ad adattarsi al rapporto coniugale in un ambiente che sentiva ostile, per cui, appena le fu possibile, fuggì e tornò presso la madre, insieme con la quale risulta a Mantova il 19 genn. 1072 (Urkunden… Mathilde, n. 1). Nei mesi successivi M. fu presente con la madre e, più volte, col giudice e messo imperiale Flaiperto di Lucca a numerosi placiti tenutisi nell’Italia centrale (ibid., nn. 2-6); dal 1073 le due iniziarono ad agire separatamente, e in alcuni atti di M. compare anche Goffredo il Gobbo, sceso in Italia per recuperare il legame con la moglie, oltre che per il dominio di quanto gli derivava dall’eredità paterna.
Goffredo e Beatrice erano insieme a Pisa il 17 genn. 1073; M. era invece sola a Lucca, l’8 febbraio, a presiedere un placito con Flaiperto (ibid., n. 7); Beatrice era sola a Firenze il 26 e 27 di quel mese e il 19 aprile nell’Aretino (Goez, 1995, nn. 34 s.). All’inizio dell’estate Beatrice e Goffredo erano di nuovo insieme per una restituzione di beni al capitolo della cattedrale di Arezzo; ma dal 10 agosto al 10 sett. 1073 con Beatrice c’era solo M. per atti rogati insieme in territori dell’Italia settentrionale (Verona e Mantova: Urkunden… Mathilde, nn. 8-11), una sola volta col consenso del duca Goffredo (ibid., n. 9).
Intanto era stato eletto papa Gregorio VII (22 apr. 1073) e Goffredo si congratulò con lui. Il nuovo pontefice gli rispose il 6 maggio, chiedendogli sostegno militare (Registrum, I, n. 9); una missiva di uguale tenore il papa avrebbe inviato anche a Beatrice, come emerge dalla lettera a Beatrice e a M. del 24 giugno, nella quale si affrontava subito il problema cruciale delle investiture: la questione dell’elezione del nuovo vescovo di Milano, dopo il movimento della pataria e la morte di Guido da Velate; la nomina del nuovo vescovo di Lucca, Anselmo; la riconciliazione con Enrico IV, il successore di Enrico III, da pochi anni (1068) sottrattosi alla reggenza della madre Agnese di Poitiers, in rotta con il Papato dal tempo di Alessandro II. Per questo si chiedeva il sostegno e l’aiuto delle «dilectissime sancti Petri filie» (ibid., I, n. 11), sostenitrici della causa della riforma.
C’era però una questione rimasta in sospeso: la crisi matrimoniale tra Goffredo e Matilde. È probabile che il duca ne abbia scritto al pontefice sin dalla prima lettera; è sicuro che continuò a fare pressioni per un intervento diretto del papa in merito, anche dopo il suo rientro in Lorena (dall’agosto 1073). Il 3 genn. 1074 Gregorio VII scrisse a M. invitandola a Roma (ibid., I, n. 40), forse per trattare direttamente la cosa, e il 16 febbraio le inviò una significativa lettera, nella quale la invitava al pentimento e alla pazienza (ibid., I, n. 47); ma M. tenne un atteggiamento estremamente fermo.
Dopo il ritorno di M. presso la madre, Goffredo fece di tutto per riconciliarsi con lei, ma senza successo. Secondo le fonti documentarie i due non compaiono mai insieme e il cronista di St-Hubert scrive che M. rifiutò allo sposo la «maritalem gratiam» (Chronicon…, pp. 583 s.). Ci sono tuttavia motivazioni per l’assenza di M. dai documenti: i legittimi eredi della giurisdizione canossana in Emilia e in Toscana erano Beatrice, in quanto vedova di Bonifacio, e Goffredo, in quanto figlio di Goffredo il Barbuto: M. non aveva alcun titolo per comparire negli atti.
Nelle lettere successive Gregorio VII cercò in Beatrice e M. interventi persuasori e pacificatori nei riguardi dei vescovi dei loro territori (Roselle, Piacenza: Registrum, I, nn. 50 s.); ma la politica di riconciliazione con i vescovi lombardi di Gregorio scontentò le contesse, probabilmente desiderose di interventi più decisi, soprattutto nei riguardi del vescovo di Piacenza, Dionigi, e di Werner di Strasburgo, che trattennero nei loro domini e liberarono solo dopo un espresso intervento del papa (ibid., I, n. 77). Beatrice e M. avevano ben ragione di dubitare dei presuli, che vennero di nuovo scomunicati l’anno successivo. Il pontefice intanto indirizzava le contesse verso altri obiettivi: una campagna contro Roberto il Guiscardo e addirittura una crociata (The Epistolae vagantes, pp. 10-13).
Dopo le scomuniche del sinodo quaresimale del 1075, la mediazione di Beatrice e M. dovette riprendere, e su di loro faceva affidamento Enrico IV in una lettera a Gregorio VII, che ne riferì alle contesse l’11 sett. 1075 (Registrum, III, n. 5). In quella lettera emerge anche la rottura dei rapporti tra Gregorio VII e Goffredo il Gobbo, che aveva tradito i giuramenti fatti al papa, e che in seguito, a Worms il 24 genn. 1076, fu tra coloro che decretarono la deposizione di Gregorio VII secondo la volontà di Enrico IV, e che insinuò persino l’esistenza di rapporti amorosi tra il pontefice e Matilde.
Il 27 febbr. 1076, a Verdun, Goffredo il Gobbo fu assassinato e non mancò chi accusò M. di aver armato la mano del sicario (Landolfo Seniore, III, 31). Intanto la lotta tra Impero e Papato si acuiva: alla sua deposizione da parte dell’episcopato tedesco, Gregorio VII rispose con la stesura del Dictatus papae e con la scomunica di Enrico IV il 22 febbraio. La notizia giunse a Enrico IV a Utrecht verso la fine di marzo. Sulle trattative seguite non è pervenuta alcuna testimonianza diretta: si interrompono le lettere di Gregorio a M., o almeno non sono più state trascritte nel Registrum (una sola seguirà, il 3 marzo 1079).
Il nome di M., tuttavia, continua a comparire nelle lettere come un punto fermo della politica gregoriana nell’Italia settentrionale: in quel momento favorì l’insediamento del vescovo Tedaldo sulla cattedra di S. Ambrogio. Da nove lettere inviate da Gregorio a M. (otto anteriori all’incontro di Canossa) e dalle numerose menzioni di M. che si trovano nell’epistolario gregoriano, emerge un rapporto privilegiato tra i due, dal quale gli avversari della riforma trassero facile argomento per diffamarli.
M. continuava la sua attività giurisdizionale: l’ultimo atto rogato con la madre risale al 7 maggio 1075, a Firenze (Urkunden… Mathilde, n. 14); dal successivo (15 giugno 1075, a Marzaglia, vicino a Modena: ibid., n. 15) M. placitò sempre da sola. Il 18 apr. 1076 Beatrice morì a Pisa e lì venne sepolta nella cattedrale, in un sepolcro romano di reimpiego (ora nel Camposanto monumentale). M. aveva su di sé il peso del governo di un territorio vastissimo e articolato, e un ruolo politico assai delicato nel momento più acceso del conflitto tra Enrico IV, al quale era legata da una stretta parentela oltre che dagli obblighi di fedeltà propri del sistema vassallatico-beneficiario, e Gregorio VII, al quale era vicina non solo per figliolanza spirituale e per averne sposato gli ideali riformatori, ma per profondi sentimenti di sincero affetto, oltre che dalla necessità del reciproco sostegno.
La prima reazione di Enrico IV alla scomunica – un atto che sconvolse il mondo cristiano – fu la convocazione di una nuova assemblea dei vescovi tedeschi a Worms, per la Pentecoste del 1076, che fu per lui un fallimento. Solo una seconda assemblea, convocata a Magonza il 29 giugno, si concluse con una generica dichiarazione di invalidità della scomunica. Per parte sua Gregorio VII il 25 luglio giustificò la sua decisione con la necessità di salvaguardare l’unità della Chiesa; egli attendeva il pentimento del sovrano e annunciava il perdono a quanti, pur avendolo sostenuto in un primo tempo, erano ora disposti a emendarsi.
Nel corso dell’estate M. viaggiò probabilmente tra l’Italia e la Lorena per occuparsi dell’eredità del marito.
Beneficò l’abbazia di Orval, da lei fondata, e affidò ad Alberto di Namur (o di Briey) il controllo della Contea; ebbe poi occasione di incontrarsi con Ermanno, vescovo di Metz, con l’abate di Cluny, Ugo, con il vescovo di Verdun, Teodorico, e con la madre dell’imperatore, Agnese. Ma la riacquisizione patrimoniale non fu tranquilla se lo stesso Gregorio VII dovette intervenire invitando Manasse, vescovo di Reims, a sostenere M. con milizie per consentirle di entrare in possesso di tutti i feudi della Chiesa romana assegnati a suo tempo a Goffredo il Gobbo e delle terre provenienti dall’eredità della madre e del marito, escludendo da questa Goffredo di Bouillon e assegnandole ad Alberto di Namur.
Intanto attorno a Enrico IV si stava facendo sempre più il vuoto e accadeva quello che egli temeva maggiormente: l’incontro del sentimento nazionale tedesco con la politica papale.
Nella Dieta di Tribur nell’ottobre successivo i principi tedeschi e i legati pontifici si accordarono nell’indire una nuova Dieta, ad Augusta, presieduta da Gregorio VII, alla quale avrebbe dovuto presentarsi in giudizio Enrico, il 2 febbr. 1077. A Enrico non restò che rassegnarsi e scendere a patti col papa, ma il tempo stringeva e già Gregorio VII stava progettando il suo viaggio in Germania, nonostante molti lo sconsigliassero e la sola M., che insieme con l’imperatrice Agnese è indicata come l’ispiratrice della decisione di Tribur, lo sostenesse. La cosa, però, non era affatto semplice: Roberto il Guiscardo aveva conquistato Salerno nel dicembre 1076, vincendo l’alleato del papa, il longobardo Gisulfo, e Roma, dove Enrico IV aveva dei sostenitori e Gregorio VII molti nemici, in assenza del pontefice rischiava di finire nelle sue mani.
All’inizio di dicembre Gregorio VII partì da Roma alla volta di Augusta, deciso a porre fine alla questione; l’8 genn. 1077 era a Mantova, quando gli giunse la notizia che Enrico IV, sceso in Italia dalla valle del Rodano, stava venendogli incontro. Decise allora di ritirarsi nel munito castello di Canossa, mentre M., con l’abate Ugo di Cluny, avviava trattative per la riconciliazione.
Il 20 gennaio il re portò il suo esercito nelle vicinanze di Canossa, poi si incontrò con M. e Ugo di Cluny nella cappella di S. Nicolò di Montezane (Quattro Castella, a poche miglia da Canossa) e solo dopo quell’incontro (immortalato anche nella famosa miniatura del codice di Donizone, Vat. lat., 4922 della Bibl. apost. Vaticana) è da presumere che abbia vestito l’abito del penitente. Il 25, lasciati l’esercito e le insegne imperiali nell’accampamento di Bianello, si recò con un piccolo seguito a Canossa per mettere in scena, per tre giorni, scalzo e con solo un saio addosso, la sua pubblica penitenza.
Furono giorni febbrili, sentiti anche dai contemporanei come eccezionali: un avvenimento di cui ogni cronista, storico o poeta contemporaneo ha dato una sua versione. L’epica ha prevalso: l’andare a Canossa è divenuto simbolo della umiliazione di chi è costretto a pentirsi e ravvedersi.
Se ci si attiene solamente ai fatti collegati a quanto precedette e a quel che seguì, il famoso incontro, quel preteso pentimento, non fu che il mezzo meno doloroso per Enrico IV di ottenere ciò che stava cercando: la reintegrazione nel suo potere con l’annullamento della scomunica e il rientro nella communio fidelium.
La riconciliazione scontentò entrambe le parti. Enrico IV incontrò i suoi fedelissimi a Reggio, dove fu elaborata l’idea di proporre al papa un sinodo di tutto l’episcopato dell’Italia settentrionale da tenersi in Lombardia, proposta portata da Enrico IV al papa nell’incontro del 3 febbraio a Bianello. Gregorio VII indicò Mantova come sede dell’assemblea e fissò probabilmente una data in tempi ravvicinati, essendo sua intenzione recarsi in Germania per portare a termine l’elezione di un nuovo sovrano; al momento di addivenire al nuovo incontro però, M. e il pontefice scoprirono che Enrico IV, che li aveva preceduti oltre il Po, stava tramando il loro arresto e per questo si ritirarono di nuovo nei castelli del Reggiano, mentre Enrico IV faceva catturare Gerardo, cardinal vescovo di Ostia, e Anselmo II da Baggio, vescovo di Lucca, inviati, in qualità di legati apostolici, da Gregorio VII a Milano per la questione della cattedra ambrosiana. Anselmo fu liberato poco dopo e poté tornare dalla contessa: probabilmente l’imperatore non voleva forzare la situazione, rompendo con Matilde. In Germania, fallita l’assemblea di Augusta, i principi tedeschi decisero di riunirsi a Forchheim il 13 marzo per eleggere il nuovo imperatore; ma il fronte antienriciano si era diviso: Enrico IV, del resto, pur se non esplicitamente integrato nei suoi poteri, era stato riammesso nella comunità cristiana e tornava a valere il giuramento che gli era stato prestato dai suoi feudatari. Per parte sua Gregorio VII preferì restare nei territori emiliani soggetti a M. e rientrò a estate inoltrata a Roma, dove è attestato con sicurezza il 16 settembre (cfr. Registrum, V, n. 3) accompagnato da Matilde. A Canossa, durante l’incontro tra papa e re, accaddero con ogni probabilità altri importanti avvenimenti, primo fra tutti la donazione (o, meglio, la promessa di donazione) dei beni di M. alla Chiesa.
La questione della donazione di M. è tra le più dibattute dagli storici; Donizone la pone in concomitanza dell’incontro di Canossa: «Propria clavigero sua subdidit omnia Petro» (II, 173), mentre un atto, pervenuto non in originale e con molti aspetti diplomatisticamente particolari, la data al 17 nov. 1102 (Urkunden… Mathilde n. 73). Per Goez (1997) quell’atto sarebbe autentico, mentre ci sarebbe da dubitare dell’affermazione di Donizone; probabilmente il documento fu costruito posteriormente per avallare le pretese della Chiesa sull’eredità matildica (Golinelli, 2001), perché anche dopo il 1102 M. agì come se quell’atto non fosse mai avvenuto e i pochi documenti che ne fanno menzione sono pervenuti in copie tarde. D’altra parte non si capiscono le ragioni di un atto che sarebbe stato rogato a Canossa in un momento non particolarmente significativo della storia di M., e di cui Donizone non fa alcun cenno. Più realistica appare invece la collocazione di una volontà di M. di fare della Chiesa l’erede dei suoi beni nel momento della crisi maggiore del Papato, durante la lotta per le investiture.
Sempre a Canossa, alla fine di gennaio, M. fece altre due importanti concessioni in favore della Chiesa: la donazione a Gregorio VII delle abbazie di famiglia di S. Benedetto Polirone e di S. Claudio di Frassinoro.
Per la prima non c’è documentazione diretta, ma un privilegio di Gregorio VII, di incerta datazione ma anteriore al 1082 (Codice dipl. Polironiano, n. 37), ne affidava la cura all’abate di Cluny, e Ugo di Cluny era presente a Canossa; per quanto riguarda la seconda è pervenuta (anche se fortemente danneggiata) una bolla del pontefice a Benedetto, abate di Frassinoro, emessa da Bondeno, nel Mantovano, l’8 febbr. 1078, con cui il pontefice accolse la donazione di M. e liberò il monastero da ogni dipendenza, essendo soggetto solo alla Sede apostolica (Bellocchi - Ghirardini, n. V, pp. 113-121), dopo di ciò l’aggregò all’abbazia di La Chaise-Dieu, in Alvernia, accontentando così più enti.
Alla rottura tra Gregorio VII ed Enrico IV seguirono comportamenti opposti, e mentre il papa cercò ancora la soluzione pacifica della contesa, non accettando di riconoscere il neoeletto re di Germania Rodolfo di Svevia, incoronato il 26 marzo 1077, e accogliendo con gli onori dovuti a un sovrano gli ambasciatori di Enrico IV nel sinodo quaresimale del 1078, Enrico, dopo aver insediato sulla cattedra milanese il suo fedele Tedaldo, alla fine di marzo tornò in Germania per consolidare la sua posizione. In quel momento M. dovette compiere una scelta di campo: erede dei poteri dei Canossa, era vassalla dell’imperatore e a lui doveva la sua fidelitas; ma i suoi ideali religiosi l’avevano avvicinata al Papato e la sua scelta fu in favore di Gregorio VII, con tutte le conseguenze che sarebbero venute. Dopo aver accompagnato il papa a Roma, nel 1078 M. è documentata in Toscana e nei dintorni di Perugia (Urkunden… Mathilde, nn. 24-26). L’anno successivo fu di nuovo nei suoi territori dell’Italia del Nord, dove accolse l’abate Ekkehardo di Reichenau, liberato per intervento di Gregorio VII dalla prigionia inflittagli dal vescovo di Parma, e si adoperò ancora per la riconciliazione tra il papa e l’imperatore. L’8 luglio era finalmente a Mantova, il 17 sett. 1079 da Spedaletto in Val d’Orcia (Siena) regalò al vescovado di Lucca Castiglione Berardenga, nella contea di Volterra; poco dopo prese sotto la sua protezione la chiesa di S. Lucia di Paciano (Perugia); assicurò beni all’abate di Farfa; placitò a favore della Chiesa di Ferrara in lite con Pomposa (ibid., nn. 28-31); donò il pastorale e preziosi libri liturgici al vescovo Ugo di Grenoble (Vita sancti Hugonis), continuando la sua missione di protettrice di chiese e monasteri, mentre la lotta tra Impero e Papato andava recrudescendosi. Rodolfo di Svevia si mostrò impari al suo compito ed Enrico IV gli inflisse una dura sconfitta nella battaglia di Flarchheim del 27 genn. 1080, dopo di che i principi tedeschi si riavvicinarono a lui. All’opposto Gregorio VII il 7 marzo 1080 scomunicò nuovamente Enrico e, per reazione, i vescovi di parte enriciana, dopo aver dichiarato di non riconoscere più Gregorio VII come papa, elessero il 25 giugno a Bressanone un nuovo papa, Clemente III, nella figura di Wiberto, arcivescovo di Ravenna.
Una lunga lettera (Liber contra Wibertum) a questo inviata tra il 1085 e il 1086 da Anselmo da Baggio lascia trasparire l’esistenza di trattative per la pace tra Clemente III e l’ambiente matildico, da collocare nell’estate del 1080, quando Clemente III si pose il problema di raggiungere Roma, o anche semplicemente rientrare nella sua sede ravennate, attraversando i territori della contessa. Ma non si addivenì ad alcun accordo.
Enrico IV intanto infliggeva una nuova definitiva sconfitta a Rodolfo di Svevia, che fu ferito gravemente nel corso della battaglia di Merseburg, dove morì il 15 ott. 1080; in quello stesso giorno le truppe dei vescovi-conti antigregoriani di quasi tutta l’Italia del Nord misero in fuga l’esercito di M. presso Volta Mantovana. Fu la prima, grave sconfitta militare di M. nella guerra in difesa di Gregorio VII. L’anno seguente Enrico IV scese in Italia, fornendo l’accompagnamento a Clemente III; il 4 aprile fu a Verona, poi, passando per Milano, Pavia e Ravenna, si diresse alla volta di Roma. Intavolò probabilmente trattative con M. per averla dalla sua parte, ma è da escludere che ella gli abbia fornito il benché minimo aiuto. In ogni caso Enrico fu costretto a evitare la più rapida via Francigena, che passava in gran parte su terre matildiche, giungendo con Clemente III a Roma da Ravenna il 21 maggio, senza riuscire a entrare in città e, dopo una finta incoronazione nell’accampamento posto fuori le mura, Enrico IV abbandonò l’impresa e si portò nell’Italia settentrionale «ad delendam Mathildem», come scrive Benzone (p. 658). Contro M., infatti, stavano ribellandosi le città del suo dominio. La prima fu Lucca dove, tra la fine del 1080 e l’inizio del 1081, fu cacciato il vescovo Anselmo, che si rifugiò presso la contessa, e proprio da Lucca Enrico IV emanò nel luglio il bando imperiale contro M., dichiarandola rea di lesa maestà e destituendola dei poteri a lei delegati dall’Impero. Pisa seguì Lucca subito dopo, guadagnandosi un importante privilegio da parte di Enrico IV (Urkunden Heinrichs IV, n. 336), mentre in Reggio e Modena trionfavano vescovi di parte imperiale quali Gandolfo ed Eriberto. A M. non restò che arroccarsi nei suoi castelli appenninici, mentre Enrico IV scorazzava liberamente nelle terre della contessa, cui era stato sottratto il dominio della parte più prestigiosa, la Marca di Toscana.
Quel momento di difficoltà trova riscontro anche nell’assenza di documenti rogati da M. tra il 9 dic. 1080 (donazione al monastero reggiano di S. Prospero) e il 7 luglio 1082, da Zola Predosa, nel Bolognese (Urkunden… Mathilde, nn. 33 s.), e nel loro diradarsi negli anni successivi (il primo giuntoci in originale è del 26 febbr. 1088 da Nogara: ibid., n. 39).
Con M. era Anselmo da Baggio, da lei insediato nella cattedra episcopale di Reggio Emilia nel 1082 e da Gregorio VII nominato legato pontificio in Lombardia e consigliere della contessa, presso la quale visse sino alla sua morte, avvenuta a Mantova il 18 marzo 1086.
Alla corte mantovana di M. e nel vicino monastero benedettino di S. Benedetto Po vi era un’intensa attività culturale: a Polirone era attivo sin dal 1076 uno scriptorium, che produceva codici preziosi, molti dei quali giunti fino a noi; a Mantova operavano intellettuali e maestri di valore: oltre ad Anselmo, Giovanni da Mantova, autore di un Tractatus in Cantica Canticorum, scritto tra il 1081 e il 1083, e di un Liber de sancta Maria; a Reggio, il nuovo vescovo Eriberto elaborò un commento ai salmi penitenziali. Con M. era anche Bonizone di Sutri, che forse a lei dedicò il suo Liber ad amicum, mentre successivamente operarono per lei Placido di Nonantola e Donizone, autore anche di una Enarratio Genesis, nonché della Vita Mathildis, in cui rappresentò quell’ideologia del principato, che interpretava una tensione già presente nella Cancelleria matildica verso un ruolo regale di M. che ben si coglie nella stesura dei suoi documenti.
Nel 1082 Enrico IV tornò in Italia e nel 1083, dopo un assedio durato sette mesi, si impadronì di Roma, nonostante gli sforzi di M., che per difendere la città aveva fatto fondere i tesori delle chiese e delle abbazie soggette e inviato l’oro ricavato a Gregorio VII. Il pontefice non poté far altro che chiudersi in Castel Sant’Angelo. Da là inutilmente invocò l’aiuto dei Normanni, impegnati altrove; mentre Enrico IV riceveva nel 1084 l’insperato aiuto di 144.000 scudi inviati dall’imperatore d’Oriente, Alessio Comneno, perché combattesse i Normanni. Così Clemente III fu solennemente insediato nel palazzo Lateranense e consacrato il 27 marzo per incoronare subito dopo Enrico IV imperatore (31 marzo). A quel punto M. non poteva ormai più intervenire e anche gli aiuti economici non le erano più consentiti, visto che aveva dato fondo a tutte le risorse sue e degli enti ecclesiastici fedeli alla riforma; intervenne però Roberto il Guiscardo, che con un esercito di 30.000 uomini il 27 maggio 1084 riuscì a cacciare da Roma Enrico IV e sottopose la città a un feroce saccheggio. Era venuto anche per M. il tempo di riprendere l’iniziativa: riconquistò le sue roccaforti sul Po e il 2 luglio a Sorbara, nella pianura modenese, inflisse una dura sconfitta alle truppe dei vescovi scismatici, cui seguì la conquista di Nonantola e il passaggio del grande monastero padano dalla soggezione imperiale a quella papale.
Intorno a quei mesi si colloca una lettera di M. ai principi tedeschi per metterli in guardia contro Enrico IV (Ugo di Flavigny, p. 463), alla quale forse è da collegare il reinsaldarsi dei rapporti con uno dei suoi vassali, Rainero di Briey, cui cedette il suo possedimento di Cyricihof, il 2 luglio 1084, con un atto riconosciuto nel 1088 da Enrico IV (Acta Imperii, n. 322).
Per la parte pontificia però le cose non andavano bene: Roberto il Guiscardo, dopo un inutile tentativo di conquistare Tivoli, rinunciò a proseguire la lotta; Gregorio VII soggiornò brevemente in Roma e poi seguì il duca normanno a Salerno. Alla fine del 1084 l’antipapa Clemente III rientrò in Roma, dove celebrò il Natale, accolto con favore da una larga parte della cittadinanza; Gregorio VII, prostrato dalla lunga lotta, sconfitto e ammalato, morì a Salerno il 25 maggio 1085; il 17 luglio morì anche Roberto il Guiscardo. M. riprese l’iniziativa, anche militare, approfittando dell’assenza dell’imperatore dall’Italia per riconquistare i suoi domini padani, mentre gli sfuggivano quelli lorenesi, e il 1° giugno 1085 Enrico IV, da Metz, donò i beni matildici di Stenay e Mosay, da lui incamerati in seguito al bando di Lucca, al vescovo Teodorico di Verdun (Die Reichskanzler, 2883). Presso M. trovarono rifugio i sostenitori della riforma: dopo Anselmo da Baggio fu la volta di Bonizone, vescovo di Sutri, cacciato dalla sua diocesi nella primavera del 1085; in quello stesso anno M. ospitò anche Ermanno di Metz nel suo secondo esilio.
Importante fu il contributo di M. per la scelta del successore di Gregorio VII, Dauferio (o Desiderio), eletto dai cardinali presenti a Roma, dopo quasi un anno di sede vacante, il 24 maggio 1086, e che assunse il nome di Vittore III.
Dei tre indicati dal pontefice sul letto di morte (Ugo di Die, arcivescovo di Lione, legato pontificio in Francia ed espressione dell’ala più intransigente della riforma, che a M. si era rivolto con due lettere, lamentando l’impossibilità di essere presente a Roma; Oddone vescovo di Ostia, il futuro Urbano II, e Anselmo da Baggio) nessuno riuscì infatti a raggiungere Roma dove c’era invece Dauferio nominato abate di Montecassino proprio da Gregorio VII, sulla cui scelta influì probabilmente la stessa Matilde.
Vittore III era, però, un uomo malato, già vecchio, desideroso più della pace del chiostro che dei maneggi della politica ecclesiastica; per questo poco dopo la sua elezione – ancora solamente eletto e non consacrato – lasciò Roma per Montecassino, dove convocò un sinodo; approfittarono della situazione Clemente III e la sua parte per riprendersi Roma. A quel punto M. rientrò in scena: non prestando ascolto alle invettive di Ugo di Die, intuì che l’intransigenza non serviva e si schierò col nuovo pontefice. Raggiunse Roma e vi si insediò, accolta con favore dal prefetto Cencio; mandò quindi degli ambasciatori a Montecassino per organizzare il ritorno del pontefice. Nonostante la malattia, Vittore III scese per mare fino a Ostia e M. lo accompagnò dentro Roma, una città divisa tra una parte favorevole al pontefice e una guibertista.
Vittore III si insediò fin dall’inizio di giugno, con l’aiuto di M., in S. Pietro, mentre Clemente III si rifugiò nella chiesa di S. Maria ad Martyres (Pantheon). Ma il 28 giugno la parte guibertista sferrò un duro attacco e costrinse i sostenitori di Vittore III a ripiegare in Trastevere; il 29 giugno nessuno dei due papi poté celebrare la festa di S. Pietro nella sua basilica e solo il giorno successivo Vittore III disse messa nella basilica vaticana, riprendendo il 1° luglio il controllo della città.
L’inferma salute e il caldo clima estivo lo indussero a lasciare Roma per Montecassino, dove morì il 16 sett. 1087. Per la nuova successione non ci furono problemi e i cardinali e il clero filogregoriano – tra cui anche inviati di M. –, riuniti a Terracina il 12 marzo 1088, scelsero l’ultimo candidato rimasto della terna gregoriana, Oddone di Ostia, che M. conosceva sin dal 1077, quando aveva accompagnato Ugo di Cluny a Canossa e che assunse il nome di Urbano II. Questi cercò di decantare la lotta in corso in vista di una composizione del conflitto delle investiture, mentre M. si trovò ad affrontare una nuova discesa di Enrico IV in Italia. Fu allora che Urbano II le suggerì una scelta personale piuttosto delicata: un nuovo matrimonio. La scelta cadde nel 1089 su un rampollo della stirpe più avversa a Enrico IV in Germania, quella dei duchi di Baviera, nel giovanissimo Guelfo (V) di Baviera, figlio di Guelfo (IV).
Fu un matrimonio molto chiacchierato nelle corti europee, per la grande differenza di età tra i coniugi (Cosma di Praga, pp. 88 s.), che M. affrontò forse nella speranza, difficile per la sua età e in realtà vana per l’impotenza del marito, di assicurare una discendenza alla sua dinastia.
M. e Guelfo (V) agirono insieme, tra la fine del 1089 e il 27 giugno 1090, come attestano due atti, uno in favore della Chiesa mantovana (Urkunden… Mathilde, n. 42), l’altro nei riguardi dei cittadini di Mantova, mentre un privilegio per gli abitanti di Barga è andato perduto (ibid., dep. 50). Nel 1095 seguì la separazione.
Guelfo era stato accanto a M. in uno dei momenti più difficili della sua vita, quando, subito dopo il matrimonio, Enrico IV compì la sua terza discesa in Italia. Da Verona, Enrico IV si diresse su Mantova, che iniziò ad assediare nel mese di maggio. In quel momento a difendere Mantova erano Guelfo e M. e, per avere dalla loro parte la città, concessero un ampio privilegio (ibid., 43) in favore dei cittadini arimanni. La concessione, tuttavia, non bastò: l’assedio di Enrico IV si fece più stringente; egli isolò la città conquistando le fortezze matildiche di Rivalta e Governolo e, prima della Pasqua del 1091, Mantova cedette. Il vescovo Ubaldo e l’abate del monastero di Polirone, Guglielmo di Benediktbeuren, si rifugiarono a Canossa; a organizzare la consegna della città furono probabilmente gli arimanni di Mantova, nemici dei Canossa, che furono subito premiati dall’imperatore con la concessione di nuovi privilegi. All’opposto Pisa passava dalla parte papale, ottenendo da Urbano II l’infeudazione dell’isola di Corsica per la sua Ecclesia (28 giugno 1091). Mentre Enrico IV si preparava a svernare per il secondo anno consecutivo in Italia, M. cercò anche di prenderlo con l’inganno, approfittando del fatto che egli si era recato senza scorta al di là dell’Adige; ma il tradimento di uno dei suoi capitani, Ugo del Manso, consentì all’imperatore di far arrivare le sue truppe, che inflissero alla contessa una dura sconfitta a Trecontai, nel Padovano. Nella primavera del 1092 Enrico IV riprese la guerra, occupando progressivamente i domini di Matilde.
L’imperatore conquistò il Modenese, spingendosi fin sulle rocche appenniniche più fedeli a M. (Monte Morello, Mont’Alfredo e altre); dopo di che pose l’assedio al castello di Monteveglio, mentre avviò trattative con i vassalli di M. che, in un’assemblea tenutasi a Carpineti presumibilmente sulla fine dell’estate del 1092, si mostrarono propensi ad addivenire a un accordo con Enrico IV, ma le parole dell’eremita Giovanni di Marola spinsero M. a continuare la guerra.
Nell’autunno Enrico IV, lasciato l’infruttuoso assedio di Monteveglio, si portò fin nel cuore dei territori matildici, con l’intenzione di attaccare Canossa, ma M. lo precedette e sconfisse le truppe imperiali sotto la rocca, luogo passato alla storia con il nome di Madonna della Battaglia. Mentre Enrico IV si ritirava a svernare a Verona, l’anno dopo M. poteva riprendersi Governolo e Rivalta; alla contessa si riavvicinarono diverse città della Lombardia: Milano, Cremona, Lodi e Piacenza, che così si sottrassero al controllo imperiale.
La sconfitta dell’imperatore toccò anche la sua famiglia: il primogenito, Corrado, gli si ribellò e si rifugiò presso M., e a lei ricorse nel 1094 anche la seconda moglie di Enrico IV, la regina Prassede, da M. liberata da una sorta di prigionia inflittale dal marito a Verona.
Nel 1095 M. forse accompagnò Urbano II al concilio di Piacenza, dove venne lanciata l’idea, già di Gregorio VII, della crociata, ma le fonti non ne parlano esplicitamente; sicuramente M. fornì al papa la scorta per il suo rientro a Roma alla fine dell’anno.
Enrico IV continuava a essere presente in Italia, ma senza grandi successi, e solo nel 1097 rientrò in Germania. In quell’anno M. accolse presso la sua corte anche Anselmo d’Aosta, arcivescovo di Canterbury, cacciato dalla sua sede dal re d’Inghilterra, Guglielmo II il Rosso, che non riconosceva Urbano II.
Il prelato fu ospite di M., a Roma, anche quando, una volta rientrato in Inghilterra nel 1100, riprese tre anni dopo la via dell’esilio, in seguito a contrasti per questioni fiscali sorti col nuovo re, Enrico I. Sul loro rapporto sono giunte due lettere: una di M. a Pasquale II in favore di Anselmo e una di questo a M., nella quale il prelato la ringrazia per quanto ha fatto per lui (Petrucci - Bambino).
Furono diverse le grandi personalità del momento che vissero presso Matilde. Si è supposto anche che avesse adottato il nobile Guido (V) Guidi (Guido Guerra), ma i documenti che attesterebbero ciò sono inattendibili o interpolati o riscritti.
Sicuro riflesso delle difficoltà di questi anni è il diradarsi della documentazione matildica giunta a noi: un solo atto nel 1092 (per l’abbazia di Polirone), tre nel 1095 (due dei quali per la fondazione dell’abbazia di St-Pierremont; nessuno in originale), uno nel 1097 (Urkunden… Mathilde, nn. 44-48). Negli anni successivi, invece, allontanatosi l’imperatore dall’Italia, ripresero le donazioni a istituzioni ecclesiastiche e assistenziali (ibid., nn. 49-51) tra Lombardia, Emilia e Toscana, e ricompare anche la sua funzione giurisdizionale, prima di tutto in favore del nuovo vescovo riformatore di Lucca, Rangerio (ibid., n. 52). Alla metà del 1098 si colloca la lettera di un cardinale Ugo a M. (che per Blumenthal, Opposition, p. 90, sarebbe del 1112; per l’altra datazione cfr. Cantarella, 1987, pp. 173-177) per convincerla a lasciare la fedeltà a «Turbanus» e collegarsi a Clemente III, in nome della unitas Ecclesiae, ma senza successo.
L’accorta e moderata politica di Urbano II e del suo successore Pasquale II, la sconfitta di Enrico IV, la morte di Clemente III avevano avuto per conseguenza il ritorno di molte delle città padane nelle mani di vescovi riformatori.
A Reggio si insediò Bonseniore, che fu poi spesso accanto a M. e fu legato pontificio in Lombardia; a Lucca Rangerio e a Modena, dopo un anno di vacanza della sede vescovile – una vacanza che non aveva impedito ai canonici della cattedrale e ai cittadini di avviare la costruzione della nuova cattedrale, nel 1099, auspice M. –, divenne vescovo il riformatore Dodone; a Milano si insediò il moderato Grosolano (1102); a Ferrara, riconquistata con l’aiuto dei Veneziani, M. cacciò il guibertista Samuele e impose un suo fedele, Landolfo; a Parma impose con la forza il vallombrosano Bernardo degli Uberti (agosto 1104).
Tornata di fatto nel pieno dei suoi poteri, M. poteva realizzare la sua politica di sostegno del Papato e, se non della Chiesa come istituzione, almeno delle chiese e dei monasteri locali che confermò nei loro diritti con numerosi privilegi e arricchì di ripetute donazioni. Tra essi un ruolo particolare ebbe il monastero di S. Benedetto Polirone, fondato dal suo avo Tedaldo nel 1007, che ricevette donazioni e conferme quasi ogni anno, dal 1100 al 1115. Tra esse spicca la donazione in favore del monastero dell’isola di San Benedetto, dell’aprile 1109, trascritta nell’Evangeliario (New York, The Morgan Library, Mss., 492), che contiene anche il celebre Liber vitae, con i nomi delle persone viventi che avevano beneficiato l’abbazia, e tra le prime M. (cfr. Mercati, 1927).
Anche le città furono oggetto della sua liberalità, in particolare Modena, dove M. assistette alla traslazione del corpo di s. Geminiano, assieme con papa Pasquale II, che nell’ottobre del 1106 consacrò anche la cattedrale di Parma e tenne il concilio di Guastalla. A lui M. fornì l’accompagnamento per il suo viaggio in Francia e per il suo ritorno a Roma l’anno dopo.
Il 7 ag. 1106 Enrico IV morì dopo essere stato imprigionato dal figlio Enrico V, che aveva preso il potere. La politica di questo fu inizialmente indirizzata a controllare la situazione in Germania; continuò la pratica delle investiture laiche e solo nel 1110 si mise in viaggio verso l’Italia per essere incoronato imperatore a Roma. M. si chiuse entro la rete dei suoi castelli appenninici; Enrico V le mandò ambasciatori e, secondo Donizone, a Bianello discussero «de pace […], de regis honore suoque» (Vita Mathildis, II, 1162): questo comportò che M., pur rifiutandosi di andare contro il papa, diede il via libera alle truppe imperiali attraverso i suoi territori, sperando in un accordo tra pontefice e imperatore. Alle trattative di pace tra Pasquale II ed Enrico V dovettero partecipare anche inviati di M., ma l’accordo di Sutri del 4 febbr. 1111 fu rotto dall’imperatore, che fece prigionieri il papa e i suoi più fedeli sostenitori, tra i quali Bernardo degli Uberti e Bonseniore. Allora il popolo romano insorse e l’imperatore dovette lasciare la città con i suoi ostaggi. La notizia di questi avvenimenti giunse rapidamente a Canossa e M. inviò subito Arduino Della Palude, suo fedele vassallo, per ricordare a Enrico V il loro patto e far liberare i due vescovi.
L’accordo di Bianello prevedeva dunque che l’imperatore non toccasse i fedeli di M., e forse anche che ella non intervenisse nelle questioni romane: difatti M. non fece nulla per il papa, che solo dopo aver ceduto a Enrico V il privilegio delle investiture e giurato che non lo avrebbe mai scomunicato fu liberato, dopo 60 giorni di prigionia, il 13 apr. 1111; dopo di che lo incoronò solennemente imperatore.
Nel viaggio di ritorno Enrico V si fermò tre giorni a Bianello, dove reinfeudò M. dei poteri pubblici che le erano stati sottratti col bando di Lucca, «in vice regis» (ibid., II, 1250-1259), probabilmente in cambio dell’eredità della contessa, che gli spettava per legami di parentela nella parte dei possessi allodiali, e istituzionali per i poteri delegati. Dopo questo atto Enrico V poté riprendere la via della Germania e da Verona, il 21 maggio, concesse un ampio diploma di conferma e protezione dei beni dell’abbazia di Polirone (Codice dipl. Polironiano, n. 78). Tra le clausole dell’accordo tra lui e M. doveva esserci anche l’abbandono da parte dell’imperatore del sostegno fino ad allora dato a Mantova, perché la contessa poté riconquistarla nel 1114; poco dopo, gravemente ammalata, si ritirò a Montebaranzone, nei dintorni di Prignano Secchia. Subito a Mantova si diffuse la falsa notizia della sua morte e di nuovo la città si scrollò di dosso il giogo dei Canossa; ma, rimessasi, M. costrinse la città alla resa: era la fine di ottobre del 1114. Di nuovo ammalatasi, M. si stabilì alla corte rurale di Bondeno di Roncore, presso Gonzaga e lì ricevette, durante il Natale, la visita di Ponzio, abate di Cluny.
M. morì a Bondeno di Roncore il 24 luglio 1115. Fu sepolta, come voleva, nella chiesa abbaziale di S. Benedetto Polirone, dove il suo corpo rimase sino al 1632, quando fu venduto dall’abate Andreasi a papa Urbano VIII e da questo trasferito in un sontuoso monumento in S. Pietro, opera di Gian Lorenzo Bernini.
Nel 1116 Enrico V giunse in Italia per prendere possesso dei beni allodiali della contessa, che nel 1133 Innocenzo II, assumendosene il diritto di proprietà in base all’asserita donazione di M., concesse all’imperatore Lotario III. Nasceva così, insieme con il conflitto tra Papato e Impero sui beni matildini, un vero e proprio mito di M., che si sviluppò in studi, biografie, espressioni artistiche, letterarie e musicali per tutto il secondo millennio, facendo di volta in volta M. capostipite di illustri dinastie (Estensi, Malaspina, Guidi, Canossa di Verona), infeudatrice di altre (Pico, Bentivoglio, Gonzaga) simbolo guerriero della Chiesa della controriforma, femminista ante litteram.
Oggetto di opposti giudizi, una serena valutazione di M. non può che evidenziare insieme con la forte personalità, in grado di reggere un potere vasto nella lotta in atto, l’importante ruolo da lei svolto in un momento cruciale della storia europea. Se all’inizio si adoperò come pacificatrice tra Papato e Impero, per quella concordia che era stata alla base del successo della sua dinastia, quando lo scontro divenne insanabile M. compì una scelta ideale a favore della riforma e di Gregorio VII, che andava contro i suoi interessi materiali e gli stessi doveri del suo grado. Così, mentre subiva le conseguenze di tale scelta, elaborava un progetto teso a costituire in Italia un contraltare al dominio imperiale, che si manifestava in precise alleanze politiche e nell’adozione di simboli del potere, come il suo signum o le litterae oblungatae negli atti di cancelleria, che prefiguravano in lei un ruolo principesco, ben rappresentato dal poema di Donizone. Alla fine della sua vita emerge invece la donna che rientra nei ranghi feudali, riconoscendo Enrico V ed essendo da lui reintegrata nei suoi poteri delegati, e si dedica da una parte alla riaffermazione del suo dominio e dall’altra al sostegno non più della Chiesa in generale, ma delle chiese locali e dei monasteri che a lei si affidavano.
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