Matrimoni, figli, parentela nel mondo romano
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Un giurista di età imperiale osserva che "non esiste altra società al mondo nella quale i genitori abbiano sui propri figli un potere maggiore di quello dei padri romani": un potere per certi versi persino superiore a quello di un padrone nei confronti dei propri schiavi. Il padre è in effetti al centro di una complessa rete di potere che si estende su liberi e servi, uomini e cose, moglie, figli, discendenti e che costituisce nel suo insieme la realtà della familia romana, solo approssimativamente assimilabile alla nozione moderna di famiglia. Altrettanto complesso e affascinante è l’ambito della parentela, con i suoi risvolti giuridici, nei quali emerge l’attitudine del diritto romano a dare un ordine rigoroso ai fatti umani, e quelli antropologici, che prescrivono comportamenti precisi nei confronti delle diverse figure cui il singolo è legato da rapporti di sangue o di matrimonio.
Non c’è nulla di più ingannevole dell’idea che la famiglia costituisca una sorta di universale culturale, un dato comune a tutte le società umane; e dunque nulla di più improprio che sovrapporre la nozione corrente di famiglia nella moderna cultura europea e nord-americana alla realtà del mondo antico. In questo come in numerosi altri casi, l’evidente derivazione linguistica – l’italiano "famiglia" è ovviamente l’esito romanzo del latino familia – rischia di occultare la profonda differenza fra le strutture che sono designate dai due termini, quello antico e il suo discendente moderno.
Nel caso del mondo romano la differenza apparirà immediatamente evidente se si considera che familia è sostantivo astratto derivato da famulus, "servo": un termine che il latino prende a sua volta in prestito dalla lingua osca, come sapevano già i lessicografi antichi, dato che in quell’antico idioma italico lo schiavo si indicava con il termine famel. Dunque familia è propriamente e anzitutto l’insieme degli schiavi, e precisamente degli schiavi "nati in casa" (differenti dai servi, che erano invece in origine prigionieri di guerra, e dunque schiavi acquisiti), e questo significato non andrà mai del tutto smarrito in latino: sicché familia rustica o urbana indicherà rispettivamente l’insieme degli schiavi addetti ad una proprietà di campagna o alla residenza del padrone in città, familia gladiatoria il personale di una scuola per gladiatori e così via.
Ma anche quando il termine familia finisce per indicare qualcosa di più simile alla nozione moderna che si designa come "famiglia", le differenze tra mondo romano e cultura occidentale contemporanea restano profonde: la familia a Roma antica è infatti l’insieme di quanto – persone e cose – è assoggettato all’autorità del medesimo pater familias, come appunto lo si definisce: e dunque anzitutto i beni mobili e immobili, che sono designati infatti nel loro complesso come res familiaris, "bene appartenente alla familia"; quindi gli schiavi e le schiave, che costituiscono la familia in senso proprio; ancora, i figli (a meno che non siano stati emancipati) e in generale i discendenti in linea maschile, i figli adottati o "arrogati", la moglie del pater familias e le mogli dei figli di quest’ultimo, purché abbiano contratto il matrimonio detto cum manu, che prevedeva cioè il passaggio dell’autorità sulla donna dal padre di quest’ultima al marito. Insomma, si tratta di un insieme piuttosto eterogeneo di relazioni, solo parzialmente organizzate intorno all’esistenza di legami "di sangue" e il cui carattere unificante è piuttosto rappresentato dalla comune sottoposizione delle diverse figure ad un’unica fonte di autorità: autorità che assume peraltro denominazioni diverse a seconda della persona su cui si esercita: patria potestas nel caso del rapporto con i figli, manus per quello con la moglie, dominica potestas, infine, per quanto attiene al potere esercitato sugli schiavi. Ulpiano, il grande giurista vissuto nell’età dei Severi, fra II e III secolo d.C. (morì nel 228 ucciso dai pretoriani, la guardia del corpo dell’imperatore, dei quali era divenuto prefetto), sintetizza con grande efficacia questa situazione complessa affermando che la familia in senso stretto è formata dall’insieme di quanti sono “sotto la potestà di uno solo o per natura o per diritto” (Digesto, 50.16.195.2).
Iustae nuptiae, "nozze conformi alla legge", sono nella cultura romana quelle celebrate tra quanti hanno diritto a sposarsi tra loro (dunque, cittadini romani o Romani e membri di altre comunità che hanno il diritto di "connubio" con Roma, fatto salvo il "divieto fino al sesto grado").
A dire il vero, la tradizione mitologica romana ricorda, alle origini della città, delle nozze che ben difficilmente si sarebbero potute definire iustae: privi di donne, Romolo e i suoi compagni avrebbero invitato gli abitanti delle città vicine, in particolare i Sabini, ad assistere ad uno spettacolo circense, cogliendo il pretesto per gettarsi sulle donne convenute in città, costringendole ad una unione "di fatto" che ebbe l’effetto di scatenare una sanguinosa guerra fra i rapitori e le famiglie delle ragazze rapite. Il mito del "ratto delle Sabine" però, come tutti i racconti di questo genere, non ha alcuna valenza immediatamente storica: esso serve da un lato a spiegare l’origine di alcuni rituali che venivano compiuti in epoca storica in occasione delle nozze – ad esempio il fatto che si simulasse il "rapimento" della sposa dal grembo della madre – e dall’altro a indicare a quali effetti perniciosi possa condurre il rifiuto di far circolare le donne: nel mito è infatti l’atteggiamento di chiusura dei padri sabini, il loro rifiuto di "cedere" le donne della propria famiglia, a mettere in moto il percorso che condurrà poi al ratto.
La forma più antica di matrimonio, riservata ai membri delle famiglie patrizie, è la confarreatio, che trae il proprio nome dal momento più significativo della cerimonia, allorché una focaccia di farro viene spezzata dai due contraenti; si tratta di un vero e proprio rito religioso, come dimostra la presenza del pontefice massimo, suprema autorità romana in questo campo; caduta presto in desuetudine, la confarreatio in età storica è praticata solo per il matrimonio del flamen Dialis, il sacerdote addetto al culto di Giove.
La coemptio, come chiarisce il suo nome (da emere, "acquistare"), mette in scena una sorta di "compera" della sposa (imaginaria venditio, "vendita simulata", secondo la definizione di un giurista dell’età imperiale): prevede la presenza di cinque testimoni e di un libripens, letteralmente "colui che pesa mediante una bilancia", e comporta l’acquisto della manus sulla sposa.
Infine, del tutto privo di formalità è l’usus, che assimila ancora una volta la moglie ad una res: come nel caso dell’usucapione, un anno di convivenza continuativa comporta l’acquisizione della manus sulla donna da parte del marito, se questi è sui iuris, cioè non sottoposto all’autorità di un ascendente maschio, del padre di questi in caso contrario.
Le cerimonie e le feste che si accompagnano al matrimonio romano devono essere estremamente suggestive (tali, almeno, appaiono attraverso i carmi nuziali del poeta Catullo); esse non hanno la funzione di porre in essere, per gli sposi, una nuova condizione giuridica, ma semplicemente di solennizzare agli occhi della comunità l’avvenuta unione. In estrema sintesi, la tradizione prevede la celebrazione di sacrifici e di un banchetto presso la casa della sposa, quindi il suo trasferimento, attraverso una processione serale alla luce delle fiaccole, alla dimora della coppia, in cui attende lo sposo. La moglie viene presa in braccio e condotta al di là della soglia, allo scopo di stornare il cattivo presagio legato ad una eventuale caduta proprio in un passaggio così delicato, quindi offre agli dèi acqua e fuoco.
Come prevedono formalità assai leggere per la sua costituzione, analogamente il matrimonio romano può essere sciolto con una certa facilità. In età arcaica il divorzio era riservato al solo marito e regolamentato da una legge attribuita a Romolo, che lo restringeva ai soli casi di procurato aborto all’insaputa del marito, di sottrazione delle chiavi della cantina e di adulterio; più tardi il diritto di divorziare viene riconosciuto anche alle donne; per considerare sciolto il matrimonio è sufficiente che venga meno la volontà di tenerlo in vita e che i coniugi cessino di convivere. Quella donna vissuta nel I secolo d.C. che ricorda gli anni attraverso i nomi dei mariti invece che, come di norma a Roma, attraverso quelli di consoli in carica è certamente un’invenzione satirica dell’epigrammista Marziale, ma attesta la diffusione della pratica del divorzio e la sua sostanziale accettazione sociale.
Un matrimonio non è fatto solo di riti e di regole istitutive: è fatto anche della concreta relazione fra i coniugi. Nessuna indagine sociologica o campionatura statistica potrà mai dirci cosa significasse realmente, per gli uomini e le donne di Roma antica, essere mariti o mogli; ma possiamo almeno ricostruire, per grandi linee, un modello culturale, la riflessione dei Romani su cosa dovesse essere un rapporto coniugale.
Lontanissimo dall’idea romantica dell’amore-passione, il matrimonio romano tende a configurarsi essenzialmente come un’alleanza tra famiglie potenti allo scopo di cementare sodalizi politici o favorire convergenze patrimoniali, oltre che naturalmente come lo spazio privilegiato per la procreazione legittima. I figli sono anzi lo scopo ultimo del matrimonio, come era chiaro sin dalla formula ufficiale di fidanzamento: “ti concedo mia figlia – dice il frasario di rito – liberum quaesundum causa, per l’ottenimento di figli legittimi”.
Tutto questo ha naturalmente delle conseguenze precise: amore, sessualità e matrimonio restano ben distinti; il sentimento coniugale – quando c’è, perché in ogni caso non si giudica da questo la "riuscita" di un matrimonio – consiste in un misto di stima, affetto, senso di protezione ed esercizio del dominio da un lato, di ammirazione devota (per un uomo che aveva spesso il doppio degli anni di sua moglie) e di sottomissione dall’altro.
Questo "basso profilo" del sentimento coniugale è evidente persino a livello linguistico: nella commedia latina, il genere letterario dove forse con più frequenza compaiono coppie sposate, il verbo "amare" e il sostantivo "amore" non si usano quasi mai a proposito della relazione coniugale: piuttosto essi designano la passione che il giovane prova per la cortigiana. È il caso di Panfilo, il protagonista di una commedia di Terenzio, il quale “a causa dell’amore non vuole prendere moglie”. Quale amore? Nel testo la cosa non è specificata, ma il pubblico capisce perfettamente: naturalmente quello per l’etera Glicerio. Ad analoghe conclusioni condurrebbe un’analisi sul lessico del bacio, che distingue rigorosamente l’osculum, il bacio casto scambiato tra coniugi e membri della cerchia familiare, dal savium o dal basium, il bacio appassionato degli amanti.
Come sempre accade, questo modello culturale genera anche un proprio galateo, che induce a giudicare disdicevole, quando non senz’altro ridicola, l’esibizione troppo scoperta del sentimento amoroso tra marito e moglie. Di Catone il Censore, figura simbolo dell’antica moralità romana e quindi testimone particolarmente affidabile per questo genere di questioni, si racconta che avesse rimosso dalla sua carica un senatore che aveva osato baciare sua moglie alla presenza della figlia; lui stesso, del resto, si vantava di non aver mai abbracciato la moglie. Quanto a Seneca, a lui si deve probabilmente una massima che avrà una straordinaria fortuna presso i moralisti cristiani, secondo la quale commette adulterio chiunque ami con passione eccessiva la propria moglie.
Ad analoghe conclusioni si giunge esaminando, per quanto consentito dalle testimonianze in nostro possesso, l’ambito della sessualità. Così, in una pagina del suo poema filosofico-scientifico, il De rerum natura, Lucrezio spiega che nel corso dell’atto sessuale le mogli dovrebbero mantenere una immobilità pressoché assoluta. I movimenti volti ad accrescere il piacere dell’amplesso sono una cosa da cortigiane, di cui “le nostre mogli non hanno alcun bisogno”. Anche perché questi movimenti possono avere un effetto abortivo: che se è legittimamente perseguito dalle professioniste del piacere, lo è assai meno dall’austera matrona, prolifica per dovere. Un sesso a destinazione eminentemente riproduttiva, sostiene insomma Lucrezio, non ha bisogno di quei lenocini che tenderebbero pericolosamente ad accostarlo al sesso orientato al piacere che è invece prerogativa delle prostitute.
In età imperiale questo modello va incontro tuttavia a mutamenti significativi. Ancora prima che la diffusione della nuova etica cristiana modifichi in profondità la concezione della sessualità e del matrimonio, già la cultura "pagana" del I-II secolo d.C. sembra attribuire nuovo valore alla famiglia, al legame coniugale, alla fedeltà, persino alla moderazione nell’esercizio della vita sessuale. È un modello che ci è noto soprattutto per le famiglie dell’élite: e si è fondatamente supposto che la progressiva emarginazione dell’aristocrazia dall’esercizio del potere politico, in una società che diventa sempre più spiccatamente autocratica, abbia indotto questo strato sociale a ricercare nell’ambito del privato, e della famiglia in prima istanza, la definizione e la realizzazione di sé ormai negate nella sfera pubblica.
Al mitico fondatore Romolo si attribuiscono norme che consentivano il divorzio, oltre che in caso di procurato aborto, anche quando la donna sottraeva le chiavi della cantina o commetteva adulterio.
Iniziamo da questo secondo aspetto, di immediata chiarezza. A Roma, come in molte altre culture, l’adulterio costituisce infatti la colpa femminile per eccellenza: esso introduce nel corpo della donna un seme estraneo, determinando quella che i giuristi romani definiscono turbatio sanguinis, "confusione del sangue", e rendendo così incerta la determinazione della paternità.
La stessa ragione, ad esempio, induce a stabilire in dieci mesi il tempo durante il quale la vedova non può convolare a nuove nozze, allo scopo di rendere inequivoca la paternità in caso di nuova gravidanza. Rimasta a lungo affidata all’iniziativa delle famiglie e delle persone coinvolte, la punizione dell’adulterio diviene per la prima volta un crimine pubblicamente perseguito in età augustea, con l’istituzione di un tribunale esplicitamente consacrato a dibattere questo genere di cause, la quaestio de adulteriis: la disciplina varata dal principe, all’interno della sua politica di moralizzazione dei costumi, indica puntualmente i casi in cui gli adùlteri possono essere messi a morte, a chi spetti questo diritto, quale debba essere il comportamento del marito e del padre dell’adultera e quali le sanzioni in caso di inadempienza dei rispettivi doveri. La legislazione augustea resterà sostanzialmente in vigore per tutta l’età imperiale; altra questione è quella della sua reale efficacia nel controllo dei comportamenti, che le invettive di poeti e moralisti inducono a ritenere piuttosto scarsa.
L’altra fattispecie prevista dalla legge di Romolo sul divorzio – la sottrazione delle chiavi della cantina – va probabilmente connessa al discusso divieto, per le donne romane, di consumare vino. L’esistenza di questo divieto è ripetutamente attestata nelle fonti antiche; anche lo ius osculi, il dovere cioè per una donna di baciare sulla bocca i propri congiunti, ha secondo gli antichi fondamentalmente la funzione di accertare che la donna non abbia consumato vino. L’interpretazione del divieto più accreditata dalle fonti antiche è che il vino predisponga all’adulterio: la norma sulle chiavi della cantina e quella sul divieto di relazioni extra-coniugali sarebbero insomma strettamente congiunte. Del resto, il dio Libero, oltre a presiedere alla vite e al vino, è per i Romani in generale il dio dei "semi liquidi", compreso il seme maschile: esiste dunque nella cultura romana una connessione simbolica molto forte tra il vino da un lato e il liquido seminale maschile dall’altro, che arricchisce di una nuova componente l’associazione tra vino e sessualità già individuata dalle fonti antiche.
Il termine parentela ha in latino essenzialmente la funzione di indicare la discendenza, l’origine di un ceppo familiare; è poi nel passaggio all’italiano e alle altre lingue romanze che la parola acquista il significato più ampio che ha per noi, quello di indicare l’insieme dei congiunti attraverso vincoli di sangue.
I latini distinguono, all’interno della parentela, fra tre forme possibili di relazione: la agnatio, la cognatio e la adfinitas. Prendiamo anzitutto in considerazione le prime due forme, lasciando magari la parola al giurista Gaio, autore nel II secolo d.C. di un manuale di giurisprudenza in quattro libri, giunto sino a noi: “sono agnati coloro che sono imparentati tramite persone di sesso maschile: come per esempio un fratello nato dallo stesso padre, il figlio del fratello o un nipote nato da lui, ovvero il fratello del padre, il figlio del fratello del padre o un nipote nato da lui” (Institutiones, 1, 156, trad. Maurizio Bettini).
Viceversa, seguendo ancora la classificazione di Gaio, “coloro che sono imparentati tramite persone di sesso femminile non sono agnati ma semplici cognati per diritto naturale: pertanto fra il fratello della madre e il figlio della sorella non c’è agnatio ma cognatio; allo stesso modo il figlio della sorella del padre o della sorella della madre non è per me un agnatus ma un cognatus” (ibid.). Altre fonti chiariscono che il termine cognatus si può usare in senso generico per includere tutti i congiunti, compresi gli stessi agnati, mentre lo stesso impiego estensivo non è ammesso per quest’ultimo lemma: in altri termini, tutti gli agnati sono definibili anche come cognati, mentre non è vero il contrario. Ne risulta in ogni caso enfatizzato il carattere speciale, "marcato", della parentela agnatizia.
Questa distinzione, in particolare nella cultura romana arcaica, è infatti tutt’altro che priva di significato, ma corrisponde anzi ad una ben diversa rilevanza che le due forme di parentela assumono nel diritto e nella vita reale: solo gli agnati, infatti, condividono il medesimo nome e gli stessi culti familiari; inoltre, originariamente i soli agnati sono ammessi a ereditare i beni di famiglia, e solo in un secondo momento la giurisprudenza del pretore includerà anche i cognati tra gli aventi diritto a subentrare nell’asse ereditario.
All’interno della cognatio, dunque della parentela generica, tanto "per via maschile" che "per via femminile", un semplice meccanismo di computo consente di individuare i "gradi" di parentela (chiamati in latino appunto gradus, letteralmente "gradino"): per fare questo, come diligentemente spiegano i giuristi romani, occorre contare tutti i passaggi che legano una persona ad un’altra della quale si voglia misurare, per così dire, la distanza, compresa la stessa persona di partenza e togliendo poi una unità alla fine del computo. Ad esempio, il nonno dista dal nipote (figlio del figlio) due gradi (nonno + padre + figlio meno 1), lo zio materno è congiunto di terzo grado con il figlio della sorella (zio materno + padre + sorella + figlio della sorella meno 1) e così via. Anche il sistema dei gradi di parentela non rimane un semplice tecnicismo giuridico: esso ha almeno una ricaduta estremamente importante per quanto riguarda il meccanismo delle interdizioni matrimoniali.