Abstract
Il matrimonio civile italiano risale al primo codice dell’Italia postunitaria (1865) e resta a lungo una contraddizione: un’istituzione deliberatamente laica e allo stesso tempo una parafrasi laica del matrimonio cattolico. La svolta costituzionale del 1948 determina l’evoluzione giuridica che oggi ha condotto il diritto matrimoniale italiano ad un duplice punto di svolta. Da un lato, alla maturazione di un modello matrimoniale civilistico indipendente dal modello matrimoniale cattolico della tradizione giuridica italiana. Dall’altro, al superamento del matrimonio stesso come modello esclusivo della coniugalità.
Il matrimonio civile viene introdotto in Italia nel 1865 con il primo Codice dello Stato postunitario. Nato come istituzione deliberatamente laica, il matrimonio-contratto civile si presenta alternativo e competitivo rispetto al matrimonio-sacramento della tradizione teologico/giuridica della Chiesa cattolica. Benché privo di connotazioni religiose, l’istituto assume e mantiene a lungo la struttura del matrimonio canonico: è indissolubile, monogamico, eterosessuale. Nel tempo il matrimonio civile recupererà anche una dimensione/finalità etica come «comunione materiale e spirituale» tra coniugi (art. 1, l. 1.12.1970, n. 898). Tuttavia l’evoluzione del matrimonio civile ormai appare soprattutto la storia della sua emancipazione dal modello matrimoniale cristiano-cattolico. In seguito alla svolta costituzionale del 1948, il progresso dell’ordinamento italiano ha condotto il modello matrimoniale del diritto civile sempre più lontano dal modello matrimoniale del diritto canonico. Negli anni Settanta del Novecento il matrimonio civile abbandona il dogma dell’indissolubilità, retaggio della concezione sacramentale del vincolo coniugale (l. n. 898/1970 e l. 19.5.1975, n. 151). Venuta meno l’indissolubilità matrimoniale, con le riforme del divorzio ‘facile’ (l. 10.11.2014, n. 162) e ‘breve’ (l. 6.5.2015, n. 55) sembra attenuarsi anche il principio della stabilità della relazione coniugale. Nel 2016 il riconoscimento delle unioni civili omosessuali e delle convivenze supera l’eterosessualità come paradigma delle relazioni affettive giuridicamente riconosciute e sancisce la crisi del matrimonio stesso come modello esclusivo della coniugalità (l. 20.5.2016, n. 76).
Già in epoca romana i caratteri essenziali del matrimonio sono la diversità sessuale, la monogamicità e una qualche attinenza alla sfera del sacro (Modestinus, l. 1 regularium). La stabilità dell’unione coniugale è condizionata al perdurare dell’affectio maritalis, secondo il principio per il quale, tramite il ripudio (della moglie), «per amore ci si sposa, per mancanza di amore ci si separa» (Lombardi, D., Storia del matrimonio. Dal Medioevo ad oggi, Bologna, 2008, 12). Con l’avvento del Cristianesimo e la sua istituzionalizzazione a religione dell’Impero, il matrimonio romano ricade sotto l’influenza della religione cristiana che lo concepisce come sacramento indissolubile. Il matrimonio cristiano si perfeziona poi in matrimonio canonico secondo il diritto e dentro la giurisdizione della Chiesa di Roma.
All’inizio dell’età moderna e per una rinnovata vitalità delle istituzioni politiche, i Paesi non cattolici comprendono la necessità di sottrarre al monopolio ecclesiastico un atto di grande rilevanza sociale come il matrimonio. Si apre in Europa una fase di deconfessionalizzazione e statualizzazione della materia matrimoniale. Il matrimonio civile viene istituito in Olanda nel 1580 e nel 1651 in Inghilterra. Ma il vero «punto d’arrivo della parabola ascendente delle rivendicazioni della Chiesa sul matrimonio» è la Rivoluzione francese (Moneta, P., Il matrimonio nel nuovo diritto canonico, IV ed., Genova, 2008, 17). Per la Costituzione francese del 14.9.1791, titolo II, art. 7, il matrimonio è soltanto un contratto, è indipendente dalle convinzioni religiose dei nubendi e ha fine con il divorzio. I principi del 1791 informano il Codice napoleonico del 1804: «la loi ne considère pas le mariage que comme un contrat civil». Il matrimonio-contratto, risposta laica al matrimonio-sacramento della religione cristiana, diventa in molti ordinamenti giuridici continentali il simbolo della distinzione tra dimensione politica e sfera religiosa, il separatismo.
Nel 1865, mutato il contesto politico e giuridico europeo, il primo Codice civile italiano, cd. Codice Pisanelli, adotta l’impostazione separatista della codificazione transalpina e introduce anche in Italia il matrimonio civile. Il matrimonio religioso canonico e la relativa giurisdizione ecclesiastica perdono ogni efficacia nell’ordine dello Stato. La disciplina del matrimonio civile è contenuta nel Libro I (Delle Persone), Titolo V (Del Matrimonio), artt. 53-158 del Codice emanato con l. 2.4.1865, n. 2215 e vigente dal 1866. Conformemente all’indirizzo liberale separatista del tempo e sulla scia dell’esperienza francese, per il Codice italiano il matrimonio è un contratto che risponde esclusivamente alle leggi civili (art. 156, co. 1) dunque «niuno può reclamare il titolo di coniuge e gli effetti civili del matrimonio, se non presenta l’atto di celebrazione estratto dai registri dello stato civile…» (art. 117). Il Codice Pisanelli rovescia la prospettiva con cui si era guardato alla libertà matrimoniale fino a quel momento. A parte regionali e temporanee esperienze di matrimonio ad effetti civili, negli Stati preunitari, vigente il solo matrimonio canonico, lo ius connubii era riservato ai cattolici. In modo solo apparentemente analogo, anche il neonato Stato italiano ammette soltanto il proprio matrimonio civile. Ma contrariamente al rito canonico, il rito civile non richiede alcuna appartenenza confessionale e così la libertà matrimoniale diventa anche in Italia un diritto di tutti: cattolici, non cattolici, atei. Non a caso il Codice Pisanelli verrà considerato la «‘carta’ del nuovo ordine sociale» (Ungari, P., Storia del diritto di famiglia in Italia (1796-1975), Bologna 2002, 94) e all’origine di «una delle molte fratture interne alla società italiana» che resero precaria l’edificazione dello Stato post-unitario (Aquarone, A., L’edificazione civile e i codici del 1865, Milano, 1960, 80). Ad esempio i cattolici sono tenuti a sposarsi due volte, religiosamente uti fideles, e civilmente uti cives, ma la diffidenza «nell’accettare il matrimonio senza-Dio» rende concreto il rischio che i cattolici rifiutino il matrimonio civile dando vita a unioni valide soltanto per la Chiesa (Passaniti, P., Diritto di famiglia e ordine sociale. Il percorso storico della ‘società coniugale’ in Italia, Milano, 2011, 265). Inoltre la separazione tra giurisdizioni matrimoniali, statale ed ecclesiastica, può di fatto consentire forme implicite di bigamia con la celebrazione di due matrimoni differenti, uno civile e uno religioso, con coniugi differenti. Viene così emanata la direttiva secondo cui il matrimonio religioso «deve essere celebrato in virtù della prova dell’avvenuto matrimonio civile o quantomeno della rassicurazione dell’intenzione di formalizzare l’unione anche sul piano civile» (Passaniti, P., Diritto di famiglia e ordine sociale, cit., 265). Tuttavia il Codice postunitario non riproduce le disposizioni più anticlericali della legge francese, come il divieto di celebrare il matrimonio religioso prima di quello civile. Il Codice Pisanelli non consente neppure il divorzio (art. 148); ammette, invece, la separazione (artt. 148-158). In generale, sia per il radicamento del cattolicesimo in Italia, sia per la secolare esperienza del diritto canonico in materia matrimoniale, nel 1865 il matrimonio civile appare in realtà la parafrasi laica del matrimonio canonico specialmente nei requisiti di capacità e nelle fattispecie di invalidità.
Sotto il fascismo, il diritto di famiglia del Codice civile italiano del 1942 si presenta nel suo insieme in linea di stretta continuità con la legislazione del 1865, a cominciare dal modello eterosessuale-monogamico e dai principi dell’indissolubilità, della potestà maritale e della patria potestà. Quanto all’indissolubilità, nel 1942 come nel 1865 «il matrimonio non si scioglie che con la morte di uno dei coniugi» (art. 149 c.c. 1842; cfr. art. 148 c.c. 1865). Quanto alla potestà maritale, l’art. 144 del codice precostituzionale assegna al marito il ruolo inequivocabile di «capo della famiglia»; perentoriamente obbliga la moglie «ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza»; stabilisce che sia lei ad assumerne il cognome e a «seguire la condizione civile di lui» (cfr. art. 131 c.c. 1865). La giurisprudenza radicalizza la subalternità della moglie al marito. I giudici dell’epoca riconoscono al marito il potere di definire il tenore della vita coniugale, di decidere in ultima istanza sulle controversie familiari, di controllare la corrispondenza della moglie, di vietarle la frequentazione di persone sgradite, di stabilire se il lavoro della moglie sia conciliabile con la dovuta dedizione alla famiglia. Anche la separazione, nei casi tassativi dell’art. 151, rispecchia l’impostazione discriminatoria del rapporto coniugale. «L’azione di separazione», ammessa per l’infedeltà della moglie, non è ammessa «per l’adulterio del marito» se non quando «costituisca un’ingiuria grave alla moglie» (cfr. art. 150, co. 2, c.c. 1865). Se nel rapporto personale il marito beneficia di una posizione di indubbia superiorità, sotto il profilo patrimoniale ricade su di lui, secondo la distinzione dei ruoli allora socialmente accettata, il dovere «di proteggere la moglie», di «tenerla presso di sé» e di «somministrarle tutto ciò che è necessario ai bisogni della vita» (art. 145 c.c. 1942; cfr. art. 132 c.c. 1865). La donna «è tenuta a sostenere i «pesi del matrimonio» con la «dote» cioè quei beni che «la moglie o altri per essa apporta espressamente a questo titolo» (art. 177) e al mantenimento del marito solo quando «questi non ha mezzi sufficienti» (art. 145, co. 2). La separazione dei beni è il regime patrimoniale legale (art. 215).
Si chiama invece patria potestà il potere nei confronti dei figli, così chiamato in quanto riconosciuto soltanto al padre capo della famiglia, e in via eccezionale alla madre dopo la morte o in caso di lontananza o impedimento del marito (artt. 316-317 c.c. 1942) (cfr. artt. 220 c.c. 1865 rubricata come patria podestà). Incombe invece su entrambi i genitori l’obbligo di mantenere, educare e istruire la prole (art. 147, co. 1 c.c. 1942; ma cfr. art. 138, co. 1 c.c. 1865). È anche prescritto (art. 147, co. 2) che l’educazione e l’istruzione dei figli debbano conformarsi «ai principi della morale e al sentimento nazionale fascista». Si tratta di «una delle più scoperte intrusioni del regime all’interno del nucleo familiare» (Bonini, R., Disegno storico del diritto privato italiano. Dal Codice civile del 1865 al Codice civile del 1942, III. ed., Torino, 1996, 137).
Caduto il fascismo, la Costituzione riformula i fondamenti dell’ordinamento italiano e pone le premesse di un nuovo diritto matrimoniale. Il principio dell’uguale libertà di tutte le Chiese (art. 8) supera il Cattolicesimo di Stato. Sono proclamati i diritti umani (art. 2) e l’uguaglianza formale e sostanziale degli uomini senza distinzioni «di sesso» e «di religione» (art. 3). Il matrimonio dell’art. 29 Cost. it. è ora «ordinato all’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi». Eppure la prospettiva matrimoniale del 1948 è ancora tradizionale. La famiglia è una «società naturale» dunque portatrice di valori pregiuridici. L’art. 30 ne evoca la potenzialità procreativa e il matrimonio ne è il «fondamento». Il modello matrimoniale delineato da norme costituzionali e fonti subordinate è ancora eterosessuale, monogamico, indissolubile e con accentuati, se non prevalenti, profili giuspubblicistici. Tuttavia, alla luce del nuovo paradigma costituzionale, la giurisprudenza degli anni ’60 e poi la legislazione degli anni ‘70 modificano profondamente i principi dell’ordine pubblico matrimoniale italiano.
Nel 1966 la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità dell’art. 156 c.c. che in caso di separazione consensuale senza colpa disponeva la quantificazione del dovuto per il sostentamento della moglie indipendentemente dalle sue condizioni economiche (C. cost., 23.5.1966, n. 46). Con due sentenze successive (C. cost. 19.12.1968, nn. 126 e 127) i giudici della Consulta dichiarano prima l’incostituzionalità dell’art. 559 c.p. che considerava reato l’infedeltà della moglie e non l’infedeltà del marito, e poi l’incostituzionalità dell’art. 151 c.c. che tra le cause di separazione non prevedeva l’adulterio del marito, ma includeva l’adulterio della moglie.
La spinta della giurisprudenza costituzionale conduce all’approvazione della legge sul divorzio (l. n. 898/1970). Con il divorzio cade il dogma dell’indissolubilità: il matrimonio si scioglie non più soltanto con la morte di uno dei coniugi (art. 149 c.c.), ma anche quando sia accertata giudizialmente l’impossibilità di mantenere o ricostituire «la comunione materiale e spirituale tra i coniugi» (art. 1, l. n. 898/1970) rispetto ai casi tipizzati dall’art. 3, l. n. 898/1970, tra cui la separazione. È la seconda volta dal 1865 che lo Stato prende le distanze dalla Chiesa cattolica in materia matrimoniale, ma è la prima vera frattura tra i modelli giuridici del matrimonio civile, ormai dissolubile, e del matrimonio canonico, sempre indissolubile.
Cinque anni più tardi, con la riforma del diritto di famiglia, cadono anche gli altri principi ereditati dalle precedenti codificazioni. La l. n. 151/1975 afferma la parità coniugale sia morale, sia patrimoniale, tanto rispetto ai doveri reciproci, estinguendo la potestas maritalis, quanto rispetto ai figli, abolendo la patria potestà; elimina la dote e introduce il regime legale di comunione dei beni; con le norme sul cd. matrimonio putativo (e non solo) riconosce una specifica rilevanza e tutela alla buona fede/affidamento del coniuge incolpevole; attribuisce anche alla madre e al figlio legittimazione ad agire per il disconoscimento della paternità; riconosce i figli nati fuori dal matrimonio e la possibilità illimitata per la ricerca giudiziaria della paternità naturale; migliora la posizione successoria del coniuge e dei figli naturali; prevede la possibilità di intervento della magistratura in casi di contrasto tra coniugi sulla conduzione di vita familiare; sposta l’età per contrarre matrimonio da 16 a 18 anni.
Al termine del processo di riforme avviato dalla Costituzione e sviluppato dall’ermeneutica costituzionale e nella legislazione, l’ordine pubblico matrimoniale italiano è ricostruito intorno a tre principi paradigmatici: la parità coniugale, che trasforma la famiglia da patriarcale a democratica; l’autodeterminazione coniugale, che sostituisce il divorzio all’indissolubilità; l’effettività dell’unione coniugale, che valorizza il principio sostanzialistico della rilevanza dell’autenticità della comunione materiale/spirituale tra coniugi rispetto al principio consensualistico della rilevanza della manifestazione della volontà matrimoniale.
Dal 1865 al 1929 l’ordinamento matrimoniale italiano si presenta come un regime di monopolio matrimoniale dove l’ideale separatista ammette solo il matrimonio civile. L’evoluzione giuridica determina il passaggio ad un regime di pluralismo matrimoniale in cui la convivenza di fattispecie matrimoniali diverse e alternative comprime gli spazi di operatività del matrimonio civile puro. Alla diversificazione delle fattispecie matrimoniali non corrisponde tuttavia una pluralità di modelli matrimoniali. Indipendentemente dalla forma, religiosa o civile, il modello giuridico matrimoniale in Italia resta eterosessuale, monogamico e con caratteri, più o meno accentuati, di stabilità.
Il passaggio dell’ordinamento italiano al pluralismo matrimoniale si compie nel 1929 quando il Concordato lateranense riconosce al matrimonio religioso cattolico gli stessi effetti del matrimonio civile (art. 5, l. 27.5.1929, n. 847). Il matrimonio cd. “concordatario”, accessibile soltanto ai cattolici, è religioso nell’atto poiché segue il diritto e il rito canonico, e ambivalente negli effetti, cioè valido nell’ordine della Chiesa cattolica e al tempo stesso anche in Italia. L’istituto, a carattere privilegiario, è coerente con il più generale status privilegiato del cattolicesimo-religione di Stato.
Nel 1929/30 si deve poi alla cd. Legge sui culti ammessi, l. 24.6.1929, n. 1159 e alle disposizioni degli artt. 7-12 sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi il riconoscimento in Italia dei matrimoni celebrati nelle forme peculiari previste dai culti non cattolici.
Il pluralismo matrimoniale nato in applicazione del confessionismo fascista si è infine sviluppato per eterogenesi dei fini come implicazione del pluralismo confessionale repubblicano (art. 8 Cost.) includendo le tipologie matrimoniali regolate per legge in base alle intese stipulate dallo Stato con le confessioni acattoliche dal 1984 ad oggi.
Rispetto al matrimonio concordatario, che configura un’autonoma tipologia matrimoniale, per il matrimonio degli acattolici è preferibile parlare di matrimonio civile celebrato in forma speciale in quanto rispondente alla disciplina del matrimonio civile ai sensi dell’art. 83 c.c. (Matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti ammessi nello Stato) e fatti salvi il regime comune dei culti ammessi e speciale delle Intese.
L’insieme dei matrimoni ad effetti civili e matrimoni civili in forma speciale alternativi al matrimonio civile puro degli artt. 29-31 Cost., artt. 79-230bis c.c. (e leggi speciali correlate) è ormai significativo:
a) il matrimonio concordatario, cioè il matrimonio canonico ad effetti civili (art. 8, l. 25.03.1985, n. 121; n. 4 Prot. Add. Conc; l. n. 847/1929 nelle parti non abrogate dagli artt. 8 e 13, l. n. 121/1985; art. 82 c.c. Matrimonio celebrato davanti a ministro del culto cattolico; art. 2, l. 31.05.1995, n. 218; artt. 796-797 c.p.c.); b) il matrimonio dei fedeli delle confessioni acattoliche senza intesa (art. 83 c.c. Matrimonio celebrato davanti a ministri dei culti ammessi nello Stato; artt. 7-12, l. n. 1159/1929; artt. 25-28, R.d. 289/1930); c) dal 1984, in seguito alle intese, i matrimoni dei fedeli delle confessioni acattoliche con intesa (art. 83 c.c. e leggi ordinarie di approvazione delle Intese).
Sono in diversa misura soggette alla disciplina del matrimonio civile due ulteriori fattispecie matrimoniali con requisiti non confessionali di specificità: d) il matrimonio del cittadino italiano all’estero (art. 115 c.c.; l. n. 218/1995); e) il matrimonio dello straniero in Italia (art. 116 c.c.; l. n. 218/1995).
Restano invece esterni all’ordinamento statale, ma ugualmente vigenti anche in Italia, i matrimoni puramente religiosi: il matrimonio-sacramento disciplinato dal Codex iuris canonici del 1983 (cann. 1055-1165) e fonti correlate (Decreto generale CEI sul matrimonio canonico, 1990; Istruzione Dignitas connubii, 2005; Motu proprio Mitis iudex 2015), e gli altri matrimoni puramente religiosi regolati dai rispettivi ordinamenti confessionali.
Nel 1970 il divorzio avvia un processo di privatizzazione e secolarizzazione del matrimonio a discapito dei profili pubblicistici dell’istituto. Il processo prosegue sulla rotta di due movimenti simultanei e complementari: la subordinazione del principio consensualistico all’autonomia negoziale e la valorizzazione del momento affettivo su quello oggettivo del diritto. Tuttavia, nel 1970 l’ideale dell’indissolubilità, venuto meno come imposizione legislativa, resiste nel principio della stabilità familiare difeso anche dalla legge sul divorzio e, cinque anni dopo, nella legge di riforma del diritto di famiglia. Nel loro insieme le disposizioni del 1970-1975 risultano infatti protettive della stabilità familiare a partire dalla previsione dello scioglimento del vincolo tramite un doppio procedimento, prima la causa di separazione e poi il giudizio di divorzio. Allora la separazione è concepita come «situazione ontologicamente transitoria nella prospettiva di una difesa ad oltranza della famiglia … in vista di una ricomposizione dell’unione coniugale» (Giovagnoli, R., Separazione e divorzio. Percorsi giurisprudenziali, Milano 2009, 52). Nella stessa prospettiva, il divorzio oggettivizza l’irreversibilità di una crisi familiare alla quale non si è saputo, ma si sarebbe dovuto porre rimedio, ne incorpora lo specifico disvalore morale e giuridico. E così la legge paternalisticamente lo scoraggia.
Circa quarant’anni dopo, le riforme del divorzio cd. “facile” e poi “breve” del biennio 2014-2015 suggeriscono un diverso punto di vista. La semplificazione insieme all’accelerazione del divorzio accentuano l’autodeterminazione coniugale, normalizzano la fine dell’unità familiare e così sembrano mettere in discussione il matrimonio perfino come unione a carattere stabile. Il matrimonio si riposiziona sempre più all’interno del diritto privato. Nello stesso momento, per un paradosso (apparente), la centralità riconosciuta all’ufficiale di stato civile nel divorzio “facile” sembra attrarre il matrimonio anche nell’orbita del diritto (pubblico) amministrativo.
La l. n. 162/2014 ha infatti introdotto il divorzio ‘facile’ in due differenti modalità, entrambe fruibili solo nei casi di divorzio consensuale ed entrambe applicabili anche alla fase prodromica della separazione con soluzioni consensuali. Una di queste modalità, accessibile in assenza di patti di trasferimento patrimoniale, di figli minori, maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave, prevede che i coniugi possano avviare un procedimento davanti all’ufficiale di stato civile mediante dichiarazione di volersi separare/voler sciogliere il vincolo anche senza l’assistenza di un avvocato «facoltativa» ai sensi dell’art. 12.
La l. n. 55/2015 ha ridotto i tempi per lo scioglimento del vincolo matrimoniale. Si parla di divorzio “breve”, ma in realtà la legge abbatte i tempi di separazione. La legge riduce questo periodo da 3 anni a 6 mesi se c’è l’accordo delle parti (separazione con soluzioni consensuali); a 12 mesi quando non c’è (separazione giudiziale).
Infine: la proposta, respinta, del cd. divorzio immediato (senza preventiva separazione), e quella, ancora pendente, dei cd. patti prematrimoniali (convenzioni anteriori al matrimonio con cui regolare l’eventuale separazione e/o scioglimento/cessazione degli effetti civili del matrimonio) sembrano indicare, internamente ad un più ampio processo di privatizzazione del matrimonio, una tendenza specifica alla neo-contrattualizzazione dell’istituto.
Nella tradizione giuridica europea, il matrimonio ha rappresentato il modello esclusivo della coniugalità. Le relazioni affettive sono state riconosciute legittime e coniugali se costituite con atto di matrimonio: coniugi è stato sinonimo di uniti in matrimonio.
Nell’attuale esperienza giuridica europea il rapporto tra matrimonio e coniugalità è in evoluzione da quando il matrimonio ha iniziato a perdere la sua specificità giuridica. La crisi dell’istituto matrimoniale e l’evoluzione del rapporto tra matrimonio e coniugalità hanno le stesse ragioni di fondo: la matrimonializzazione delle unioni civili e lo snaturamento del modello matrimoniale tradizionale.
La matrimonializzazione delle unioni civili indica la progressiva assimilazione della disciplina delle unioni more uxorio alla disciplina del matrimonio. Pertanto, negli Stati dove sono riconosciute, le unioni civili costituiscono oggi un modello coniugale alternativo e indipendente dalla formale attribuzione ai partners dello status di coniugi.
Lo snaturamento del modello matrimoniale tradizionale è stato sancito, con l’introduzione del matrimonio omosessuale, dall’abbandono del paradigma dell’eterosessualità al quale è corrisposta l’estensione del campo applicativo dell’istituto matrimoniale.
Nei sistemi giuridici contemporanei la coniugalità presenta quindi almeno due accezioni giuridiche.
In alcuni ordinamenti la nozione di coniugalità ormai include l’insieme delle relazioni affettive giuridicamente riconosciute e due modelli di coniugalità: un modello matrimoniale di coniugalità, quando la relazione coniugale è costituita per atto di matrimonio; un modello non matrimoniale di coniugalità, quando la rilevanza giuridica della convivenza more uxorio prescinde dall’atto di matrimonio.
In altri ordinamenti, tra cui l’Italia, la coniugalità resta vincolata all’istituto matrimoniale. In questa seconda accezione, la coniugalità distingue le relazioni coniugali da quelle non coniugali. Sono coniugali soltanto i rapporti il cui fondamento giuridico è il matrimonio. Sono invece non coniugali tutte le relazioni affettive non riconducibili al matrimonio con o senza rilevanza giuridica.
In Italia le relazioni alternative al modello matrimoniale eterosessuale sono rimaste a lungo e per definizione ‘non coniugali’, quindi prive di rilevanza giuridica. Dal 2016, sotto la spinta della giurisprudenza nazionale ed europea, hanno avuto riconoscimento giuridico in Italia anche le relazioni affettive alternative ai rapporti propriamente coniugali fondati sul matrimonio. La l. n. 76/2016 ha introdotto nell’ordinamento italiano le unioni civili tra persone dello stesso sesso e le convivenze di fatto tra «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale …» (art. 1, co. 36). Conformemente alle indicazioni della giurisprudenza costituzionale e di legittimità la cd. Legge Cirinnà, dal nome della prima firmataria Monica Cirinnà (del Partito Democratico), assicura alle unioni omosessuali un trattamento «omogeneo» rispetto alla «coppia coniugata» (C. cost., 15.4.2010, n. 138; Cass., 15.3.2012, n. 4184). Il testo di legge rende così effettivo anche in Italia il diritto alla vita familiare senza connotazione sessuali enunciato dalle Carte internazionali dei diritti (artt. 8 e 12 ECHR; artt. 7 e 9 Carta di Nizza). La legge riconosce l’unione civile omosessuale «quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione» (art. 1) difendendo la specificità della famiglia fondata sul matrimonio e sull’art. 29 della Costituzione. Tuttavia, sia pure soltanto al fine «di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivante dall’unione civile tra persone dello stesso sesso», si applicano alle unioni civili tutte «le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e … contenenti le parole ‘coniuge’ o termini equivalenti» (art. 1, co. 20). Così, mentre i diversi riferimenti costituzionali escludono l’equiparazione tra unione civile e unione matrimoniale, la disciplina delle unioni civili delinea un’inedita e più ampia categoria di coniugalità che sostanzialmente assorbe le relazione affettive giuridicamente riconosciute nel loro insiene, sia propriamente coniugali perché matrimoniali, sia mediatamente coniugali benché non matrimoniali. Il baricentro dell’ordine pubblico familiare italiano sembra ormai spostarsi dal matrimonio alla coniugalità.
Artt. 2; 3; 8; 29; 30 Cost.; c.c. 1865; c.c. 1942; l. 27.5.1929, n. 810; l. 24.6.1929, n. 1159; l. 1.12.1970, n. 898; l. 19.5.1975, n. 151; l. 25.3.1985, n. 121; l. 31.5.1995, n. 218; l. 10.11.2014, n. 162; l. 6.5.2015, n. 55; l. 20.5.2016, n. 76; artt. 8, 12 ECHR; artt. 7, 9 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
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