MATRIMONIO (fr. mariage; sp. matrimonio; ted. Ehe; ingl. marriage)
È l'unione fisica, morale e legale dell'uomo (marito) e della donna (moghe) in completa comunità di vita al fine di fondare la famiglia e perpetuare la specie.
Sommario. - Il matrimonio presso i primitivi (p. 573). - Il matrimonio nel mondo orientale: Egitto (p. 575); Semiti primitivi (p. 575); Babilonia e Assiria (p. 575); Persia (p. 575); India (p. 575); Cina (p. 575); Giappone (p. 575); Il matrimonio musulmano (p. 576); Il matrimonio ebraico (p. 577). - Il matrimonio nel mondo classico: Grecia (p. 578); Roma (p. 580). - Il matrimonio nel Medioevo e nell'età moderna: Diritto germanico (p. 582); Diritto della Chiesa (p. 583); Il matrimonio civile (p. 584). - Il matrimonio nelle legislazioni contemporanee: Diritto italiano (pagina 585); Legislazioni estere (p. 586). - Folklore (p. 586). - Matrimonio morganatico (p. 587). - Seconde nozze (p. 587). - Statistica della nuzialità (p. 588).
Il matrimonio presso i primitivi.
Il termine matrimonio nel senso in cui noi lo adoperiamo, non ha l'adeguata corrispondenza negli usi delle popolazioni primitive, presso cui le unioni coniugali hanno forme svariatissime per la complessità degli atti e dei rapporti, per la durata del tempo e altri fatti.
Basate spesso sopra legami fragilissimi, siffatte unioni s'infrangono, presso molte genti, alla più piccola occasione; ovvero non si prolungano oltre una giornata o una settimana, come nei matrimonî transitorî degl'Indiani dell'America Settentrionale, dei Botocudo del Brasile, dei Samoani, dei Tahitiani; o non vanno al di là del tempo prestabilito, come nei ,"matrimonî a termine" o "per mercede" degli Abissini; o non oltre l'esperimento della fecondità della donna, come nei "matrimonî a prova" dei Groenlandesi, dei Patagoni e di varie tribù australiane (Victoria occ.). Pochi sono i popoli che concepiscono il vincolo coniugale come indissolubile; ma, fra i pochi, sono i più rozzi della terra, comé i Vedda, gli Andamanesi e varie tribù Papua. Nella maggior parte degli altri la separazione, sotto la forma di abbandono, di ripudio, di divorzio, è largamente praticata, spesso per la volontà del marito, che discaccia dall'abitazione la moglie; meno spesso per il deliberato proposito della donna, che deserta il tetto maritale. I motivi sono ora gravi, come la sterilità della donna, l'infedeltà, le malattie inguaribili, i maltrattamenti, la lunga assenza di uno dei coniugi; e ora, invece, lievi o futili. Presso varie tribù dell'Africa orientale e centrale è stata segnalata, fra le cause che possono dare luogo al divorzio da parte della donna, la trascuratezza del marito, specialmente se egli ometta di cucire gl'indumenti necessarî alla moglie.
Dalla disposizione che mostrano i popoli a contrarli con persone della famiglia, della parentela o della tribù; o, al contrario, con persone estranee al proprio gruppo, i rapporti matrimoniali si chiamano endogamici o esogamici (v. esogamia) secondo la terminologia di J. F. McLennan, che primo scoprì il fenomeno dell'endogamia o endogenia e dell'esogamia o esogenia.
Presso varie tribù dell'India, p. es., si ritengono obbrobriose le nozze di una fanciulla di un clan con un uomo di un altro clan.
Una forma estrema di endogamia, la cui origine probabilmente va rintracciata nella promiscuità clanica, è il matrimonio tra fratello e sorella, che si è osservato in varî luoghi, sebbene per lo più entro l'ambito delle classi sociali più elevate. Esempî di tali unioni si hanno nelle famiglie reali del Baghirmi, del Darfur, del Siam, di Ceylon e nella Polinesia. In Hoina (Madagascar) quando il re sposa una sorella, particolari cerimonie vengono eseguite per la felicità e la fecondità della coppia. Gl'indigeni delle Hawaii, pur ammettendo simili matrimoni nelle famiglie dei nobili, non li tolleravano, anzi li biasimavano nelle classi basse. Fra le norme che regolano l'endogamia non va dimenticata quella dei Vedda, presso cui il fratello può sposare la sorella, ma non la sorella maggiore di età. Partecipano del principio endogenico le unioni obbligatorie entro le caste o le classi, fatte allo scopo di mantenere integra la purezza del sangue o delle tradizioni genealogiche. Per i popoli delle sole Marianne i nobili si distinguono dai plebei per l'anima immortale e però è punito con la morte chi, fra quelli, osi sposare una fanciulla del popolo. I tre grandi ceti - nobili, popolani e schiavi - in cui si dividono gli Hova (Madagascar), celebrano i matrimonî, per vecchia consuetudine, ciascuno nella propria cerchia; ad analogo ordine sono sottoposti i fabbri, i vasai, i menestrelli nell'Abissinia e in altri, paesi dell'Africa orientale, ove si trovano raggruppati in speciali caste servili.
L'orrore del sangue, cioè dei rapporti sessuali fra consanguinei, è alla base delle unioni esogamiche, le quali sono variamente stabilite a seconda che l'interdizione o tabu riguarda il gruppo intero o il sottogruppo, il totem, il clan, la tribù. Varie tradizioni degli Algonchini riferiscono d'individui messi a morte per aver infranto la legge di non sposare nella propria tribù; e tuttora per i Loucheux il contrarre matrimonio con una donna della propria tribù è come lo sposare la sorella, quantunque fra i due coniugi non esista vincolo di sangue. Presso molte genti la proibizione ha un campo più ristretto: il clan. La tribù Seneca degl'Irochesi si divide in due sezioni e ciascuna di queste, poi, in quattro clan, spesso costituiti in fratrie. Il connubio, che è interdetto fra i componenti di ciascuna di esse, è permesso, invece, fra i componenti di due fratrie differenti. In fratrie sono organizzate parecchie tribù australiane e americane, e ogni fratria è divisa in più clan, che formano dei veri e proprî aggruppamenti esogamici (v. fratria).
Secondo É. Durkheim l'esogamia sarebbe la caratteristica del clan totemico, per la mitica genealogia che affratella tutti i suoi membri; ma, ordinariamente, essa è in rapporto col sistema di parentela adottato o seguito dai differenti nuclei etnici. Secondo che la genealogia segue la linea femminile o maschile, il matrimonio è vietato nella parentela materna e ammesso in quella del padre, o viceversa.
I primi accenni alla sistemazione dei rapporti sessuali e dei legami di parentela allo scopo di assicurare l'esistenza e l'allevamento della prole, si debbono cercare nei cosiddetti "matrimonî di gruppo", che alcuni etnologi, fra cui J. Lubbock, hanno scambiato con lo "stato primitivo di promiscuità", che nessun popolo della terra ai nostri giorni pratica, ove si faccia eccezione di qualche piccolo nucleo etnico, come gli Olo-Ot di Borneo, su cui però non si hanno precise infomazioni. Studiata da A. W. Howitt e da L. Fison questa singolare forma di matrimonio, che si trova tra alcune popolazioni del centro dell'Australia (Dieri) e dell'India (Nair, Toda, ecc.), talvolta in maniera accentuata, consiste in una specie di matrimonio collettivo fra gli uomini e le donne di due clan, tenuti per nascita ad avere relazionì sessuali.
L'esogamia è alla base dell'istituzione, sebbene A. E. Post creda di poter scorgere in tali relazioni collettive, per cui gli uomini di un gruppo possono unirsi con tutte le donne di un altro determinato gruppo, anche una tendenza endogamica. La figura più semplice del "gruppo matrimoniale" s' incontra nella tribù australiana dei Wotioballuk (NO. Victoria), la quale è ripartita in due clan, coi nomi di Gamutch e Krokitch. Gli uomini del primo sono di diritto mariti di tutte le donne del secondo; e, reciprocamente, gli uomini del secondo, mariti delle donne del primo; ma il diritto è puramente virtuale, giacché nella pratica è il consiglio degli anziani che, durante le feste iniziatiche, distribuisce tra i giovanetti di un clan le fanciulle disponibili dell'altro clan. Questo singolare connubio che i Dieri chiamano pirrauru, dal coniuge aggiunto che soppianta il tippa-malku o marito legale o della mano destra, attribuisce a ogni uomo Gamutch il diritto di congiungersi all'occasione (assenza del tippa-malku) con ogni donna Krokitch, e dl condurre con sé una o più di tali donne e di farle convivere con la moglie legittima.
Forma derivata dal matrimonio di gruppo (per il fatto che, in origine, non è l'individuo che sposa, ma la famiglia) si ritiene la poliandria per la quale una donna può convivere con più mariti, che possono essere fratelli (poliandria fraterna) e talvolta possono anche comprendere gli zii e i nipoti.
Sopravvivenze di questa specie di matrimonio collettivo o familiare si può credere siano il levirato e altre forme di matrimonî, come quella in uso fra i Reddi (India), presso cui una giovanetta sposa legalmente un bambino di 5 o 6 anni (marito costituzionale") ma diviene, di fatto, moglie dello zio o del cugino del marito.
Dal matrimonio tra fratelli e sorelle avrebbe tratto origine la poligamia, la quale è molto diffusa sulla terra, sia nella forma pura di un uomo con più mogli legittime (Australia, America, Nigrizia, ecc.), sia nella forma attenuata di concubinato legale (Oriente) o illegale, sia nella forma di matrimonio temporaneo (Giappone, Persia). La molteplicità delle mogli (che presso i vecchi re africani dell'Uganda, dell'Unioro, dell'Ascianti, del Loango ammontavano a centinaia) determina il predominio di una sopra le altre.
La predominante è quasi sempre l'anziana, ossia la prima in ordine di data, e talora la più feconda, la più vigorosa, la più bella, oppure viene scelta in una categoria o casta privilegiata ed è sposata con un rito speciale, come avviene fra i Basuto, che la chiamano "moglie grande", per distinguerla dalle altre, che sono subordinate alla prima.
La constatazione di queste circostanze, tanto in regime poliginico, quanto in regime poliandrico, per il prevalere di una moglie o per il sopravvento di un marito, che può essere il primogenito di più fratelli, ha fatto supporre che la monogamia sia una derivazione dal matrimonio complesso di un uomo con parecchie donne o di una donna con parecchi uomini. Ma, in verità, la monogamia si trova tra popolazioni allo stato primitivo, che non mostrano tracce di altre forme matrimoniali, come i Vedda di Ceylon, gl'isolani delle Andamane, gli aborigeni della penisola di Malacca, i Negritos delle Filippine, gli Eula, i Karwella, i Tumberri, i Birria dell'Australia, alcuni Pigmei dell'Africa centrale, varie tribù cafre e ottentotte, alcuni gruppi di Indiani dell'America Meridionale.
Gli atti che nella vita popolare dei primitivi intervengono a formare o a sanzionare le unioni coniugali, possono rappresentare o il contrasto delle parti, per il possesso forzato o violento della donna; o l'accordo delle stesse, per la cessione della sposa. Da qui i due principali tipi di connubio, che portano i nomi di matrimonio per ratto e di matrimonio per compra-vendita della donna, e che sono manifestamente in rapporto con lo stato sociale o col regime dei popoli. Difatti, mentre il primo caratterizza la vita dei nomadi cacciatori e sfruttatori del suolo, essendo una caccia alla donna, al dire di B. Shaw, il secondo caratterizza la vita dei sedentarî (pastori, agricoltori), per i quali la donna, come mezzo di piacere e di lavoro, costituisce un valore, al pari di tanti altri oggetti che rappresentano la proprietà.
Secondo il Mc Lennan, il ratto è strettamente collegato con l'esogamia, anzi ne è la conseguenza, per le limitazioni che essa impone all'uomo e per gli ostacoli che egli deve vincere per procurarsi una compagna. Ma, a contraddire a questa opinione, basta ricordare che al ratto ricorrono, in varî casi, i popoli endogamici. I giovani Fuegini, divenuti esperti nell'arte venatoria, si provvedono di moglie col ratto di una fanciulla della propria orda. Più movimentata è la scena presso gli Araucani, fra i quali il pretendente alla mano di una giovine del proprio clan per averla deve impossessarsene a forza, vincendo, con la scorta dei suoi coetanei, la fiera resistenza che oppongono, con pietre e bastoni, le donne del gruppo. Considerandola nelle fasi principali del suo svolgimento, questa selvaggia costumanza può essere distinta in due specie, ossia, in ratto effettivo e ratto figurato; quello rappresentato dall'uso vero della violenza fra le opposte parti, e questo dall'uso fittizio o simulato delle armi fra le parti in accordo. Del ratto effettivo o reale si sono volute trovare tracce presso alcune poche popolazioni (Caribi, Patagoni, varie tribù australiane e Bantu), ma gli etnologi non sono d'accordo nel ritenere che il complesso degli atti e delle manifestazioni che accompagnano l'abduzione violenta della sposa possa sempre giustificare la denominazione di matrimonio per ratto, giacché questo è un espediente a cui si ricorre in speciali contingenze, come la guerra, la razzia, ecc., e ciò senza rilevare che le donne così catturate, vanno a far parte delle concubine o delle schiave, e sono subordinate alla moglie principale. Non è esagerato, però, il pensiero di E. Grosse, di A. van Gennep, di E. Crawley e di altri, i quali opinano che i casi nei quali effettivamente avviene la cattura della donna, rappresentino degli atti individuali e sporadici nella procedura nuziale e non possano giustificare l'ipotesi che il ratto costituisca un'istituzione, e quindi una fase nella storia universale del matrimonio. Il ratto figurato o simbolico si risolve in una serie di formalità che le parti compiono dopo l'intesa o dopo la stipulazione dei patti, per la consegna della sposa. Tali formalità possono assumere, talvolta, la forma di veri e proprî giuochi, per dirla col Post. Secondo l'usanza antica dei Samoiedi, che praticano l'esogamia, il fidanzato dopo aver condotto a termine le trattative con la famiglia della donna, si reca nel giorno stabilito a rilevare la sposa, seguito dai parenti e dagli amici, fra cui un gruppetto di donne, alle quali è affidato il compito d'impossessarsi della fanciulla e di collocarla a forza sul carro che deve condurla all'abitazione maritale. Presso i Khond (India meridionale), quando il matrimonio è conchiuso e non resta che il trasporto della sposa nel villaggio del marito, ha luogo, sulla strada, uno scontro fra il corteo dell'uomo, composto di giovani, e quello della donna, composto di fanciulle. Queste assalgono con bastoni, pietre e pugni di terra i giovani che, armati anch'essi di bastoni, cercano d'impossessarsi della fanciulla desiderata.
Il matrimonio per compera si ha quando il pretendente e la sua famiglia si servono di offerte al gruppo della donna per mitigare gli ostacoli e per placare gli animi. Tra i Kurnai dell'Australia meridionale, i matrimonî venivano compiuti con la fuga, col ratto e, da ultimo, con lo scambio di doni. Nella Nuova Guinea è frequente il caso che il fidanzato fugga con la fidanzata, salvo a pagare poi, ai genitori delle fanciulla un prezzo a titolo di compenso.
La compravendita e il ratto della moglie - osserva E. Westermarck - spesso vanno insieme, ma il contratto di compra compare sempre dopo il ratto, come il baratto dopo il furto. E che la compravendita sia la forma più recente si rileva dal fatto che il matrimonio per ratto si trova spesso quale simbolo dove il matrimonio per compra esiste in realtà. Il modo più semplice di procurarsi una moglie tra gli Australiani, è il baratto con un'altra donna del gruppo, e spesso con la sorella del pretendente. Più comune è l'uso di ottenerla prestando dei servizî al padre; nel qual caso l'uomo suole andare a vivere per un periodo di tempo con la famiglia della ragazza e stare alla sua dipendenza. Questa costumanza, che ha riscontri nelle tradizioni ebraiche, è molto diffusa tra le schiatte barbare dell'Asia, dell'Africa, dell'America e dell'Arcipelago Indiano.
Prescindendo da questa specie di permuta e di prestazione d'opera, le offerte nuziali sono più o meno considerevoli, a seconda dell'importanza che si attribuisce alla donna richiesta in matrimonio. In un primo momento le offerte hanno il valore di compensi; in un momento successivo, l'idea del compenso o, altrimenti, del prezzo di acquisto, è mascherata da quella del dono; onde, nel primo caso, il matrimonio per compravendita reale; e, nel secondo, per compravendita simulata o simbolica. Carattere di compensi effettivamente dati con lo scopo di comperare la donna desiderata avrebbe la consegna che l'uomo e la sua famiglia sogliono fare a quella della sposa di alcuni capi di bestiame; carattere di compensi onorifici e simbolici avrebbe, invece, la consegna di qualche collana di conchiglie o di amuleti, di qualche veste e di altri oggetti destinati all'abbigliamento della sposa e dei suoi familiari..
I recenti progressi degli studî etnografici, meglio valutando il significato delle cerimonie nella vita delle popolazioni primitive, hanno fatto opporre a questa classificazione, che era stata elaborata dalla sociologia materialista, che: 1. il matrimonio nelle sue forme elementari è un rito di carattere magico-sacro, e non già un contratto essenzialmente economico; 2. gli aggetti, che compaiono come regali, offerte, doni di una delle parti all'altra o delle parti fra loro, non hanno la funzione di merce, ma sono elementi indispensabili alla celebrazione e alla riuscita della solennità; 3. per poter intendere il significato dei doni occorre guardarli singolarmente, nella funzione che sono chiamati a compiere, e nell'idea che servono a esprimere.
Da qui la necessità di ricostruire, volta per volta, le cerimonie per cogliere la ragion d'essere degli speciali donativi.
In virtù di questo nuovo orientamento nell'etnografia nuziale, si osserva che, mentre alcuni doni, come quelli di bestiame, vanno riferiti, nella maggior parte dei casi, a cerimonie sacrificali, altri, come quelli d'indumenti e simili, alla cerimonia della vestizione degli sposi o della sposa soltanto, cerimonia che si trova anche nei riti dell'affratellamento, dell'adozione, dell'iniziazione, ecc.
Lo studio del cerimoniale ha assunto ai nostri giorni una notevole importanza, come quello che illumina le fasi primordiali della storia del matrimonio, facendone vedere il fondamentale carattere magico-religioso, che si esplica e si svolge mediante un complesso di atti sacramentali ritenuti indispensabili dal primitivo per respingere le nefaste influenze, che continuamente insidiano l'umana esistenza e la gioia del vivere, e per attrarre quelle benefiche sulla coppia e sulla nuova famiglia alla quale essa è chiamata a dare origine. Sono appunto questi atti che dànno vita, forma e figura, ai riti nuziali, i quali nonostante la loro svariata e drammatica molteplicità, possono essere raggruppati per categorie o classi, tra cui principali quelle dei riti di distacco, di transito o trapasso, di affiliazione, di propiziazione, di espiazione, e via dicendo.
Tra i riti della prima categoria notevoli quelli onde gli sposi mutano, come i neofiti, i loro indumenti in tutto o in parte, il nome, le occupazion e perfino, talvolta, il sistema alimentare; ovvero praticano la tonsura o qualche mutilazione, ecc.; tra i riti di affiliazione lo scambio dei cinturini, dei braccialetti, delle collane; ovvero l'uso della palmata (dexterarum iunctio), l'uso di legarsi corpo a corpo con un legame (nodo coniugale), o di sorbire scambievolmente una goccia del proprio sangue (commixtio sanguinis) o di prendere in comune pasti e bevande (confarreatio); tra i riti di trapasso e di margine quelli relativi al trasporto dei nuovi coniugi affinché non tocchino con i piedi il suolo o il limitare dell'abitazione maritale; tra i riti di propiziazione, le offerte ai genî e ad altri enti soprannaturali; e fra quelli di espiazione la circoncisione e altre forme di mutilazione. Riti fecondativi (secondo alcuni, totemistici con carattere iniziatico) sono le nozze con l'albero di cui si trovano ora esempî fra gli aborigeni dell'India: prima delle vere nozze, gli sposi si congiungono ciascuno con un albero, che fa da sposo o da sposa; e cioè, mentre l'uomo abbraccia una pianta mango, la donna abbraccia una pianta mahua.
Come il matrimonio comporta speciali riti atti a significare l'unione, così il divorzio ne comporta altri per rappresentare la rottura del vincolo contratto.
Presso alcuni popoli del Volga (Ceremissi, ecc.) il marito che voglia divorziare, non ha altra formalità da compiere che quella di lacerare il velo della moglie; e presso varie tribù dell'Unioro nulla di più che tagliare in due parti un pezzo di cuoio e di mandarne una metà al padre della donna. Talora la procedura non è tanto semplice, intervenendovi elementi di vario carattere, e prevalentemente religiosi. Presso gli Habbé della Nigrizia il matrimonio qualora fosse stato solennizzato con qualche cerimonia del culto domestico, dev'essere sciolto mediante un sacrificio. A Giava e in varî altri luoghi, il sacerdote che ha celebrato l'unione degli sposi, è chiamato a sanzionare la loro separazione, mediante la rottura della "corda nuziale".
Rito primitivo, che configura una specie di ratto della divorzianda da parte dei suoi familiari, è quello dei Galla meridionali. Presso queste genti, allorquando la moglie soffre per i maltrattamenti del marito, può essere ripresa dalla famiglia. Per ciò uno dei fratelli della donna si aggira attorno al villaggio o alla capanna maritale, senza penetrarvi, per spiare l'uscita della sorella; e appena questa compare sulla strada, se ne impossessa trasportandola nell'abitazione paterna. La donna così divorziata non può più rimaritarsi, né il marito può reclamarla.
Bibl.: E. Westermarck, The history of human marriage, 5ª ed., Londra 1926; Ch. Letourneau, L'évolution du mariage et de la famille, Parigi 1888; J. Kohler, Zur Urgeschichte der Ehe, Stoccarda 1897; E. Grosse, Die Formen der Familie und die Formen der Wirtschaft, Friburgo 1896; A. E. Post, Giurisprudenza etnologica, trad. it., Milano 1906; J. G. Frazer, Origine de la famille et du clan, trad. franc., Parigi 1925; A. Giraud-Teulon, Les origines du mariage et de la famille, Parigi 1884; J. F. Mc Lennan, Primitive marriage, 1865; É. Durkheim, La prohibition de l'inceste, in Années sociologique, 1891-97; id., L'organisation matrimoniale des sociétés australiennes, ibid.; E. Spencer, Principi di sociologia, trad. it., Torino 1881; N. W. Thomas, Kinship and marriage in Australia, Cambridge 1906; A. W. Howitt, Australian group relations, in Smithsonian Report, Washington 1883; A. W. Fison, Kamilaroi and Kurnai, Melbourne-Sidney 1880; A. E. Post, Afrikanische Jurisprudenz, Oldenburg-Lipsia 1887. Per quanto riguarda lo studio delle cerimonie nuziali: A. van Gennep, Les rites de passage, Parigi 1909; R. Corso, I doni nuziali,in Revue d'ethnographie et de sociologie, 1911, pp. 228-254; E. Casas, Las ceremonias nupciales, 2ª ed., Madrid 1931; E. S. Hartland, The Legend of Perseus, Londra 1895-1896; E. Crawley, The mystic rose, Londra 1902; W. Crook, The lifting of the bride, in Folk-Lore, XXII (1902), pp. 226-244; C. Trumbull, The threshold covenant, New York 1896; M. Gaudefroy-Demombynes, Les cérémonies du marriage chez les indigènes de l'Algérie, Parigi 1901.
Il matrimonio nel mondo orientale.
Egitto. - Poco sappiamo sugli usi nuziali, e sulle stesse caratteristiche giuridiche del matrimonio presso gli antichi Egiziani, essendo quasi muta in proposito la documentazione archeologica, e assai tarda quella letteraria (i contratti di matrimonio giunti sino a noi rimontano appena alla XXVI dinastia, circa 600 a. C.). Comunque l'aspetto più caratteristico e più noto dell'istituto nell'antico Egitto, la stretta endogamia, deve ritenersi limitata, nelle sue forme più rigide di nozze tra fratelli, ai faraoni (donde la ereditarono i Tolomei) e alle più alte classi della popolazione, mentre in epoca ellenistica e romana sembra si sia diffusa anche tra ceti più umili, contadini e artigiani. La poligamia dovette essere indubbiamente praticata, ma anche qui più nella vita dei sovrani e dei ricchi che presso la media popolazione. Il divorzio appare in uso, almeno nei tardi documenti suaccennati. Una descrizione di nozze, che abbiamo da un documento di età tolemaica, contiene dati troppo vaghi per potere essere generalizzati.
Semiti primitivi. - Sul matrimonio presso i Semiti primitivi, il cui ordinamento sociale aveva per base la tribù, molto si è discusso ma senza arrivare a conclusioni sicure; più che dubbia è l'esistenza della poliandria, che alcuni studiosi hanno creduto di poter dedurre per loro da incertissime indicazioni, che, anche nella migliore ipotesi, non potrebbero venire generalizzate.
Babilonia e Assiria. - Per l'epoca in cui le stirpi semitiche compaiono già distinte in proprie sedi e civiltà, notiamo che presso i Babilonesi e Assiri il matrimonio è di tipo patriarcale, sostanzialmente monogamico, e di spiccato carattere contrattuale; di esso ci dànno luce in primo luogo il codice di Hammurabi e poi svariati contratti matrimoniali dell'epoca babilonese stessa, cassita e neobabilonese. La sposa è comprata alla sua famiglia dal padre dello sposo, mediante un dato prezzo (tirkhatu), in denaro, schiavi, mobili o immobili, che in epoca posteriore diventa un semplice dono fatto ai genitori della sposa. La dote, di cui la donna dispone liberamente in caso di morte del marito, si chiama šariqtu; accanto a questa vi è una specie di contraddote, o appannaggio vedovile, che il marito all'atto del matrimonio assegna alla donna. Il principio monogamico ammette una seconda moglie solo nel caso di sterilità della prima e stabilisce comunque la figura della moglie principale, con privilegi giuridici e sociali. La fedeltà coniugale, specie da parte della donna, è severamente tutelata. Il divorzio da parte del marito è ammesso per sterilità, per adulterio o negligenza della moglie verso lo sposo e la casa; assai più limitato è, almeno per l'epoca di Hammurabi, il diritto di ripudiare la moglie. Nel complesso però la posizione della donna nel diritto babilonese, pur non arrivando alla parità con l'uomo, è abbastanza alta; forse la più alta, giuridicamente, fra tutte le civiltà dell'antico Oriente. La donna ha piena capacità giuridica, proprio patrimonio distinto da quello del marito, formato della dote e dell'assegno vedovile, che il marito amministra. Anche dal punto di vista sociale la figura di Barnamtarra, moglie di Lugalanda, sovrano (patesi) di Lagash o di Sammuramat, moglie di Adad-Nirari IV, quali appaiono da documenti privati e ufficiali rispettivamente per l'epoca sumera e neobabilonese, mostrano, durante la civiltà mesopotamica, la donna riverita, onorata, e comparente con propria fisionomia nella vita civile. Gli usi nuziali assiro-babilonesi sono del tutto ignoti.
Persia. - Il matrimonio presso i Persiani antichi presenta, per quanto assai imperfettamente conosciuto, tratti altamenfe progrediti. Nell'Avestā è frequentemente lodato, e considerato come atto caro alla divinità e da lei favorito. Esso è nettamente monogamico. Da notizie di autori classici, sembra fosse soprattutto celebrato all'inizio dell'equinozio primaverile e solennizzato con feste e libazioni. Le complicate cerimonie attualmente usate dai Parsi (fidanzamento, consegna della dote, bagno sacro, vera e propria cerimonia nuziale) solo in parte non sempre precisabile risalgono a epoca antica, benché trovino spesso il loro fondamento nei testi giuridici e religiosi pahlavici. Fenomeno famoso nell'antico Irān, e riferito con orrore dagli scrittori classici, è quello del matrimonio incestuoso, khwaēvadatha, tra fratelli e sorelle, e persino tra madre e figlio. Estraneo al puro zoroastrismo originario (tanto che da alcuni è stato supposto di origine non iranica), esso compare attestato in modo sicuro per l'epoca achemenide, arsacide e sassanide, e, ancora in epoca musulmana, raccomandato nei testi pahlavici come atto di pietà religiosa, espiazione di peccati, e mezzo per conservare la purità della razza e della fede. Attualmente, questa forma estrema di endogamia è ridotta al semplice matrimonio fra primi cugini; ma per le epoche storiche in cui è testimoniato (in modo, pare, del tutto indipendente dall'analogo costume egiziano) sembra favorito da motivi etnici, dinastici e religiosi, sotto l'impulso della classe sacerdotale dei Magi.
India. - Il matrimonio indiano per il periodo più antico, quale si rispecchia nei Veda, è indissolubile, e, almeno negli strati inferiori della popolazione, tendenzialmente monogamico. Esso appare fondato sulla libera scelta, tra contraenti già adulti, con pagamento del prezzo della sposa da parte dell'uomo, e dote da parte dei parenti della donna. Questa è signora della casa (patnī), riverita compagna dell'uomo, e, sino a un certo punto, partecipe dei riti sacri da lui compiuti. In epoca post-vedica s'inizia l'uso che poi doveva prendere tanto sviluppo sino all'età moderna, del matrimonio combinato dai genitori tra i figli ancora piccoli, al fine soprattutto di evitare che la donna raggiungesse senza essere sposata la pubertà, cosa ritenuta vergognosa. Il matrimonio formale segue a breve distanza dal fidanzamento, ma la sposa continua a rimanere nella casa paterna sino alla pubertà, allorché è consegnata al marito e passa nella sua casa. Svariate sono le forme del matrimonio postvedico: da quella per trattative tra i genitori e consenso dei figli (brāhma) a quella per acquisto (āsura), alla gāndharva, unione amorosa sulla semplice reciproca volontà dell'uomo e della donna (esempio classico quello di re Dusyanta e di Sakuntala), alla rākṣasa, unione per ratto, e alla paiśācha, unione con una donna in condizioni fisico-psichiche anormali. Alcune di queste forme erano riservate all'una o all'altra casta, ma quelle sopravvissute e generalmente praticate tuttora sono la brāhma e la āsura. All'attuale rigido divieto di matrimonî misti tra le diverse classi, che è il risultato di un processo progressivo di cui le tracce sono già riscontrabili in epoca vedica, fa riscontro la spiccata esogamia, ormai prevalente nella maggior parte dell'India. Caratteristica del matrimonio indiano è la sua indissolubilità, almeno in linea di principio, temperata da limitate e caute possibilità di divorzio, soprattutto per adulterio. La poligamia è praticamente illimitata e favorita dal diffuso concubinaggio. Connessa con l'esigenza della verginità è la difficoltà della vedova a rimaritarsi e la sua situazione sociale inferiore, anche dopo che legalmente (dal 1829 nell'India britannica) e praticamente quasi ovunque è stata abolita la barbara costumanza (satī) di arderla nei funerali del marito assieme col cadavere di questo. Traccia di tale inferiorità della vedova è già in epoca antica: la donna era esclusa dalla successione del marito; poi fu ammessa con forti limitazioni, in puro usufrutto e sotto il controllo della famiglia del marito, cui la sostanza faceva ritorno alla morte della donna.
Cina. - Caratteristiche del matrimonio cinese sono l'esogamia, la monogamia almeno teorica (moglie principale e legale, e concubine), il divorzio per mutuo consenso o per adulterio della moglie, la disapprovazione del matrimonio delle vedove. Condizione essenziale per valide nozze era un legale contratto di fidanzamento, stretto tra i genitori o determinati parenti della futura coppia, con dichiarazione dell'età, della nascita, di eventuali difetti o infermità, ecc. Altra condizione era l'accettazione dei doni nuziali da parte della famiglia della sposa. Punto centrale della cerimonia era il trasporto della sposa in casa dello sposo, in un'apposita sedia parata di rosso, accompagnata dai parenti e guidata da un amico dello sposo. Del resto, tutti questi e simili usi diffusi al tempo della dinastia manciù, si sono alterati o sono spariti, specie nei grandi centri, sotto l'influsso sociale delle costumanze europee.
Giappone. - Nel Giappone, etica e diritto matrimoniale presentano storicamente aspetti alquanto diversi dall'epoca del codice Taiho-ryo (401-1192); fortemente influenzata dalla civiltà cinese, a quella feudale, cui dà l'impronta la morale indigena del bushidō (v.), e infine all'epoca moderna, aperta all'influsso cristiano. La costituzione gerarchica e autoritaria dell'antica famiglia giapponese rendeva il matrimonio del tutto dipendente dalla volontà dei capofamiglia, anche senza il consenso delle parti: situazione che con la crescente libertà si è modificata, se non capovolta. La monogamia teorica era in epoca antica di fatto annullata dall'esteso concubinaggio, cessato legalmente solo nel 1882. Il divorzio, prima assai facile e dipendente dalla sola volontà dell'uomo, è disciplinato dal moderno codice civile (1896-98), e distinto in divorzio per reciproco consenso e divorzio per azione giudiziaria. Caratteristica del diritto giapponese anche moderno è la grande limitazione alla capacità di possesso ed eredità della donna, che può ereditare dal marito solo se manchino figli o siano diseredati. Gli usi nuziali comportano una scelta per mezzo d'intermediarî, e una cerimonia notturna di nozze, in cui gli sposi si scambiano nove volte le coppe di vino, in presenza dell'intermediaria.
Il matrimonio musulmano. - È un contratto civile, vivamente raccomandato dalla religione, che aborre il celibato e il libertinaggio. Come tutti i contratti, si perfeziona con l'espressione del mutuo consenso, ossia mediante lo scambio d'una offerta o proposta e della rispettiva accettazione; entrambe devono essere date verbalmente, salvo il caso d'assenza del futuro sposo maggiorenne, del quale allora viene presentata la procura da lui scritta al suo mandatario (wakīl). Non si richiedono riti o cerimonie religiose: il recitare la fātiḥah o primo capitolo del Corano in occasione del contratto è semplice usanza di molti paesi musulmani. L'inizio della vita coniugale mediante il trasporto solenne della sposa alla casa dello sposo avviene a distanza di tempo, secondo gli accordi delle due parti e gli usi locali, ed è cerimonia del tutto profana, della quale fa parte il banchetto nuziale, vivamente raccomandato da tradizioni risalenti a Maometto.
Per la validità del contratto bastano due testimoni idonei; anzi, secondo la scuola mālikita, neppur questi sono neeessarî, purché si provveda alla notorietà dell'atto. Nei paesi musulmani progrediti è d'uso che il contratto avvenga alla presenza d'un delegato del cadi (v.) o giudice musulmano, in casa d'una delle due parti; la legge ottomana del 1881, che istituì per la prima volta il servizio dello stato civile, affidò la redazione dell'atto (e la denunzia all'ufficio dello stato civile) agli imām delle moschee; ordinamento dall'Italia ereditato in Libia. La donna non interviene; manifesta il suo consenso mediante il suo curatore (walī) matrimoniale naturale (un parente maschio, in primo luogo il padre) o testamentario, o, se è orfana senza parenti maschi, d'ufficio (cadi o altro funzionario).
Il libero consenso è indispensabile per entrambe le parti maggiorenni, eccettuata, secondo la scuola mālikita, la vergine, sulla quale il padre ha il diritto di giabr o costrizione; i minorenni (ossia in pratica gl'impuberi) possono essere dati d'autorità in matrimonio dal padre (o anche da altri parenti, secondo alcune scuole), salvo per loro il diritto d'opzione fra il consumare le nozze e chiederne l'annullamento, raggiunta la pubertà o età maggiore.
Condizione sine qua non per la validità del matrimonio è il mahr o ṣadāq, ossia la donazione nuziale che il marito deve fare alla moglie e che diventa proprietà di questa.
Essa può venir pagata in tutto o in parte sia immediatamente sia con posticipazione durante il matrimonio, ma in ogni caso deve essere versata per intero in tutte quelle forme di scioglimento del matrimonio che agli effetti legali sono equiparate al ripudio, e in caso di morte del marito viene computata in aggiunta alla quota della successione legittima. La moglie inoltre ha la libera disposizione e amministrazione dei suoi beni personali. Non esiste dote nel senso europeo.
Gl'impedimenti matrimoniali sono assoluti e perpetui quando siano fondati sui rapporti di consanguineità (notando che è perfettamente lecito il matrimonio fra cugini anche di primo grado), di affinità (p. es., l'uomo non può sposare la donna che sia stata moglie d'un suo ascendente o discendente, o che sia ascendente o discendente d'una sua moglie, ecc.) e di parentela di latte, la quale, salvo alcune limitazioni secondarie, produce gli stessi impedimenti dei gradi analoghi della parentela di sangue. È lecito all'uomo sposare un'ebrea o cristiana, purché di condizione libera, ma non donne professanti religioni che l'islamismo non considera rivelate invece alla donna è vietato il connubio con chi non sia musulmano. Impedimenti temporanei derivano dal triplice o definitivo ripudio, del quale si dirà più avanti, e dal periodo di ‛iddah (che suol tradursi con ritiro legale) imposto alla donna dopo qualsivoglia forma di scioglimento d'un matrimonio consumato. Il connubio fra persone libere e persone schiave è ammesso soltanto se si tratti di musulmani, ma è sconsigliato, tanto più che il figlio nato da matrimonio di uomo libero con la schiava altrui segue la condizione servile; è vietato sposare la propria schiava senza averla prima affrancata. Lecito, ma riprovato, è il matrimonio dell'uomo con donna a lui superiore di molto per condizione sociale e morale; invece la riprovazione non ha luogo quando il superiore sia l'uomo.
L'islamismo ammette la poligaamia fino al numero di quattro mogli contemporaneamente, sia sposate con unico atto sia con atti successivi; non mette invece alcun limite al concubinato con le proprie schiave (musulmane, cristiane o ebree), i cui figli sono legittimi quanto i nati da mogli. Ma in entrambi i casi non è lecito avere contemporaneamente come mogli o come concubine due sorelle, oppure zia e nipote.
Lo scioglimento del matrimonio, all'infuori del caso di morte d'uno dei due coniugi, può avvenire: 1. Per ripudio (ṭalāq) dato dal marito alla moglie verbalmente o per scritto, senza bisogno di alcuna giustificazione. Esso si distingue in raǵ‛ī (revocabile) e bā'in (irrevocabile). Il primo è quello pronunziato una o due volte soltanto verso una stessa moglie; esso non rompe il legame coniugale finché dura la 'iddah suaccennata, la quale nel caso di ripudio dura per il periodo di tre mestruazioni, secondo i ḥanafiti, di tre intervalli di purità intermestruale, secondo gli altri (di tre mesi nel caso di donna non soggetta più a mestruazioni, o fino al parto se la donna è incinta); sicché durante la ‛iddah l'uomo può recedere liberamente, senza bisogno d'alcuna formalità, dal suo ripudio. Invece quando questo sia stato pronunziato tre volte (e alcune scuole, come la ḥanafita, ammettono che ciò possa avvenire anche in una sola circostanza, dicendo ad es., tu sei ripudiata tre volte), il ripudio è definitivo, il matrimonio è sciolto e un nuovo matrimonio fra i due può essere contratto solo a condizione che la donna nel frattempo sia divenuta moglie di un altro e da questo sia stata irrevocabilmente ripudiata.
2. Per khul‛ (rinnegamento) ossia divorzio consensuale puro e semplice o acconato dal marito alla moglie malcontenta contro pagamento di un'indennità, che può essere eguale al mahr o maggiore; i suoi effetti giuridici rispetto al mahr e al diritto agli alimenti durante la ‛iddah sono eguali a quelli del ripudio definitivo, secondo i ḥanafiti e māl kiti, a quelli del faskl (rescissione) secondoo gli shāfi‛iti e ḥanbaliti.
3. Per furqah (separazione) pronunziata dal giudice su richiesta di una delle due parti o anche, in rari casi, d'ufficio (quando il matrimonio sia nullo per difetto d'alcuno dei requisiti legali indispensabili a contrarlo e nel caso di li‛ān). Nella scuola ḥanafita la richiesta della moglie per vizî redibitorî è limitata all'impotenza del marito, anteriore al contratto e al momento di questo ignota alla donna, mentre nelle altre scuole si ammettono inoltre altri vizî redibitorî (lebbra, elefantiasi, follia, ecc.) anche se sorti dopo la consumazione del matrimonio. Tutti sono d'accordo nella legittimità dello scioglimento per causa di maltrattamenti, per errore di persona, ecc. Lo scioglimento pronunziato dal giudice per cause imputabili al marito ha in genere gli effetti giuridici del ripudio irrevocabile; invece quello pronunziato per motivi imputabili alla moglie (che è il caso di gran lunga meno frequente) ha gli effetti giuridici del faskh o rescissione del contratto. Il giudice, su domanda della donna, può imporre al marito di dare il ripudio quando egli persista nel giuramento di continenza (īlā') o nello zihār (formula che assimila la moglie al dorso della madre del marito e perciò implica cessazione dei rapporti coniugali); mentre dal vincolo dell'uno o dell'altro egli potrebbe liberarsi pagando la kaffārah o ammenda espiatoria di violazione d'un giuramento. Non ripudio, ma vero annullamento producente l'effetto dell'assoluta impossibilità per i due coniugi separati di contrarre nuovo matrimonio fra loro, è dato dal li‛ān (maledizione reciproca), che consiste in un anatema solenne, pronunziato davanti al giudice e a testimonî dal marito contro la moglie da lui accusata d'infedeltà o d'aver dato alla luce un figlio adulterino, anatema a cui la donna abbia risposto con giuramenti d'innocenza.
L'apostasia d'uno dei due coniugi, musulmani entrambi, porta seco la rescissione (faskh) immediata del matrimonio, senza bisogno di decisione giudiziaria.
Durante la ‛iddah derivante da ripudio rimangono intatti i diritti di successione fra coniugi, quando uno di essi venga a morire. In quel periodo, da qualunque motivo cagionato, la donna deve rimanere nella casa coniugale e, se non si tratta di scioglimento del matrimonio per colpa di lei o per vedovanza (nel qual caso il periodo di ritiro è di quattro mesi musulmani e dieci giorni, e, se la vedova è incinta, sino al parto), il marito deve provvedere anche al mantenimento.
Giudicato illecito dai sunniti, dagl'ibāḍiti e dagli sciiti zaiditi, ma ammesso dagli sciiti imāmiti (o duodecimani) e ismā‛liti è il matrimonio temporaneo (mut'ah), di cui il contratto stabilisce la durata; allo scadere del termine convenuto, il matrimonio si scioglie da sé e la donna ha diritto di abbandonare il già marito. Se le due parti desiderano prolungare la loro unione, devono fare un nuovo contratto regolare, e allora la vita coniugale può essere ripresa senza bisogno di ‛iddah da parte della donna. Questa invece è obbligata ad attendere le sue mestruazioni, o altrimenti quarantacinque giorni, prima di unirsi in matrimonio con un altro uomo. ll matrimonio temporaneo non dà luogo a rapporti ereditari nel caso che, durante esso, uno dei coniugi muoia.
Il matrimonio fra schiavi ha lo stesso carattere di quello fra liberi; soltanto vengono poste alcune limitazioni: p. es. lo schiavo non può contrarre matrimonio senza il permesso del padrone; gli sono consentite due sole mogli in luogo di quattro (fanno eccezione in ciò i soli mālikiti); il ripudio definitivo ha luogo dopo la seconda volta anziché dopo la terza; la ‛iddah della schiava è ridotta a due intervalli mestruali, ecc.
Il matrimonio ebraico. - Periodo biblico. - Il matrimonio viene considerato come base della famiglia ed ha per scopo la conservazione della stirpe. I figli sono un segno della benedizione divina. Se uno muore senza lasciare dei figli maschi, il fratello sposa - in base alla legge del levirato - la vedova, e ciò per far sussistere in Israele il nome del defunto. Il padre ha il diritto di fidanzare la figlia (Gen., XXIV, 50), ma vien tenuto conto anche dell'opinione della madre e dei fratelli (Gen., XXIV, 55). A volte s'interpella anche la stessa fanciulla (Gen., XXIV, 57). Il valore giuridico al fidanzamento viene dato dal versamento, da parte del fidanzato, dell'importo totale o parziale con cui acquistava la sposa, e che ammontava - a quanto pare - a 50 sicli d'argento.
Si tratta quindi di un matrimonio per coemptio, come lo si riscontra nel codice di Hammurabi. L'importo, mōhar, poteva essere pagato, anziché con danaro, con lavoro (Gen., XXIX, 20,27) o con un atto di valore bellico (I Sam., XVIII, 17, 25; II Sam., III, 14). La seduzione di una ragazza comporta l'obbligo di pagare il mōhar e di sposare la fanciulla (a., XXII, 15, 16) o, se il padre è contrario al matrimonio, il solo pagamento del mōhar. Se si dimostra che la donna sposata non era vergine, il suocero deve restituire il mōhar. In caso di calunnia, il genero deve restituire il mōhar raddoppiato al suocero che intendeva danneggiare. Oltre al mōhar, il fidanzato offriva alla sposa doni, vestiti e ornamenti; alla madre e ai fratelli della sposa oggetti preziosi (Gen., XXIV, 53). Come in altri particolari, così anche in ciò il diritto matrimoniale antico-testamentario si avvicina alle leggi assire. Il padre a sua volta fa dei doni alla figlia all'atto dello sposalizio (Giosuè, XV, 18, 19; Giud., I, 14, 15). E probabile che questi doni siano diventati col tempo un obbligo sul tipo del nudunnu del codice di Hammurabi. Va notato però che secondo Ezech., XVI, 33, nadān ha il significato di mercede offerta alla meretrice. E soltanto nell'epoca postesilica che il termine nedunia assume il significato di dote che il padre dà alla figlia. Sposandosi, la giovane portava con sé delle ancelle, la sua balia (Gen., XXIV, 59, 61) e una schiava, che restava sua proprietà esclusiva (Gen., XXIX, 24, 29).
Per aumentare la famiglia, la sposa poteva dare una delle sue donne al marito come concubina. Ciò avveniva specialmente quando la moglie era sterile (Gen., XXX, 9; XVI, 2 ss; XXX, 3).
Il padre suole scegliere, per il figlio, la fidanzata, che è di preferenza (Gen., XXIV, 4), ma non sempre (Giud., XIV, 2 ss.), una fanciulla della medesima stirpe. Il figlio adulto può scegliere anche da solo, e senza il consenso del padre, la fidanzata, che può essere una straniera. In seguito, però, può sposare anche un'altra donna della propria stirpe. Ove prevale la potestà materna è la madre che sceglie la fidanzata al figlio. L'incesto è vietato.
In origine - come risulta in parte dalla storia dei patriarchi - erano vietati i rapporti tra madre e figlio e tra i figli della stessa madre. Si potevano sposare contemporaneamente due sorelle. Più tardi - come si rileva dalla legislazione biblica - è proibito di sposare la madre, la matrigna (moglie del padre), la sorella (sia dal lato materno sia dal lato paterno), la nipote (figlia d'un figlio), la sorellastra (cioè figlia della matrigna), la zia (sorella sia del padre sia della madre), la moglie dello zio paterno, la nuora, la cognata (ove non subentri la legge del levirato), la suocera. E vietato sposare una donna e poi sua figlia o la figlia della figlia.
Sotto la legge d'incesto cade anche il matrimonio con uno dei "sette popoli cananei" (Deut., VII, 3). Agli Aronnidi è vietato di sposare una donna scostumata, profanata o divorziata (Lev., XXI, 7). Il sommo sacerdote non può sposare neppure una vedova, ma soltanto una vergine del popolo suo (Lev., XXI, 13 seg.). Ezechiele vieta ai sacerdoti in genere di sposare una vedova o una divorziata (Ez., XLVI, 22). Gli uomini che avevano taluni difetti fisici restavano esclusi dal diritto di sposare una donna israelita. Era pure vietato il matrimonio con Moabiti, Ammoniti e, ma soltanto fino alla terza generazione, con Egizî ed Edomiti. L'uomo non poteva risposare la donna da lui divorziata se nel frattempo essa aveva contratto matrimonio con un altro.
Contratti matrimoniali scritti si trovano menzionati appena nel periodo postesilico. La fidanzata vive in casa dei genitori. Il fidanzato è esente dalla partecipazione alla guerra. Quando la sposa passa alla casa del marito, il padre allestisce una festa che dura sette giorni. La traditio puellae avviene in modo solenne. La madre cinge il capo del figlio sposo novello con una corona. Per la sposa si prepara un baldacchino.
Di regola la donna entra nella tribù del marito; una ricca ereditiera sposa un giovane della sua stessa tribù, acciocché gli averi non si spostino da una tribù all'altra. Nei casi in cui i coniugi prendono dimora in casa del padre della sposa, tanto quest'ultima quanto i figli nati dal matrimonio restano sotto la potestà del padre della donna. In genere però il marito è il proprietario, ba‛al della moglie, che e la bĕ‛ulāh; tuttavia il marito non può vendere la moglie come schiava, neppure se l'aveva sposata quale prigioniera di guerra. Il padre invece può vendere la figlia non sposata come schiava. Egli ha anche il diritto di convalidare i voti fatti dalla figlia nubile o fidanzata; lo stesso diritto ha il marito di fronte alla moglie. I figli possono essere venduti schiavi per i debiti contratti dal capo di famiglia, la moglie no. Se l'uomo viene venduto schiavo la moglie lo segue nella schiavitù. Riacquista la libertà assieme al marito. Alla donna abile il marito affida la gestione della casa e le industrie domestiche. Se un uomo ha più mogli, ognuna ha la sua tenda; solo le mogli schiave hanno una tenda comune. Accanto alle mogli principali, l'uomo può avere anche delle concubine. L'adulterio viene punito con la morte. La donna sospetta d'adulterio viene sottoposta al processo ordalico dell'"acqua amara". L'uomo può servirsi della sua schiava israelita come concubina ma incorre in questo caso nel dovere del mantenimento e della convivenza. Nel caso d'inadempimento dei doveri coniugali deve ridarle la libertà. L'uomo può mandar via una delle sue mogli senza che essa diventi con ciò libera. Solo la consegna del libello di ripudio offre alla donna il diritto di risposarsi.
Periodo postbiblico. - All'età di diciotto anni si ha il dovere di prender moglie. Chi è padre d'un maschio e d'una femmina ha corrisposto al dovere di contribuire alla conservazione del genere umano. È esente dall'obbligo del matrimonio chi si dedica allo studio della legge. Durante la festa annua del 15 del mese di ab, la danza nelle vigne offriva ai giovani l'occasione di scegliersi la fidanzata. Si procurava di dare la figlia in sposa a un uomo della stessa tribù. Le famiglie sacerdotali ammettevano delle eccezioni ove si trattava di un dotto. Con predilezione lo zio sposava la nipote. I divieti di matrimonio per ragioni parentali del periodo biblico, vengono ora estesi su altri venti gradi di parentela. Già al principio del sec. I d. C. si è cominciato a preferire al levirato l'atto di rinunzia detto élizah (Deut., XXV, 5). La proibizione riguardo i sette popoli cananei si allarga ora a tutti i popoli stranieri. Anche le prescrizioni matrimoniali riguardanti i sacerdoti diventano più rigorose (severissime sono le leggi matrimoniali dei Caraiti).
I primi approcci tra i padri dei due giovani, shiddukhīn, conducono alla definizione delle condizioni materiali di vita che vengono preparate agli sposi. Dal Medioevo in poi, l'atto che viene redatto in tale incontro è detto tĕnaīm (condizioni). Con lo stesso termine viene indicato il banchetto famigliare che segue alla firma dell'atto. I dottori considerano la richiesta di dote da parte del fidanzato come un arricchimento illecito. Le due famiglie ricorrono qualche volta alla mediazione d'un terzo, il shadhkān, il quale riceve un compenso.
L'uomo entra in possesso della donna attraverso la consegna d'un oggetto di valore o d'un documento, oppure attraverso il coito. Col tempo resta in uso soltanto la consegna d'un oggetto di valore (che nel periodo postgaonico assume la forma di un anello) e della kethūbà, atto che enumera i diritti e i doveri di ambo i coniugi.
Lo sposo consegna sia l'anello sia la kethūbà alla sposa in presenza di due testimoni pronunciando la formula: "Tu sei consacrata (sei esclusivamente mia) con questo anello secondo la legge di Mosè e d'Israele". Se uno dei due contraenti agisce di forza maggiore, il matrimonio viene considerato dai decisori come nullo. Il matrimonio viene celebrato sotto un baldacchino, in presenza di almeno dieci uomini adulti. Vengono recitate le benedizioni su due calici di vino. Nei periodi di lutto nazionale e nei giorni festivi e semifestivi è vietato di celebrare il rito nuziale.
La dote portata dalla moglie resta proprietà di lei (nikhsēẓon barzel, pecus ferreum), e costituisce una specie di ipoteca sui beni del marito. Questi ha il diritto di usufrutto della dote per tutta la durata del matrimonio. Nikhsēmĕlūg è quella parte del patrimonio della moglie per la quale il marito non assume garanzie. Il termine deriva dall'arabo mlg "succhiare", o dall'assiro mulugu, col quale viene indicata la dote. Tali averi non vengono elencati nel patto nuziale. Essi non diventano neanche proprietà del marito. Egli ne ha l'usufrutto, ma la moglie ha il diritto di venderli anche senza il suo consenso. In questo caso però egli ha il diritto di pretendere dall'acquirente gl'interessi di cui viene privato. Del pecus ferreum invece i coniugi possono disporre solo di comune accordo.
I coniugi hanno il dovere di stimarsi e di amarsi. Il marito deve amare la moglie quanto sé stesso e più di sé stesso. La donna deve stimare l'onore del marito più del proprio. La donna virtuosa adempie la volontà del marito. A quest'ultimo però è vietato di essere dispotico. Il vinicolo matrimoniale cessa in seguito al divorzio o per la morte di uno dei coniugi.
Bibl.: M. Löhr, Die Stellung des Weibes zu Jahwe-Religion und Kult, Lipsia 1908; L. Blau, Die jüd. Ehescheidung und der jüd. Scheidebrief, Strasburgo 1911; S. Krauss, Talmudische Archäol., II, Lipsia 1911; G. Beer, Die soziale und religiöse Stellung d. Frau im isr. Altertum, Tubinga 1919; A. Bertholet, Kulturgesch. Israels, Gottinga 1919; I. Neubauer, Beiträge zur Gesch. d. bibl.-talmud. Eheschliessungsrrechts, voll. 2, Lipsia 1920; G. Cruveilhier, Le lévirat chez les Hébreux et chez les Assyriens, in Revue Bibl., 1925; I. Benzinger, Hebr. Archäol., III, Lipsia 1927; S. Bialoblocki, Materialien zum islam. und jüd. Eherecht, Giessen 1928; id., in Enc. Jud., VI, coll. 223-53; Jüdisches Lex., II, col. 247 segg.
Il matrimonio nel mondo classico.
Grecia. - Età eroica. - L'affermazione di Aristotele (Polit., II, 1268 b) che presso gli antichi Greci il matrimonio aveva la forma di una compra-vendita della sposa, conserva una tradizione che il confronto con usanze primitive di altri popoli indoeuropei (Indiani, Germani, Slavi) rende degna di fede. Scarso fondamento, invece, ha l'asserzione, abbastanza comune, che nell'età eroica il matrimonio si concludesse sempre in quella forma. Dell'antica usanza rimane, sì, il ricordo, riferito a tempi lontani; ma normalmente il matrimonio omerico è più simile al matrimonio greco dell'età classica (v. sotto) che all'antico matrimonio indoeuropeo: il padre, in virtù del suo potere sulla figlia, la promette solennemente a chi la chiede in sposa (μνᾶσϑαι, μνηστήρ), ed è questa promessa il fondamento della legittimità del matrimonio. Le nozze dànno occasione a regali, non solo dello sposo al padre della sposa (ἕδνα, ἔεδνα), il che potrebbe far pensare a un prezzo, ma dello sposo e dei parenti alla sposa (δῶρα) e del padre della sposa allo sposo (μείλια). La confusione del matrimonio omerico col matrimonio compra-vendita deriva dal fatto che si scambia il dono nuziale col supposto prezzo della sposa. È stato poi osservato, con ragione, che Omero parla di "concubina comprata" (Odissea, XIV, vv. 202-3), non mai di moglie comprata, ma di moglie regolarmente fidanzata (μνηστὴ ἄλοχος; cfr. negli scrittori attici: ἐγγυηϑεῖσα γυνή). Rappresentano uno stadio ancor più recente del diritto greco quei passi nei quali ἕδνα non significa più dono nuziale, ma dote. Di regime dotale si trova nei poemi omerici chiara menzione.
Il matrimonio nel diritto attico in età classica. - Uno studio organico del diritto matrimoniale greco nell'età classica è solo possibile in Atene nei secoli V e IV (diritto attico). Sugli elementi costitutivi del matrimonio attico si hanno due teorie: l'una, del Hruza, pone a fondamento dell'esistenza del matrimonio l'ἐγγύησις (promessa solenne del potestatario - κύριος - della sposa allo sposo), l'altra, più recente, del Paoli, il συνοικεῖν (coabitazione maritale).
Secondo il Hruza, l'ἐγγύησις, non è atto preparatorio del matrimonio, ma costitutivo: Ehebegründungsakt; come atto in sé, è un contratto fra il padre della sposa e lo sposo, o coincide con la consegna della sposa al marito (ἔκσοσις ed ἐγγύησις per il Hruza sono sinonimì) e segna l'inizio del vincolo matrimoniale. "La ἐγγύησις corrisponde al consenso degli sposi nel matrimonio moderno e, per quanto si può raccostare il diritto canonico al diritto antico, pone in essere un matrimonium ratum sed non consummatum". Questa teoria è stata accettata alla lettera dal Beauchet, e in massima, ma con riserve, dal Lipsius. Secondo il Paoli, la ἐγγύησις, necessaria alla legittimità del matrimonio attico, è insufficiente a costituire il vincolo di iustae nuptiae. Condizione di esistenza del matrimonio attico è la convivenza maritale (συνοικεῖν). Il vincolo matrimoniale s'inizia col συνοικεῖν, cessa col cessare di esso. Συνοικεῖν è diverso da συνεῖναι, sebbene nell'uno e nell'altro verbo sia implicita l'idea di coabitazione. Inerente al primo è l'intenzione del marito di considerare moglie la donna che vive con lui e di averne legittima prole; il secondo indica il solo fatto dello stare insieme e del concubito usuale, come avviene con le concubine. Il συνοικεῖν ha inizio con la ἔκδοσις, che può essere molto posteriore all'ἐγγύησις (la sorella di Demostene fu ἐγγυηϑεῖσα a cinque anni) e può non avvenir mai, nel qual caso non si ha matrimonio. La ἐγγύησις è elemento di legittimità, non di esistenza del matrimonio attico. La stessa donna può esser ἐγγυηϑεῖσα a più fidanzati: diviene moglie (δάμαρ, γαμετὴ γυνή) di colui col quale va a coabitare. La donna che coabita con un uomo senz'essere ἐγγυηϑεῖσα è concubina, non moglie; la donna ἐγγυηϑεῖσα che ancora non coabita col fidanzato, è nubile (οὐ γαμετή), spes uxoris, non uxor. La donna che cessa di coabitare col marito è χήρα (letteralm. "vedova"). Gli attici dicono συνοικεῖν per essere marito e moglie e chiamano ἡ συνοικοῦσα la moglie. Nella formula della legge con συνοικεῖν s'intende la convivenza in regime di iustae nuptiae.
Affinché esistesse il vincolo di legittimo matrimonio era necessario: 1. lo stato di cittadinanza negli sposi; 2. la ἐγγύησις da parte del κύριος della sposa, o, mancando il κύριος, l'assegnazione giudiciale: ἐπιδικασία; 3. il συνοικεῖν. Il matrimonio cessava col cessare del συνοικεῖν. Ciò poteva avvenire: 1. per la morte di uno dei coniugi; 2. per volontà di uno dei coniugi, allorché o il marito ripudiava la moglie (ἀποπέμπειν, ἐκπέμπειν, ἐκβάλλειν), o questa abbandonava il domicilio coniugale (ἀπολείπειν). L'ἀπόλειψις doveva essere notificata all'arconte e veniva trascritta in apposito registro; 3. per aferesi: il padre della sposa o il congiunto che aveva diritto di sposarla (vedi sotto, sulla condizione dell'ἐπίκληρος), poteva rompere il matrimonio, richiamando la donna dalla casa maritale o, nel secondo caso, valendosi del diritto di sposarla; 4. per espressa disposizione di legge: la legge impone lo scioglimento del matrimonio quando la moglie risulti forestiera o quando sia stata sorpresa in flagrante adulterio: nel primo caso il marito che continui a συνοικεῖν con essa, è colpito da una multa di 1000 dracme, nel secondo dalla perdita totale dei diritti di cittadino (ἀτιμία).
Per gli Attici, ciò che giustifica la presenza di una donna in una società familiare (οἷκος) diversa da quella di origine, è la sua funzione di procreatrice o sperata procreatrice di prole legittima. Se il marito muore senza lasciar figli, la moglie deve tornare nella casa paterna, a meno che non dichiari formalmente di essere incinta. Questa eventuale dichiarazione dev'essere notificata all'arconte. Se la donna è l'unica superstite di unοἷκος, a lei spetta il patrimonio familiare, essa cioè è ἐπίκληρος: ma il più prossimo dei parenti ha diritto di sposarla, quand'anche essa sia già maritata. Chi intende valersi di questo diritto deve farne istanza all'arconte, il magistrato che in Atene ha giurisdizione sui rapporti familiari, chiedendo che l'ἐπίκληρος gli sia assegnata giudicialmente (ἐπιδικάζεσϑαι). Il diritto dei più prossimi esclude il diritto dei più lontani; ma se quelli rinunziano, questi sottentrano nei loro diritti. In caso di dissenso fra pretendenti decide per sentenza il tribunale (διαδικασία); se l'istanza dell'ἐπιδικαζόμενος non è contestata, l'arconte procede all'assegnazione in presenza del tribunale.
Istituto singolarissimo e per noi strano, l'epiclerato parte dal principio che la famiglia (οἷκος), come ente giuridico-sacrale, costituisce un'unità indissolubile di persone, cose e sacra. Sinché nell'οἷκος vi sono dei maschi, la donna, essendo ἐπίπροικος e non ἐπίκληρος, avendo cioè diritto alla sola dote, può lasciare l'οἷκος paterno, portandone via con sé la porzione dei beni che le spettano, senza che con ciò la struttura dell'οἷκος sia alterata; ma quando rimane unica rappresentante della famiglia, non potendo essa, come donna, esserne giuridicamente a capo, la sovranità familiare, per logica legge di successione, passa al più vicino dei parenti maschili. Sennonché, in virtù appunto del principio che l'οἷκος è indissolubile, non potendosi separare totalmente le persone dai beni e dai riti dell'οἷκος, non si può né disporre né fare acquisto della sovranità dell'οἷκος e dei suoi beni senza disporre o acquistare il possesso delle persone che dell'οἷκος fanno parte e che su quei beni hanno un diritto familiare. Per ciò, come per una precisa disposizione della legge attica è nullo il testamento che disponga delle cose e dei sacra dell'οἷκος senza disporre dell'ἐπίκληρος, per lo stesso principio è inammissibile l'acquisto della sovranità dell'οἷκος e del possesso dei suoi beni indipendentemente dall'acquisto dell'ἐπίκληρος. Ciò spezzerebbe l'unità dell'οἷκος, risolvendone gli elementi costitutivi, e annullerebbe i diritti familiari dell'ἐπίκληρος sui beni dell'οἷκος. La successione nell'οἷκος, che la legge assicura ai prossimiori come un diritto, è imposta come un dovere quando la mancanza o l'esiguità dei beni familiari allontana i pretendenti: in tal caso la donna deve essere o sposata dal parente più prossimo o da lui dotata e convenientemente collocata in matrimonio.
Poche sono le limitazioni che il diritto attico pone al matrimonio: limitazioni non determinate dalla legge, ma osservate attraverso la sanzione che la polis dà al ius non scriptum (ἄγραϕος νόμος; vedi asebia). È escluso il matrimonio fra ascendenti e discendenti; tra fratello e sorella della stessa madre. Tollerato, ma moralmente riprovato, il matrimonio tra fratello e sorella di madre diversa e tra suocera e genero, per dire dei casi che ci constano. Tranne i casi d'impedimento, i matrimonî tra parenti sono comunissimi: non è raro che lo zio sposi la nipote.
La moglie è tenuta alla fedeltà verso il marito. È norma eccezionale di Sparta (se non è caduto in equivoco Senofonte che la riferisce) che il marito, con lo scopo di avere bella prole, possa invitare la moglie ad accoppiarsi con un altro uomo a lui superiore per bellezza o gioventù o valore. In Atene il marito aveva il diritto di uccidere l'adultero sorpreso in flagrante e il dovere, pena l'ἀτιμία (v. sopra), di caccare di casa la moglie adultera. A questa era vietato di accedere ai pubblici santuarî, donde poteva essere scacciata a furore di popolo; non però uccisa. Per l'uomo, tenere una concubina non era commettere adulterio. I figli nati dal concubinato, purché di madre cittadina, potevano essere legittimati dal padre e messi a pari in tutti i diritti con i fratelli nati da giuste nozze. Il figlio della concubina cittadina aveva azione contro il padre per ottenere la legittimazione. Nonostante l'indulgenza verso i capricci del maschio, portare donne in casa, anche nell'appartamento degli uomini dove la moglie non aveva accesso, era considerato offesa grave alla moglie e giusto motivo per lei di rottura del matrimonio (ἀπόλειψις).
Il matrimonio fuori di Atene nell'età classica. - Non pare, per quanto scarse siano le informazioni dirette di cui disponiamo, che la disciplina giuridica del matrimonio fosse in Grecia molto diversa da città a città. Quanto al principio che requisito di giuste nozze è la cittadinanza dei coniugi, appare da un passo di Aristotele (Polit., III, 1275 b) principio generale di diritto greco. L'estensione ai forestieri di un ius connubii (ἐπιγαμία), elargito ad personam ovvero a una città, ebbe nell'età classica solo sporadica applicazione. Una sistematica deroga all'esclusione dei forestieri dal ius connubii si ha solo nell'età ellenistica fra popolazioni doriche. Fra gli stati appartenenti alle leghe che lottarono coi Romani si stipulavano trattati (ἰσοπολιτειαι), in cui le città si elargivano, oltre all'isopolitia (v.), anche l'ἔγκτησις (diritto di possedere immobili) e l'ἐπιγαμία.
Età degli sposi. - Divieto del celibato. - Contrarre matrimonio per i Greci era considerato come un dovere: per cui ci si ammogliava di regola in età posata. La donna invece andava a marito giovanissima: di qui una normale differenza di età fra i coniugi. Età opportuna per il matrimonio, secondo Aristotele, è 37 anni per l'uomo, 18 per la donna (Polit., VIII, 1335 a); ma siccome Aristotele biasima il matrimonio della donna troppo precoce, l'età di 18 anni dev'essere già superiore a quello che in Atene si praticava. Un'epigrafe funeraria (Kaibel 681) ricorda una donna che, sposatasi a 13 anni, visse concorde col marito sino a tarda età. Il sottrarsi al matrimonio era ritenuto moralmente riprovevole; a Sparta il celibato era punito. Che anche in Atene si potesse esperire contro lo scapolo impenitente un'azione pubblica (γραϕὴ ἀγαμίου) è riferito da tardi scrittori (Plutarco, Polluce); ma non trova credito fra i moderni. Negli scrittori attici, non vi è traccia di tale disposizione.
Matrimonio greco-egizio. - La ricostruzione, dai documenti che ne abbiamo, della disciplina dei rapporti matrimoniali in Egitto nell'età tolemaica e romana costituisce uno fra i più gravi problemi di diritto greco-egizio: i maggiori giuristi di ogni paese hanno studiato l'intricata questione e proposto le più diverse soluzioni.
Dei documenti greco-egizî, redatti in ordine alla conclusione d'un vincolo matrimoniale, abbiamo tre tipi: la συγγραϕὴ τροϕῖτις, la ὁμολογία γάμον e la συγγραϕὴ. A qual differenza sostanziale fra le forme del matrimonio greco-egizio si debbono ricondurre questi documenti?
Nell'età tolemaica troviamo in Egitto due tipi di matrimonio: l'egiziano e il greco. Dell'egiziano vi erano due forme: il matrimonio di pieno diritto, e una forma secondaria che, secondo alcuni, è un matrimonio di minore diritto (V. Arangio-Ruiz), secondo altri, un mero rapporto di concubinato (G. Petropoulos). Ora, la συγγραϕὴ τροϕῖτις veniva redatta per costituire questa forma secondaria o, com'è stata definita, morganatica di matrimonio egiziano. In quest'atto, che ha la forma di un mutuo fittizio (E. Rabel, U. Wilcken), l'uomo si obbliga a fornire alla "donna di alimentazione", γυνὴ τροϕῖτις, in corrispettivo di quanto essa porta in denaro e oggetti preziosi, somministrazioni periodiche di alimenti. L'atto è stato escogitato per dissimulare i matrimonî fra egiziani e stranieri, che per questa via vengono facilitati pur senza essere riconosciuti.
Il matrimonio greco dava occasione alla redazione di due documenti successivi: la convenzione nuziale (ὁμολογία γάμου) e, dentro l'anno da questa, un altro atto (συγγραϕὴ συνοικεσίου), nel quale era indicata la dote e trovavano luogo le disposizioni degli sposi per il periodo posteriore alla morte dell'uno e dell'altro.
Questa doppia documentazione era sempre necessaria? E quale ne è la portata giuridica? Secondo G. Petropoulos bisogna distinguere il caso di matrimonio fra Greci, e di matrimonio misto. Il matrimonio importato dai Greci in Egitto era posto in essere secondo le regole greche, e l'atto scritto, concernente il matrimonio e relativo agli accordi pecuniarî, non era elemento costitutivo del matrimonio, ma redatto semplicemente ad probationem. Diversamente andavano le cose nel matrimonio misto. Il matrimonio egiziano assicurava alla moglie privilegi e proprofitti pecuniarî, come principalmente la comunanza dei beni, ai quali era difficile che la donna egiziana rinunziasse. Per giunta, essendo il matrimonio egiziano posto in essere per contratto scritto, era più certo e più facile a provare del matrimonio greco, risultante solo da uno stato, di fatto. Orbene, quando un greco sposava un'egiziana, questa accettava di contrarre con lui il matrimonio secondo il diritto greco, a condizione però che il marito s'impegnasse entro un termine fissato e su domanda della moglie, più tardi di uno dei congiunti, a celebrare il matrimonio secondo la legge egiziana. E, in previsione di morte prima che fosse stata realizzata la trasformazione, si conveniva, sulla base della ὁμολογία γάμου, la quale rappresentava il matrimonio greco, che la donna avrebbe in ogni caso goduto dei vantaggi economici che il matrimonio egiziano le assicurava, a eccezione dell'atto scritto. Secondo V. Arangio-Ruiz, invece, la doppia documentazione ha luogo anche nel matrimonio greco fra Greci; egli esclude, tuttavia, contro l'opposta opinione del Partsch che fra i due atti vi sia sostanziale differenza: il vincolo posto in essere è unico, "contratto però in due tempi agli effetti della piena pubblicità dei mutamenti correlativi nei diritti reali sopra gl'immobili".
Questo è oggi lo stato della questione di cui non si possono prevedere i possibili sviluppi, soprattutto quando, in aggiunta ai documenti che possediamo, altri ne restituiscano le sabbie dell'Egitto. Ma quanto si è esposto, ci sembra sufficiente per intendere la sostanza del problema, che è su questo argomento il più assillante e il più grave. Intendiamo la differenza in diritto greco-egizio fra γάμος ἔγγραϕος e γάμος ἄγραϕος.
In un periodo meno recente degli studî di diritto greco-egizio si faceva risalire la distinzione all'età tolemaica, dalla quale sarebbe passata nel diritto dell'età romana. All'età tolemaica è riferita anche, conforme alla dottrina del tempo (1912), nell'opera Grundzuge u. Chrestomathie der Papyruskunde, di L. Mitteis e U. Wilcken, e da altri (R. De Ruggiero, I. Nietzold, B. Frese, F. Maroi, P. M. Meyer). Più tardi è stato posto in chiaro (U. Wilcken, e soprattutto L. Wenger, 1928) che quella distinzione non è anteriore all'età romana; questo in dottrina è oggi considerato un acquisto sicuro. Ma, anche ridotto così nei suoi giusti limiti cronologici, il problema sulla portata della differenza fra γάμος ἔγγραϕος e ἄγραϕος rimane. Come si risolve? In un primo tempo (L. Mitteis) utilizzando anche ciò che risultava da documenti demotici (E. Revillout), si riteneva che γάμος ἅγραϕος fosse un matrimonio di minore diritto o, come si spiegava, di prova. Ma secondo gli scritti più recenti, s'intende il γάμος ἄγραϕος o come un istituto nuovo che fonde il matrimonio di minor diritto degli Egiziani con la prima fase della convenzione matrimoniale greca (V. Arangio-Ruiz), ovvero come l'aspetto che assume il matrimonio greco fra Greci, e il matrimonio romano, per i quali l'atto scritto non è elemento costitutivo del matrimonio, ma ha solo valore probatorio (Petropoulos).
Al disopra delle divergenze sopra accennate, vi è un punto comunemente ammesso: sia nell'età tolemaica, sia nell'età romana, le due forme del matrimonio egizio e del matrimonio greco e greco-romano coesistono, con interferenze più o meno gravi per ciò che concerne i rapporti patrimoniali, ma distinte. Diversi per il modo con cui sono costituiti, il matrimonio egiziano e quello greco-romano differiscono anche per notevoli conseguenze nei rapporti familiari: il figlio, se il matrimonio è greco-romano, non può disporre per testamento sinché il padre è vivo; può testare se il matrimonio è egiziano. L'aferesi (v. sopra) da parte del padre non è consentita nel matrimonio egiziano. Nel periodo bizantino, il matrimonio egiziano, sotto l'influsso di rigide concezioni romane, a poco a poco disparve. La Nov. XLII di Giustiniano conferma la regola romana: consensus facit nuptias.
Anche se si ammette che il matrimonio fra Greci conservasse in Egitto i caratteri costitutivi del matrimonio greco, risulta in modo indubbio che, sotto l'azione delle diverse concezioni sociali dell'Egitto cosmopolita, il matrimonio greco subì notevoli alterazioni. Anzitutto, in un paese nel quale il matrimonio tra fratelli dello stesso padre e della stessa madre era non solo tollerato, ma favorito, cadde il relativo impedimento che si è visto sussistere nel diritto attico. Poi, di fronte a un più preciso concetto dei diritti della donna che i Greci trovarono in Egitto, si limitò il potere e la libertà che il diritto attico assicurava al marito nei rapporti con la moglie; particolarmente: l'illimitato diritto di ripudio, e l'insindacabilità della sua vita privata fuori delle mura domestiche. Queste restrizioni non ci risultano imposte dalla legge, ma concretate dalla consuetudine in clausole penali contro il marito e da lui accettate nel contratto nuziale. Egli infatti s'impegnava a non ripudiare la moglie senza giusta causa e a non tenere neanche fuori di casa concubine o amasî, pena la restituzione della dote e in più una multa pecuniaria che variava da contratto a contratto.
Usi nuziali. - Usi nuziali in Omero. - Le nozze hanno luogo in casa del marito, a cui viene condotta la sposa, accompagnata da coloro che ne faranno la consegna e seguita da un festoso corteo di giovani che cantano, suonano, danzano e agitano fiaccole accese. La celebrazione delle nozze è resa solenne da un grande banchetto. (Per le condizioni della donna maritata in età eroica, v. donna, XIII, p. 146).
Nell'età classica la celebrazione del matrimonio, per la quale si sceglieva un giorno fausto e, di regola, d'inverno (il gennaio attico si chiama γαμηλιών = mese delle nozze), era preceduta da riti preparatorî; di questi i più importanti erano il sacrificio (προτέλεια γᾶμον) agli dei protettori del matrimonio (ϑεοὶ γαμήλιοι) e un bagno che tanto lo sposo quanto la sposa facevano il giorno stesso delle nozze con l'acqua di una fonte o di un fiume prescritti dall'uso. L'acqua era portata da un ragazzo o da una fanciulla (λουτροϕόρος); e il bagno sacrale era considerato così tipico nel rito nuziale che sulla tomba degli adulti morti celibi veniva scolpita l'immagine di una λουτροϕόρος. In Atene si attingeva l'acqua dalla fonte Calliroe, in Tebe dal fiume Ismeno. Nella Troade la sposa faceva senz'altro un bagno nello Scamandro.
Il giorno delle nozze il padre della sposa offriva un sontuoso banchetto nella propria casa (γάμος, ϑοίνη γαμική), nel quale era di rito servire la focaccia di sesamo, simbolo di fecondità. Dopo il banchetto lo sposo conduceva la sposa a casa entro un carro tirato da muli, da buoi o da cavalli, dov'ella sedeva fra lo sposo e il più vicino dei parenti, il paraninfo (παράνυμϕος). Seguiva il carro un corteo nuziale, che procedeva a suono di flauto; durante il tragitto si agitavano le fiaccole che le madri dello sposo e della sposa avevano acceso.
Giunta la sposa nella casa maritale, compiuti ivi alcuni riti - in Atene, p. es., essa doveva mangìare una mela cotogna - la sposa veniva condotta nel talamo, dove la seguiva lo sposo, sprangando l'uscio. Un amico dello sposo si poneva sull'uscio come "portinaio" (ϑυρωρός), per impedire alle fanciulle di venire in aiuto alla sposa che, a trovarsi sola chiusa con un uomo, strillava dalla paura. Dopo la prima notte (νὺξ μυστική) la sposa riceveva doni dal marito, dai parenti e dagli amici.
L'uso descritto è attestato particolarmente per Atene; ma non doveva essere molto dissimile nelle altre città. Solo in Sparta le consuetudini nuziali erano diverse: caratteristico era ivi il ratto della sposa, combinato in antecedenza dai genitori, ma non ridotto alla finzione di un puro tentativo, come presso i Romani.
Roma. - Concetto. - Mentre il matrimonio legale odierno è un rapporto stabilito dal consenso scambiato in una forma solenne tra l'uomo e la donna e genera le sue conseguenze giuridiche indipendentemente dal perdurare dei voleri e degli affetti e dalla sussistenza attuale della vita comune, il matrimonio romano è un rapporto stabilito dal perdurante proposito di voler essere marito e moglie e dalla continuità della vita comune. I due requisiti del matrimonio romano sono il consenso, non solo iniziale, ma duraturo, continuo, che, con linguaggio probabilmente compilatorio, è chiamato affectio maritalis, e la convivenza effettiva dei coniugi.
Più rigorosamente che per qualunque popolo indoeuropeo, il matrimonio ha per i Romani base monogamica. L'intenzione etica di costituire una società perpetua esclude in modo assoluto l'apposizione di condizioni o di termini; la costituzione della società intima sotto tutti i rapporti, che tra i coniugi si attua, è felicemente espressa dalle definizioni della giurisprudenza e della letteratura latina. I giuristi dicono che il matrimonio è un'unione individuam vitae consuetudinem continens (Inst., I, 9 de patr. pot., pr.), consortium omnis vitae (Dig., XXIII, 2 de ritu nupt.,1), non diversamente da Quintiliano (Declam., 247) che rappresenta la moglie come colei che in societatem vitae venit, e da Tacito che la dice assunta socia prosperis dubiisque rebus (Ann., XII, 5: e anche III, 34).
Nell'antico diritto romano con il matrimonio soleva andare congiunto l'assoggettamento della donna alla potestà (manus) del marito o del suo paterfamilias (se il marito era filiusfamilias), nelle forme o della confarreatio o della coemptio o, in mancanza di una di queste forme, mediante l'usus (v. famiglia: La famiglia romana). La moglie si collocava filiae loco nella famiglia del marito, se questi era paterfamilias; neptis loco se il marito era filiusfamilias. Ad esprimere questa conseguenza dell'assoggettamento, che accompagnò per molto tempo il matrimonio, Modestino lo definisce ancora, oltre che consortium omnis vitae, communicatio divini et humani iuris, nel senso che l'uxor assogettata partecipava al culto (sacra) della famiglia del marito e acquistava in questa famiglia la qualità di suus heres: a torto la definizione si pensò ispirata alla nuova concezione cristiana del matrimonio, e perciò interpolata. Non romana è la distinzione tra matrimomcum manu e matrimonî sine manu, quasi che si trattasse di due specie distinte di matrimonio e l'assoggettamento alla manus appartenesse alla sua essenza. Il matrimonio accompagnato da assoggettamento alla manus andò sempre più rarefacendosi nel corso dell'età repubblicana e scomparve durante l'impero. Gaio (Inst., I, 111) parla dell'assoggettamento mediante l'usus come di un istituto spento; l'assoggettamento mediante confarreatio praticamente dovette essere in disuso da molto tempo già al principio dell'impero e rimase in seguito ristretto ai matrimonî della classe sacerdotale, e anche qui con effetti limitati; più resistente fu l'assoggettamento mediante coemptio, ma Servio, il commentatore di Virgilio, nel sec. IV ne parla come d'istituto di remota applicazione (coemptio.... apud priscos peragebatur).
Quanto alla conclusione del matrimonio, essa non ha bisogno di alcuna forma giuridica nel diritto storico, benché, come è ovvio, feste e cerimonie varianti secondo i tempi e i costumi accompagnassero solitamente questo importante avvenimento. Tale assenza di forme corrisponde alla sua natura. Il matrimonio s'intende realizzato quando la donna, che si vuole sposare, è effettivamente deducta in domum mariti. Alla necessità di questa deductio in domum per stabilire l'inizio del matrimonio alludono chiaramente i testi, che parlano di ducere o deducere uxorem, di transire ad maritum, di accipere aqua et igni, ecc. Onde, se è possibile il matrimonio quando è assente il marito, purché la donna si rechi in domum mariti quasi in domicilium matrimonii, non è possibile il matrimonio quando è assente la donna. Una volta effettuata la convivenza comune, il matrimonio s'intende perdurare anche se i coniugi usano abitare separati, come accade tra persone consolari: basta che continuino a trattarsi in tutte le forme come nella società si devono trattare due coniugi serbando la donna la posizione sociale del marito e la dignità di sposa: il perdurare del rapporto si desume, insomma, dall'honor matrimonii, che è l'esteriore manifestazione del voler vivere coniugalmente. La vita comune con donna ingenua e onorata nel diritto romano classico s'interpreta come matrimonio (Dig., XXIII, 2 de ritu nupt., 24).
Nell'età cristiana, e quindi nella legislazione giustinianea, la natura del matrimonio, inteso come rapporto di fatto, si andò via via alterando. Giustiniano, non senza qualche contraddizione manifesta, è piuttosto incline ad ammettere l'esistenza del rapporto indipendentemente dal possibile realizzarsi della convivemza comune. Sono giustinianee le massime: nuptias non concubitus, sed consensus facit (Dig., XXXV, 1 de cond. et dem., 15; Dig., L, 17 de reg. iur., 30); non coitus matrimonium facit sed maritalis affectio (Dig., XXIV, 1 de don. i. vir. et ux., 32, 13). E verissimo che anche i Romani, a differenza dei popoli orientali, non attribuiscono alcuna efficacia giuridica alla congiunzione carnale; ma, se per questo i Romani non ritengono necessaria, per l'esistenza del matrimonio la deductio della donna in cubiculum mariti, esigono per altro la deductio della donna in domum mariti. Giustiniano, invece, dall'elemento della convivenza prescinde: ammette il perdurare del rapporto anche quando o per prigionia di guerra o per deportazione di uno dei coniugi, la convivenza è assolutamente impossibile. Inoltre, per troppi chiari segni (regime del matrimonio del prigioniero di guerra e pene inflitte ai divorzianti in gran parte di casi), l'imperatore manifesta la sua mens che il consenso iniziale dovrebbe dare, irrevocabilmente, vita al matrimonio.
Alterandosi nel diritto postclassico la nozione romana del matrimonio, si comprende come la conclusione di questo rapporto venga subordinata alla celebrazione di alcune forme, essenziali per la sua validità, già da Maggioriano, uno degli ultimi imperatori d'Occidente, e poi da Giustiniano, che prescrive, in alcuni casi almeno, la confezione degli strumenti dotali. Si comprende soprattutto come nel diritto postgiustinianeo l'ἔγγραϕος γάμος sia il matrimonio veramente perietto e costituisca la regola di fronte all'ἄγραϕος γάμος. L'Ecloga, cosiddetta Isaurica, diede soltanto una parziale sanzione legislativa al precetto della Chiesa orientale che considerava come peccato la celebrazione delle nozze senza la benedizione (εὐλογὶα) e senza le altre formalità che si compivano per suo mezzo: infatti, si lasciavano libere le parti di celebrare le nozze διὰ εὐλογίας o alla presenza di amici (ἐπὶ ϕίλων). Ma le Novelle di Leone risentono più fortemente dell'influenza canonica e dichiarano la benedizione religiosa indispensabile per l'esistenza del matrimonio e per i diritti nascenti dal medesimo.
Requisiti e impedimenti. - Perché il matrimonio sia legittimo (iustae nuptiae; nel linguaggio giustinianeo: legitimum matrimonium) si richiede nei coniugi la capacità civile, cioè il ius connubii. Questa capacità hanno soltanto i cittadini romani tra loro: con peregrini e stranieri non c'è connubium, perciò le nozze con essi sono iniustae: tali erano, prima della lex Canuleia dell'anno 445 a. C.. anche le nozze tra patrizî e plebei: evidente residuo della condizione di stranieri di questi ultimi. Gli schiavi non possono contrarre matrimonio: l'unione stabile fra schiavo e schiava, che ne esprime il rapporto naturale, si dice contubernium: soltanto nel diritto postgiustinianeo, e per opera dell'imperatore Leone, è ammesso il matrimonio fra servi. Altra condizione richiesta è la capacità naturale: non possono contrarre matrimonio gl'impuberi e, nel diritto giustinianeo, gli evirati. In terzo luogo si richiede il consenso del paterfamilias e, trattandosi di figli maschi, anche quello del padre, perché i figli nati dal matrimonio possono eventualmente ricadere sotto la sua patria potestà. Il consenso, essenziale in origine, fu ridotto successivamente nei limiti di un mero assentimento passivo. Finalmente occorrono altri requisiti determinati negativamente dall'assenza di certe condizioni: nelle scuole sono indicati come impedimenti matrimoniali, e nascono da motivi d'ordine etico, sociale, politico, religioso. Si distinguono in assoluti e relativi, secondo che esprimono incapacità assoluta al matrimonio o incapacità a contrarlo con una data persona. Sono impedimenti assoluti: 1. un matrimonio già esistente; 2. la schiavitù di uno degli sposi; 3. nel diritto giustinianeo, il voto di castità e gli ordini maggiori. Sono impedimenti relativi:1. la parentela di sangue o cognazione: tra ascendenti e discendenti all'infinito, tra fratelli e sorelle, tra zii e nipoti; nel diritto cristiano anche la parentela spirituale tra padrino e figlioccia; 2. l'affinità in rapporti analoghi, tra il patrigno e la figliastra, la matrigna e il figliastro, il suocero e la nuora, la suocera e il genero; nel diritto cristiano anche tra il cognato e la cognata; per influenza del sinodo di Costantinopoli (in Trullo) del 692 è vietato il matrimonio con la fidanzata di un terzo; 3. l'adulterio e il ratto: sono vietate dalla lex Iulia le nozze tra l'adultera e il suo complice, dal diritto cristiano le nozze tra il rapitore e la rapita; 4. la relazione di tutela o di ufficio pubblico: un senatoconsulto emanato sotto Marco Aurelio e Commodo vietò le nozze tra il tutore, il suo paterfamilias, i suoi discendenti e la pupilla prima della resa dei conti; mandati imperiali le vietarono tra il magistrato provinciale e la donna oriunda della provincia o quivi domiciliata; 5. nel diritto giustinianeo, l'appartenenza a diversa religione (cristiani e ebrei); nel diritto postgiustinianeo, l'appartenenza a diversa secta cristiana (ortodossi ed eterodossi). Giustinianei e bizantini, sospinti dall'influenza cristiana, giungono a questo risultato appoggiandosi alla definizione modestiniana che definisce il matrimonio come divini iuris communicatio. Ciò che per il giureconsulto romano era conseguenza del matrimonio che, di diritto, se era accompagnato da assoggettamento alla manus, di fatto, se era conchiuso senza questo assoggettamento, faceva partecipare la moglie ai sacra della famiglia del marito, diventa nel tardo diritto romano-cristiano un requisito per potere contrarre matrimonio; e la qualità, prima di ebreo, poi anche di eterodosso, è un impediinento al matrimonio con cristiani.
Effetti. - Se il matrimonio è accompagnato da assoggettamento alla manus, il marito, quando sia paterfamilias, acquista sulla moglie un potere familiare nel senso politico; nel matrimonio libero da assoggettamento alla manus, acquista un mero potere disciplinare: ne assume la difesa, agisce contro qualunque terzo la trattenga illegalmente, con l'interdictum de uxore exhibenda et ducenda. Le azioni penali e infamanti non si possono esperire tra coniugi; essi fruiscono reciprocamente (a datare almeno da Giustiniano) del diritto agli alimenti e del beneficium competentiae; il coniuge è contemplato nella successione intestata del diritto pretorio e del nuovo diritto. Colpite di nullità assoluta sono le donazioni tra coniugi, perché introdurrebbero uno spirito d'interesse nei rapporti coniugali a danno del coniuge più generoso: il divieto, che le Pandette fanno risalire ai mores, sembra introdotto in età augustea. Un senatoconsulto del 206 convalidò siffatte donazioni, quando il coniuge fosse morto senza revocarle. Giurisprudenza e imperatori, ispirandosi al motivo del divieto, ammettono la validità di quelle donazioni che non importano arricchimento del donatario (donazione della tomba, di denaro per pubblici spettacoli): escluse erano quelle per morte o divortii causa, nonché le donazioni tra il principe e l'augusta.
Scioglimento. - Il matrimonio si scioglie o per morte di uno dei coniugi, o per il venir meno della capacità o del consenso. La capacità viene meno innanzi tutto per la perdita della libertà (capitis deminutio maxima) subita dall'uno dei coniugi, sia esso ridotto schiavo di un privato o sia fatto servus poenae per condanna o sia caduto in potere del nemico. Il matrimonio, distrutto dalla prigionia di guerra, non viene ripristinato iure postliminii quando il prigioniero ritorna in patria, appunto perché esso è un rapporto giuridico di mero fatto; non un diritto. La capacità viene meno anche per la perdita della cittadinanza (capitis deminutio media), che si accompagnava in antico all'aqua et igni interdictio, poi alla deportazione. Ma tanto nel caso di scioglimento per perdita della libertà, quanto in quello di scioglimento per perdita della cittadinanza, l'influenza delle nuove idee cristiane si fece sentire. Agostino e gli altri Padri della Chiesa insegnavano che la captivitas non deve sciogliere il matrimonio e che permettere al coniuge del captivus di risposarsi è permittere adulterium. La legislazione giustinianea, come emerge da un testo di Giuliano interpolato (Dig., XXIV, 2 de div. et rep., 6) e dalla Nov. 22, cap. 7, si mise su questa via. Fu vietato il nuovo matrimonio, se constava di certo che il coniuge viveva in prigionia; e fu permesso soltanto, dopo un'attesa di cinque anni, quando fosse incerta la sopravvivenza. Se il coniuge libero, nonostante il divieto, fosse passato ad altre nozze, si considerava come se avesse fatto divorzio e andava soggetto alle pene stabilite nel nuovo diritto per il divorzio illecito. Analoga influenza operò sul matrimonio sciolto per il venir meno dello status civitatis. Attraverso numerose interpolazioni di testi classici, fu da Giustiniano consentito il perdurare del matrimonio del deportato, se i coniugi conservavano l'affectic maritalis. Finalmente, il matrimonio si scioglie per il venir meno del consenso nell'uno o nell'altro dei coniugi o in entrambi. Questo è il divortium o repudium (v. divorzio: Diritto romano). Pure non accogliendo nettamente la nuova nozione del matrimonio che era posta nella dottrina della Chiesa, e oscillando tra dottrina romana e dottrina cristiana, la legislazione giustinianea è sotto l'influenza del cristianesimo in questa materia assai più di quel che a tutta prima possa sembrare. È vero che il cristianesimo insiste sull'indissolubilità del vincolo coniugale, affermando che chi ripudia la propria moglie, e ne sposa un'altra commette adulterio, come adulterio commette chi sposa la donna ripudiata; ed è vero che v'insiste soggiungendo che l'adulterio del coniuge è motivo di separazione, non di scioglimento del vincolo mentre nella Nov. 22, cap. 3, Giustiniano ribadisce ancora la dissolubilità del matrimonio τῶν ἐν ἀνϑρώποις παρακολουϑούντων τὸ δεϑὲν ἅπαν λυτόν. Ma, quando si considerino le nuove norme giustinianee dettate per disciplinare il matrimonio del coniuge prigioniero o deportato, la nullità del divorzio privo delle forme legali, le pene inflitte nel caso di divorzio, anche di divorzio per mutuo consenso, ci si accorge subito che tutte queste norme, insieme coordinate, finiscono per essere espressione della mens legislativa che il matrimonio debba avere la sua base nel consenso iniziale. Questa base, per verità, non è un punto fermo, ma è per altro una tendenza largamente operante della legislazione di Giustiniano.
Usi nuziali. - L'uso romano di dare marito alle figlie, quando erano giovanissime, imponeva alle fanciulle una vita ritirata allorché divenivano adulte. Il flirt, come l'intendiamo noi, doveva esser rarissimo; tra l'altro ne mancava l'occasione. L'unione dei giovani dipendeva quasi esclusivamente dalla volontà dei loro padri.
Per le nozze si sceglieva un giorno di buon augurio; il periodo più fausto per sposarsi era la seconda metà di giugno: infausto era invece il maggio. La sposa vestiva, sino dalla sera precedente la cerimonia, l'abito nuziale e si coricava con una cuffia colore arancione. Il giorno delle nozze per la sposa era prescritta una toletta particolare. I capelli venivano spartiti in gruppi (onde il nome di sex crines) con una punta di lancia (hasta caelibaris) e ornati per la prima volta di bende (vittae); vestiva un lungo abito, semplice e bianco (tunica recta), che aderiva alla vita mediante una cintura (cingulum), annodata con un nodo speciale (nodus Herculeus), e velava la testa (nubere) con un velo color arancione (flammeum). Il rito nuziale cominciava con un sacrificio, da cui si prendevano gli auspici; seguiva di regola la sottoscrizione del contratto nuziale (tabulae nuptiales) in presenza di dieci testimoni. Quindi la pronuba, una matrona univira che assisteva la sposa in tutti gli atti del rito, prendeva le destre degli sposi congiungendole (dextrarum iunctio). Un rito speciale si celebrava nel matrimonio con la confarreatio: la parte essenziale di questa (che spiega anche il nome), era costituita da un sacrificio a Giove Fauco di una focaccia di farro con la pronuncia di formule solenni e col compimento di ulteriori cerimonie che davano all'atto un colorito schiettamente arcaico (come horrida antiquitas lo caratterizza Tacito), benché ci sia noto in una figura già ammodernata. Compiute le formalità di rito, aveva luogo il banchetto (cena nuptialis), dopo il quale, verso sera, cominciaia la cerimonia dell'accompagnamento della sposa alla casa del marito, la deductio. Ne dava il segno un tentativo di ratto da parie dello sposo che fingeva di strappare la moglie dalle braccia della madre. Si formava poi un corteo preceduto dalla sposa che, accompagnata da tre bambini patrimi e matrimi (che avessero vivi il padre e la madre), avanzava portando il fuso e la conocchia: due ne teneva per mano, un terzo li precedeva agitando una fiaccola di biancospino, accesa nel focolare della casa della sposa. Seguiva una folla schiamazzante che gridava il grido nuziale talassio (di cui è incerta l'etimologia e il significato) e lanciava audacissimi frizzi. La sposa, giunta alla casa maritale, ne ornava la soglia con bende di lana e l'ungeva con lardo di maiale: prima di entrare, al mariio che le chiedeva il nome, rispondeva con la nota formula ubi tu Gaius ego Gaia. Dopo di che, quelli che l'accompagnavano, sollevatala di peso al disopra del limen (evidentemente per il timore superstizioso che inciampasse la prima volta, il che sarebbe stato di pessimo augurio), la facevano entrare; il marito la riceveva con una cerimonia sacrale (aqua et igni accipere). Quindi la pronuba la faceva sedere sul lectus genialis di fronte alla porta, dove pronunziava le preghiere di rito.
Il giorno seguente alle nozze, la sposa, che vestiva per la prima volta abiti matronali, faceva un'offerta ai Lari e ai Penati e riceveva doni dal marito. Seguiva un banchetto intimo fra parenti (repotia).
Bibl.: A) Grecia: Aspetto giuridico del matrimonio greco. Per l'età eroica: E. Hruza, Beiträge zur Geschichte des griechischen u. römischen Familienrechtes, I; Die Ehebegründung nach attischem Rechte, Erlangen e Lipsia 1892, p. 8 segg.; G. Finsler, Homer, I, 2ª ed., Lipsia e Berlino 1914, p. 182 segg. - Per l'età classica: H. Buermann, Drei Studien auf dem Gebiete des attischen Rechts, in Neue Jahrb. f. klass. Philol., IX (1877), p. 567 segg.; L. Beauchet, Histoire du droit privé dans la république athénienne, I, Parigi 1897, p. 120 segg.; E. Ciccotti, La famiglia nel diritto attico, Torino 1886; E. Hruza, op. cit., p. 18 segg.; O. Müller, Unteresuchungen zur Geschichte des attischen Bürger.-u. Eherechts, in Jahrb. für klass. Philol., XXV (1899); Th. Thalheim, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V, col. 2567 s. v. ἐγγύησις; A. Ledl, Das attische Bürgerrecht und die Frauen, in Wiener Studien, XXIX (1907), p. 304 segg.; XXX (1908), pp. 1 segg., 173 segg.; id., Studien zum attischen Epiklerenrechte, Graz 1907-08, in Jahresber. des k.k. ersten Staatsgymm. in Graz; J. H. Lipsius, Das attische Recht u. Rechtsverfahren, II, Lipsia 1908, p. 158 segg.; J. Partsch, Griech. Bürgerschaftsrecht, Lipsia 1909, p. 46 segg.; G. Busolt, Griechische Staatskunde, Monaco 1920, p. 239 segg.; L. Gernet, Sur l'épiclerat, in Revue des Études grecques, XXXIV (1921), p. 336 segg.; U. E. Paoli, Studi di dirittico attico, Firenze 1930, p. 265 segg. Per il diritto greco-egizio: J. Nietzold, Die Ehe in Ägypten zur ptol.-röm. Zeit, Lipsia 1903; R. de Ruggiero, Bull. dell'Ist. di dir. rom., XV (1903), p. 179 segg.; G. Bortolucci, Arch. giurid., LXXII (1904), p. 148 segg.; J. Lesquier, Les actes de divorce gréco-égyptiens, in Rev. de philol., n. s., XXX (1906), p. 5 segg.; V. Arangio-Ruiz, La successione testamentaria secondo i papiri greco-egizi, Napoli 1906; B. Frese, Aus dem gräco-ägyptischen Rechtsleben, Halle 1909; L. Mitteis, Grundzüge u. Chrestomathie der Papyruskunde, II, Lipsia 1912; parte 1ª, p. 199 segg.; parte 2ª, p. 312 segg. (opera fondamentale, ma, in questo argomento, superata dai documenti posteriormente ritrovati e dagli studî più recenti. Utile sempre per un primo orientamento); E. Revillout, Les origines étyptiennes du droit civil romain, Parigi 1912; K. Sethe, recensione a G. Miller, Zwei ägyptische Eheverträge, in Göttingsche gelehrte Anzeigen, 1918, nn. IX e X; P. M. Meyer, Juristische Papyri, Erklärung von Urkunden zur Einführung in die juristische Papyruskunde, Berlino 1920; J. Partsch, Mitteilungen aus der freiburger Papyrussammlung, III, Heidelberg 1927; L. Wenger, Aus Novellenindex u. Papyruswörterb., Monaco 1928 (in Sitzungsber. d. Bayer. Akad. d. Wissensch., 1928); V. Arangio-Ruiz, Persone e famiglia nel diritto dei papiri, Milano 1930; L. Radermacher, Euripidis Andromache 117 ff. u. der Sirb von 'Επικοινος, in Charisteria f. A. Rzach, Reichenberg 1930, pp. 153-55; W. Edgerton, Notes on Egyptian marriage chiefly in the ptolemaic period, Chicago 1931 (in Studies in ancient oriental civilisation, p. 1ª); S. Huwardas, Beiträge zum griechischen u. gräcoägyptischen Eherecht d. Ptolemäer-u. frühen Kaiserzeit, Lipsia 1931 (in Leipziger rechtwissenschaftliche Studien, fasc. 64); G. Petropoulos, Τινὰ περὶ γάμον ἐν Αἰγύπτῳ κατὰ τοὺς ἑλληνοαιγυπτιακοὺ παπύρους, Atene 1931 (in Πρακτικὰ τῆς 'Ακαδ. 'Αϑηνῶν, VI, p. 1931 segg.); id., Περὶ τῆς συζυγικῆς κοινοκτημοσύνης, Atene 1932 (in Πραγματεῖαι τῆς 'Ακαδ. Αϑηνῶν (pubblicaz. dell'Acc. di Atene), II, i. - Un riassunto degli studî più recenti sul matrimonio greco, romano, greco-egizio e bizantino offre G. Petropoulos, in 'Αρχεῖον βυζαντινοῦ δικαίου, 1933. - Aspetto antiquario: Finsler, op. cit., (età eroica); Becker-Göll, Charikles, III, Berlino 1878, p. 360 segg.; Hermann-Blümner, Lehrbuch d. griech. Privatalterthümer, Friburgo e Tubinga 1882, p. 268 segg.
B) Roma: G. Brini, Matrimonio e divorzio nel diritto romano, voll. 3, Bologna 1887-89; C. Manenti, Della inapponibilità di condizioni ai negozi giuridici e in ispecie delle condizioni apposte al matrimonio, Siena 1888; S. Di Marzo, Lezioni sul matrimonio romano, Palermo (.s.a); O. Karlowa, Die Formen der römischen Ehe, und Manus, Lipsia 1868; id., Römische Rechtsgeschichte, II, Lipsia 1901, p. 154; P. Bonfante, Corso di diritto romano, I, Diritto di famiglia, Roma 1925, p. 187 segg.; G. Ferrari, Diritto matrimoniale secondo la Nov. di Leone il filosofo, in Byzantin. Zeitschr., XVIII (1900), p. 159 segg.; S. Solazzi, Consortium omnis vitae, in Annali Univ. Macearta, V (1929), p. 27 segg.; E. Albertario, Honor matrimoni e affectio maritalis, in Studi di dir. rom., I, p. 195 segg., Milano 1933; id., La definizione del matrimonio secondo Modestino, ibid., p. 179; id., L'autonomia dell'elemento spirituale nel matrimonio e nel possesso romano-giustinianeo, ibid., p. 211; id., Di alcuni riferimenti al matrimonio e al possesso di S. Agostino, ibid., p. 229; E. Volterra, Un'osservazione in tema di impedimenti matrimoniali, Padova 1933, ecc. - Per gli usi nuziali romani v.: Becker-Göll, Gallus, 2ª ed., II, Berlino 1880, p. 5 segg.; Marquardt-Mau, Das Privatleben der Römer, 2ª ed., I, Lipsia 1886, p. 28 segg.; L. Friedländer, Darstellungen aus der Sittengeschichte Roms, I, 10ª ed., Lpsia 1922, p. 272 segg. Cfr. Ch. Lecrivain, in Daremberg e Saglio, Dictionn. d. ant. gr. et rom., III, 1654-1657, s.v. matrimonium; H. Blümner, Die römischen Privataltertümer, Monaco 1911, p. 341 segg.; U. E. Paoli, Lar familiaris, Firenze 1929, p. 255 segg.; E. Samter, Familienfest der Griechen u. Römer, Berlino 1901.
Il matrimonio nel Medioevo e nell'età moderna.
Diritto germanico. - Non è facile fissare il concetto del matrimonio nel mondo germanico: le leggi barbariche, principalissima fonte, il più delle volte portano tracce delle modifiche seguite sotto l'influenza del cristianesimo e del contatto con i Romani. In genere si può dire che la concezione germanica è quella di tutti i popoli primitivi: il matrimonio considerato soprattutto come un "atto intergentilizio, di cui la donna era oggetto" (E. Besta), come istituto nell'interesse della famiglia del marito, cui doveva assicurare i discendenti che avessero cura dei sacra domestici e del culto dei defunti, come istituto in cui il maggiore interessato appariva non tanto il marito, quanto il capo della famiglia di lui (F. Schupfer, C. Calisse).
La condizione di capacità tenuta soprattutto presente dai Germani pare sia stata, connessa alla finalità del matrimonio, la capacità generativa: da Cesare e Tacito apparirebbe che gli antichi Germani compissero i matrimonî relativamente tardi (sposi coetanei, più che ventenni); ma in seguito si dovettero produrre deviazioni: sicché per i Longobardi Liutprando vietò i matrimonî di donne con ragazzi inferiori ai tredici anni, e stabilì questa età anche per le ragazze: è assai dubbio se la norma sortisse effetti; Carlomagno vietò i matrimonî tra impuberi e raccomandò che gli sposi fossero coetanei. La legge dei Visigoti (III, 1,1) voleva, sotto sanzione di nullità, che la donna fosse più giovane del marito.
Il matrimonio non era ammesso tra ascendenti e discendenti, né tra fratelli; l'impedimento dei gradi ulteriori non fu introdotto che per influenza della Chiesa e attraverso resistenze e contrasti; così deve dirsi dell'impedimento dell'affinità. Questo appare nell'editto di Rotari, cap. 185, de incestas et inlecetas nuptias: divieto di sposare la matrigna o la figliastra o la vedova del fratello; cfr. legge degli Alamanni, cap. 39, per cui sono illecite anche le nozze tra zio e nipote o con la sorella della moglie; così la legge dei Bavari, VII, 1.
Nel periodo più antico aveva dovuto darsi impossibilità di matrimonio tra persone di classi diverse; ma all'epoca delle invasioni il divieto doveva valere solo per i servi e gli aldî, e ancora con temperamenti. Da Rotari, cap. 216, appare che l'aldio si può unire con una libera comprandone il mundio; ma il servo non può unirsi con donna libera sotto pena della vita (can. 221); quanto all'aldia, se in casa aliena ad maritum intraverit et servum tulerit, libertatem suam amittat (cap. 217). Il libero non può sposare l'ancella, né un'aldia, propria o altrui, se prima non la renda widerbora (Liutpr., cap. 106). Invece sono libere le unioni tra persone di stirpi diverse. Nell'epoca più antica dovette essere praticato il ratto, di fronte a donne di altro popolo (Caes., De bello gall., VI, 23), e anche dello stesso, nel qual caso però il matrimonio restava imperfetto perché la donna non usciva dalla potestà del suo mundoaldo. Ma, forse dai patti tra il rapitore e la famiglia della rapita, sorse la forma della compera. Da ricordare la legge dei Frisî, IX, 11: se alcuno sposi una donna libera contro la volontà dei suoi parentes o di coloro che abbiano potestà su lei, dovrà pagare soldi venti; trenta, se la donna sia nobile; dieci, se sia lita. Nella compera si fissa il prezzo, e lo sposo lo paga al mundoaldo della donna, ricevendo questa, presenti i parentes et propinqui: le forme della traditio sono in sostanza le stesse usate per la traditio delle cose; ma il marito ricopre la donna col suo manto o la prende sulle ginocchia o le fa introdurre il piede in una pantofola, o con altra forma simbolica esprime il concetto ch'ella entra nella famiglia di lui. Segue la deductio alla casa del marito, con un accompagnamento che deve ricordare il ratto primitivo, e la conscensio thalami. Lentamente la compera della sposa si riduce a compera del mundio (Rotari, cap. 216: pretium quod pro mundio mulieris datum est) e acquista carattere eminentemente simbolico; mentre comincia ad avere rilievo la volontà della donna: in origine il consenso di questa non è chiesto, poi lo è allorché il suo mundoaldo non sia il padre o il fratello; infine, almeno teoricamente, diviene sempre necessario, per quanto possa essere presunto.
Per l'Italia F. Brandileone ebbe a dire in forma sintetica che dal principio del Medioevo a tutto il sec. XI la donna è oggetto passivo del negozio, più tardi ne diviene soggetto attivo.
L'effetto principale del matrimonio è che la donna cade sotto il mundio (già nel sec. VII distintosi dal dominio sui servi e sulle cose) del marito o di chi ha il mundio su di lui. Pertanto (salvo il caso di matrimonî nei quali il marito non acquistasse il mundio) la donna assumeva la condizione giuridica del marito e viveva secondo la legge di lui. Nel diritto più antico il marito poteva venderla, cederla a estranei, anche a scopo di unione sessuale: ciò che Liutprando, cap. 130, vietò. Il marito aveva un'ampia potestà disciplinare, che giungeva sino alla mutilazione e alla morte, ma che si attenuava sotto l'influsso del cristianesimo. Egli doveva presentarsi in giudizio e combattere per la moglie (fuorché tra i Visigoti). Già nel sec. VII la donna ha beni proprî, che resteranno suoi, sebbene il marito li prenda sotto il proprio mundio. Dal matrimonio consegue per la donna l'obbligo della fedeltà: quanto all'uomo, nei tempi più antichi i grandi avevano talvolta due mogli (Ariovisto, al dire di Cesare: De bello gall., I, 53) e l'abuso non doveva essere cessato, se nell'855 Lotario I doveva stabilire in modo generale che nessuno potesse avere a un tempo due mogli o una moglie e una concubina. Ma di un obbligo giuridico di fedeltà del marito non si poté mai parlare. Il marito aveva il diritto di ripudiare la moglie per adulterio, per infecondità, per vizî fisici ripugnanti o infermità (vediamo esclusa questa da Liutprando, cap. 122); forse per influenza dei Romani, fu ammesso il divorzio consensuale (v. formula Marcolfi, II, 30). Le leggi cercarono vietare ripudî senza causa (legge dei Bavari, VIII, 14: Si quis liber liberam uxorem suam sine aliquo vitio per invidiam dimiserit, cum 40 et 8 solidis componat parentibus).
In un tempo antichissimo la donna era sacrificata ai mani del marito defunto e costretta a seguirlo nell'oltretomba con i suoi cavalli e oggetti di pertinenza personale; in epoca storica può passare a seconde nozze: ma spesso dev'essere pagato un compenso alla famiglia del marito (prezzo del consensol): cfr. la legge dei Sassoni, 43 (VI, 2). Nel diritto longobardo un segno di sfavore verso le seconde nozze è il fatto che la metà che il nuovo marito deve dare all'heres proximus del primo è dimezzata rispetto a quella pagata per le vergini (Rotari, cap. 182).
Diritto della Chiesa. - Dal sec. V al sec. XI. - Di fronte alla fissazione di concetti compiuta nella grande epoca della patristica, in particolare da S. Agostino, questi secoli non hanno portato un'ingente elaborazione ulteriore. Resta fondamentale la dottrina agostiniana del triplex bonum, la fides, che consiste nella fedeltà coniugale e che è lesa dall'adulterio, il sacramentum, che consiste nell'indissolubilità del rapporto ed è leso dal divorzio, la proles, che può però mancare. Gli scrittori parleranno poi sempre di sacramentum a proposito del matrimonio, e passerà attraverso le raccolte la lettera di papa Leone a Rustico da Narbona del 428, dove si dice mysterii sacramentum grande in unitate viri ac feminae esse significat. Ma cos'è questo sacramento? Sarebbe ardito affermare che già in quest'epoca tutti gli scrittori abbiano chiara l'idea che si tratta di un mezzo infallibile per ottenere la grazia, al pari del battesimo o della confermazione. Sacramentum, nuptiale mysterium, copula carnalis sono bene spesso usati come termini equivalenti; e si tratta dell'unione carnale attraverso cui i due coniugi divengono una caro. Peraltro, non solo il matrimonio è considerato cosa intrinsecamente buona (che la Chiesa difende contro ogni esagerazione nell'apologia della castità), ma appare già preciso (Incmaro di Reims) il concetto insinuato da S. Paolo (Eph., V, 23-32), che il matrimonio è indissolubile in quanto simboleggia l'unione di Cristo con la Chiesa. Gli scrittori parlano pure di un matrimonium legitimum contrapposto al matrimonio non legittimo: ma l'espressione ha significati diversi: talora il matrimonio non legittimo è quello valido per la Chiesa, non per la legge civile, talora quello celebrato senza forme.
Quanto ai requisiti di capacità, le rare fonti che accennano all'età paiono riferirsi alla pubertà di fatto, piuttosto che a un'età legale: non si dubita che l'impotenza renda nullo il matrimonio (anche se per la prova di essa si diano norme diverse), mentre la Chiesa sostiene che la sterilità della donna non autorizza lo scioglimento. La Chiesa richiede in origine il consenso dei genitori o di coloro che hanno la patria potestas: però, presto si comincia ad ammettere che a una certa età (alquanto superiore a quella della pubertà) il figlio o la figlia abbiano una volontà che merita di essere rispettata, sicché il padre deve preoccuparsi di ottenere il loro consenso. Bisogna giungere al sec. IX per sentire Nicolò I affermare che per la validità del matrimonio basta il consenso degli sposi; a quest'epoca il consenso dei genitori comincia ad essere equiparato alle solemnitates del matrimonio che non toccano l'essenza di questo. Il diritto della Chiesa si stacca qui da quello civile.
Tra le solennità che contrassegnano il matrimonio ha gran posto la benedizione sacerdotale, menzionata costantemente dalle fonti. Un capitolare di Carlomagno dell'802 ci dice che prima della benedizione episcopi, presbyteri cum senioribus populi consanguinitatem coniungentium diligenter exquirunt. Accanto alla benedizione sono menzionati altri usi, come quelli dei paraninfi che debbono accompagnare la sposa, o la consegna dell'anello; la dote conserva tutta la sua importanza di segno essenziale per distinguere il matrimonio dal concubinato.
Dal matrimonio nasce l'obbligo, reciproco, della fedeltà, del debitum coniugale, della vita comune. I pontefici affermano costantemente l'assoluta indissolubilità del vincolo: anche il marito che ha cacciato la moglie adultera non può passare ad altre nozze; e i concilî ripetono quasi sempre queste norme (con eccezioni tuttavia al principio dell'indissolubilità: talora per il caso che un coniuge si allontani per sempre dalla patria, necessitate cogente, talora per il lebbroso, talora per il ritiro di un coniuge in un chiostro, talora per la riduzione di un coniuge in schiavitù). Ma il diritto secolare resiste all'introduzione del principio dell'indissolubilita.
Il sec. XII. - Negli ultimissimi anni del sec. XI Ivone da Chartres aveva abbozzato una dottrina matrimoniale, ma molto incerta: già però appariva chiaro da essa che la questione ormai saliente era di fissare il momento decisivo per la formazione del vincolo, ciò che significava distinguere tra matrimonio e sponsali, e stabilire se il matrimonio si formasse col consenso o con l'unione carnale.
I primi decennî del sec. XII - il grande secolo per la formazione della dottrina del matrimonio, e in genere il grande secolo della teologia e del diritto canonico - vedono i preziosi apporti di Anselmo di Laon, di Guglielmo di Champeaux, di Abelardo, e, soprattutto, di Ugo da S. Vittore; tutti insistono sul punto: gli estremi per la formazione del vincolo.
Sulla sacramentalità del matrimonio tutti sono concordi; ma la concordia non va oltre quest'affermazione. Allorché si tratta di vedere in che consista tale sacramentalità, sentiamo che Ugo da S. Vittore chiama sacramentum il tertium bonum del matrimonio: questo sarebbe un sacrum signum, dell'unione di Dio con l'anima degli uomini pii, e dell'unione di Cristo con la Chiesa: ma Ugo non afferrma che conferisca grazia. Pier Lombardo - e già in modo molto simile si era espresso Abelardo - considera il matrimonio come dato in remedium tantum, contrapponendolo ai sacramenti che conferiscono grazia: lo pone però nel novero dei sette sacramenti. Il glossatore Alberto di Morra (papa Gregorio VIII nel 1187) è isolato nel dire che nel matrimonio si può commettere simonia. La dottrina spiega invece ch'esso è il solo sacramento in cui non si dia simonia, quia ibi non confertur gratia Spiritus Sancti.
Com'è incerta su ciò che costituisca la sacramentalità del matrimonio, così la dottrina è divisa intorno all'estremo della sua formazione. Quale cosa forma il matrimonio? Il consenso, rispondono Ugo da S. Vittore e Pier Lombardo.
La dottrina che scorge nella copula l'elemento essenziale per la formazione del matrimonio, ha invece ispirato, pochissimi anni prima di Pier Lombardo, la grande opera di Graziano, su cui con ogni probabilità molto in questa parte ha potuto, direttamente o indirettamente, Incmaro di Reims. Graziano in infiniti punti tocca o sfiora questioni attinenti all'essenza del matrimonio, ma in particolare in diversi dicta alla causa XXVII; e il suo pensiero è sostanzialmente quello che il matrimonio conmixtione perficitur.
In molti scritti del sec. XII sentiamo così accennare alla diversità di vedute tra Francesi e Italiani circa il momento in cui si perfeziona il matrimonio, e alle conseguenze pratiche di questa diversità. La Summa parisiensis ci dice che nel caso di matrimonio benedetto dal sacerdote, ma non ancora consumato, ove la sposa abbia rapporti carnali con altro uomo, ecclesia Franciae la costringe a tornare allo sposo (perché ritiene il matrimonio perfetto, sebbene non sia stato consumato), la Chiesa romana, no. Et adhuc, quid melius sit, ignoratur. Mediante queste discussioni e queste controversie si affina la distinzione tra gli sponsalia de futuro e gli sponsalia de praesenti; ampiamente regolata poi dalla legislazione pontificia degli ultimi anni del secolo e dei primi decennî del sec. XIII (dove si mantiene il principio che gli sponsalia de futuro si convertono in matrimonio attraverso la copula). Gregorio IX stabilirà (c. 30 e c. 31, X, de spons. et matr., IV,1) che gli sponsalia de futuro seguiti da congiunzione carnale prevalgano su un matrimonio successivo consumato; e che gli sponsalia de praesenti non consumati invalidino un successivo matrimonio sia pure consumato. Lo spirito di queste norme si è che la consumazione tra sponsi fa presumere la loro volontà di considerarsi non tali, ma coniugi. Si può dire che dal principio del pontificato d'Innocenzo III la legislazione pontificia è tutta permeata dal principio del consenso.
La metà del sec. XIII - il periodo di Alberto Magno, di Bonaventura da Bagnorea, di Tommaso d'Aquino, di Pietro di Tarantasia - vede ampiamente studiato il matrimonio, come stato, come contratto (consensuale, che si forma col solo consenso; ma bisogna ricordare che il costume continuava a dare alla copula quel valore che ormai gli negava la dottrina: si ricordi il simulacro di consumazione in tutti i matrimonî principeschi fino a epoca tardissima), come sacramento (analogo agli altri sei: e avente la caratteristica che il consenso sia al tempo stesso causa efficiente del contratto e del sacramento). Resta ancora incerto, però, se ministri del sacramento siano gli sposi o il prete che vi assiste, se pertanto la grazia discenda dalla semplice unione o dalla benedizione sacerdotale.
Il Concilio di Trento. - La concezione ortodossa del matrimonio era stata solennemente definita nel 1439, attraverso il decreto agli Armeni, che suona: Septimum est sacramentum matrimonii, quod est signum coniunctionis Christi et Ecclesiae, secundum Apostolum dicentem: "Sacramentum hoc magnum est: ego autem dico in Christo et in Ecclesia". Causa efficiens matrimonii regulariter est mutuus consensus per verba de praesenti expressus. Assignatur autem triplex bonum matrimonii...
I teologi del Cinquecento (Domenico Soto, Martino Ledesma, Catarino, Bertoldo Pirstringer) sono tutti d'accordo sulla natura sacramentale e sugli effetti del matrimonio: ma ancora sono divisi sul punto se si tratti di un sacramento dell'antica o della nuova legge, e, soprattutto, sui rapporti fra contratto e sacramento, e sulla natura dell'intervento del prete al matrimonio.
Ma la preoccupazione più grave che si ha allorché si apre il Concilio di Trento, è una preoccupazione pratica, quella di evitare i danni dei matrimonî clandestini. Preoccupazione intensissima: si trattava infatti di fissare, sulla base di un elemento esteriore, apparente, e non già soltanto sul fondamento dell'animus degli sposi, quando si avesse il matrimonio, e quando il fidanzamento o promessa. La pratica aveva creato una serie di espedienti per contraddistinguere il matrimonio vero e proprio: qua, l'esistenza di un giudice o di un notaio o di un discretus et sapiens vir, che secondo alcuni sarebbe il continuatore del mundoaldo longobardo; là, cortei e radunate; altrove, il rito dell'osculum o quello di mangiare e bere insieme; gli strumenti dotali erano sempre segno sicuro della natura matrimoniale del vincolo. Ma restava che, anche quando non vi fosse nulla di ciò, poteva darsi vero matrimonio, tale per volontà delle parti; e restava la possibilità di silenziosa trasformazione in matrimonio di quelli ch'erano stati in origine sponsalia de futuro.
Il Concilio di Trento nella VII sessione (3 marzo 1547) definì la dottrina generale dei sacramenti, e con ciò i principî fondamentali del matrimonio. Nel 1562 in una congregazione generale furono letti dodici capitula reformationis, tra cui erano quelli che affrontavano in pieno la questione dei matrimonî clandestini. Tutto il 1563 fu destinato alla discussione della materia matrimoniale. Nella sessione XXIV (11 novembre 1563) furono promulgati la doctrina de sacramento matrimonii, con la condanna di dodici proposizioni tratte dall'insegnamento dei riformati (e contrarie all'indissolubilità del vincolo, al diritto esclusivo della Chiesa di stabilire impedimenti e di trattare la cause matrimoniali, al celibato del clero), e il decreto Tametsi "de reformatione matrimonii", in dieci capi. Essenziale per l'istituto il c. I, con cui fu stabilita la nullità di tutti i matrimonî che non fossero contratti dinnanzi al parroco (o a un sacerdote da lui delegato) e a due testimoni: nullità che facendo venire meno i cosiddetti matrimonî clandestini toglieva di mezzo i dubbî, protrattisi per secoli, intorno ai caratteri volti a discriminare i matrimonî (sponsalia de praesenti) dagli sponsali (sponsalia de futuro). Il decreto però ebbe vigore solo nei luoghi dov'era stato pubblicato il Tridentino: altrove, continuò ad applicarsi il vecchio diritto, dominato dal principio consensus facit nuptias, e che non prescriveva sotto sanzione di nullità forme speciali.
Il Concilio non aveva fissato i rapporti tra il contratto e il sacramento, né stabilito chi fosse il ministro di questo: due dei punti su cui, come si è accennato, la dottrina era incerta. Nello stesso anno 1563 Melchiorre Cano nell'opera De locis theologieis sosteneva che il contratto è distinto dal sacramento, che si possono dare matrimonî che non siano sacramenti, e che il ministro del sacramento è il sacerdote. L'opinione opposta era già stata tre anni prima difesa da Domenico Soto e lo fu più tardi da varî teologi, compreso il Bellarmino. Tuttavia su questi punti regnò lunga incertezza.
Ancora nel sec. XVI, la Chiesa, in relazione allo svolgimento dell'attività missionaria, dovette regolare ampiamente la materia del matrimonio degl'infedeli. Già dalla grande età della patristica si era ammesso il privilegio paolino, cioè il diritto dell'infedele, sposatosi nell'infedeltà, che si convertisse, di passare a nuove nozze, qualora la moglie sposata nell'infedeltà non volesse né convertirsi né convivere con lui sine contumelia Creatoris. Ora, vennero promulgate tre costituzioni, Altitudo di Paolo III, del 1° giugno 1537, Romani Pontificis di Pio V, del 2 agosto 1571, Populis ac nationibus di Gregorio XIII, del 25 gennaio 1585 (ripubblicate in appendice al Codex, che rinvia ad esse), a termini delle quali i convertiti al cristianesimo dalla poligamia possono (in deroga al principio generale, che si debba considerare vera moglie la prima sposata, in ordine di tempo) restare con la moglie che si battezzi con loro, anche se non fosse la prima sposata, o con quella che preferiscano, ove non ricordino chi sia la moglie prima sposata; e se separati dalla moglie - o dal marito - (com'era consueto per i negri trasportati in America) possano contrarre nuovi matrimonî, che resterebbero validi anche se si venisse a scoprire che furono contratti allorché il coniuge rimasto nel paese di origine s'era convento egli pure al cristianesimo.
Il periodo posteriore al Cinquecento e la codificazione. - Merita menzione particolare l'opera di Benedetto XIV, come scrittore e come legislatore (disciplina del matrimonio di coscienza, con la Satis vobis del 17 novembre 1741; e norme sull'estensione del privilegio paolino), quella di Pio VI, volta a combattere, in questo campo, i principî del giuseppinismo, e quella di Pio IX contro le dottrine del liberalismo; Pio X condannò col decreto Lamentabili la proposizione (51): Matrimonium non potuit evadere sacramentum novae legis, nisi serius in Ecclesia.
Tra questi atti, particolarmente importanti la lettera Ad Apostolicae del 22 agosto 1851 di condanna delle opinioni di G. N. Nuytz (v.) dell'università di Torino, lettera che decisamente condanna l'opinione, per l'innanzi ritenuta controvertibile, che possano dirsi matrimoni tra battezzati che non siano al tempo stesso sacramenti, e l'allocuzione 27 settembre 1852, dove si afferma che Inter fideles matrimonium dari non posse quin uno eodemque tempore sit sacramentum. Con ciò è anche rimasto fissato che ministri del sacramento sono gli sposi. Il decreto Ne temere del 2 agosto 1907 estese poi il sistema tridentino (validità del solo matrimonio celebrato dinnanzi al parroco o a un sacerdote da lui delegato e due testimonî) a tutti i paesi, togliendo la precedente distinzione tra luoghi dove il Concilio di Trento era stato pubblicato, e luoghi dove non lo era stato, e dichiarò invalido il matrimonio contratto dinnanzi a un parroco che ricevesse il consenso degli sposi costrettovi vi o metu gravi.
Il Codex iuris canonici riafferma il principio che Cristo ad sacramenti dignitatem evexit ipsum contractum matrimonialem inter baptizatos, e che non si può pertanto dare valido contratto tra battezzati che non sia al tempo stesso sacramento (can. 1012). I requisiti di capacità sono rimasti quelli tradizionali: solo elevandosi i limiti di età da 14 e 12 anni del diritto romano a 16 e 14. Negli ultimi decennî, connessa alla dibattutissima questione se il matrimonio sia nullo solo per impotentia coeundi (opinione prevalente) o anche per impotentia generandi, si è controvertito sulla possibilità o meno di ammettere al matrimonio la donna che abbia subito l'asportazione dell'utero o di entrambe le ovaie.
Per la celebrazione, si è rimasti fermi al sistema tridentino, integrato dalle accennate disposizioni del Ne temere: e cioè, competente a celebrare il matrimonio (ma il celebrante non è che un "teste qualificato") è il parroco o il vescovo della sposa, o un sacerdote delegato da uno di loro. È tuttavia valido il matrimonio celebrato dinnanzi al parroco o al vescovo del luogo di celebrazione, se anche essi non siano il parroco o il vescovo di alcuno degli sposi. Dinnanzi al celebrante e a due testimonî gli sposi esprimono verbalmente il loro consenso: non sono ammessi segni equipollenti, se essi loqui possint: eccezionalmente sono possibili matrimonî celebrati per procura, o per mezzo di un interprete (cann. 1088-1091). Luogo normale di celebrazione è la chiesa parrocchiale della sposa: può essere consentita la celebrazione in altra chiesa, o, eccezionalmente, anche in casa (can. 1109). Il parroco deve curare che gli sposi ricevano la benedizione nuziale, che può essere data solum in Missa, servata speciali rubrica, e che non viene impartita alla donna che passi in seconde nozze (se la ricevette al primo matrimonio), né tempore feriato, cioè dalla prima domenica dell'Avvento al Natale incluso e dal mercoledì delle ceneri alla domenica di Pasqua inclusa: il vescovo può però concederla anche in questi periodi (cann. 1101, 1108, 1143). In via eccezionale si può fare luogo alla celebrazione di matrimonio dinnanzi ai soli testi, allorché non si possa avere sine gravi incommodo il parroco o il vescovo o un loro delegato, e uno degli sposi sia in pericolo di morte o prudenter praevideatur che per un mese non sia possibile avere il celebrante (can. 1098).
Queste norme però si applicano solo ai matrimonî in cui una parte almeno sia cattolica: i matrimonî degli acattolici valgono quando vi siano gli estremi della capacità naturale e del consenso. Circa gli effetti del matrimonio, la Chiesa ha sempre più completamente lasciato allo Stato di regolare tutti quelli di natura civile (e tali s'intendono quelli concernenti i diritti patrimoniali, la condizione dei figli, la potestà del marito, ecc.). Nel Codex è fatta salva la competenza del potere civile circa mere civiles matrimonii effectus (can. 1016), e non si regola più la materia della dote e dei rapporti patrimoniali, e neppure quella della legittimità dei figli, né gl'istituti della legittimazione e dell'adozione. Ciò non toglie che la Chiesa continui per i proprî fini a considerare secondo suoi criterî la legittimità dei natali, e che il papa ritenga di poter fare luogo a legittimazioni agli effetti puramente ecclesiastici. I giudizî di annullamento e di separazione sono rimessi esclusivamente all'autorità ecclesiastica; ma i secondi sono talora lasciati, attraverso i concordati, ai tribunali statali.
Il matrimonio civile. - Bisogna tenere bene distinto ciò ch'è ingerenza dello Stato in materia matrimoniale, e ciò ch'è matrimonio civile. La prima ha origine antichissima e raramente è del tutto mancata; il secondo è recente. Allorché si è detto che presso tutti i popoli primitivi il matrimonio è soprattutto un affare intergentilizio, si è pure detto ch'esso interessa un gruppo non solo familiare, ma anche politico, qual'è la gente.
F. Brandileone ha dimostrato per l'Italia, sulla base di documenti non anteriori al sec. XII, ma che sicuramente non fanno che applicare il più antico diritto germanico, che nella celebrazione del matrimonio la potestà pubblica fu rappresentata dapprima dai giudici longobardi, poi dai conti e dai missi franchi, quindi dai giudici palatini o regi o dai notai. Nell'età moderna, però, il potere statale in molti paesi si disinteressò della legislazione matrimoniale e riconobbe l'esclusivo potere della Chiesa di regolare il matrimonio. Tra gli stati cattolici, quello che mantenne un più intenso interessamento in materia matrimoniale fu la Francia, sotto l'influenza delle dottrine gallicane; gli editti regi e le decisioni dei parlamenti consideravano la materia mstrimoniale come soggetta alla competenza statale; nella seconda metà del Seicento Claude Fleury, nella divulgatissima Institution au droit ecclésiastique, insegnava che il consenso degli sposi nel matrimonio deve essere conforme aux lois de l'Èglise et de l'Ètat, e menzionava le ordinanze di Blois e di Melun, l'editto del 1556 e la dichiarazione del 1639, che avevano vietato i matrimoni des enfans de famille senza il consenso dei loro genitori. Pochissimi anni più tardi Van Espen sosteneva il diritto dei principi di stabilire impedimenti, anche dirimenti, al matrimonio. Bisogna però giungere al periodo di Giuseppe II per trovare non solo un intenso svolgimento di queste dottrine, ma una loro attuazione pratica su larga scala, attraverso la legislazione dell'imperatore, che con la sua patente matrimoniale del 16 gennaio 1783 per l'Austria (altra patente fu pubblicata il 28 settembre 1784 per i Paesi Bassi) separava il contratto dal sacramento, e stabiliva che il matrimonio considerato come contratto civile - e con esso i diritti e gli obblighi che ne nascono - ricevesse la sua forza e la sua determinazione dalle leggi dello stato; ai tribunali di questo doveva spettare decidere ogni questione in proposito. Però il matrimonio continuava a essere celebrato dal parroco, nella forma tridentina, prevî i bandi in chiesa; inoltre la legislazione teneva fermi impedimenti di natura ecclesiastica. Il sistema è passato nel codice generale austriaco del 1811, tuttora vigente in Austria.
Il matrimonio civile fu introdotto per la prima volta come facoltativo nei Paesi Bassi nel 1580; fece un'effimera apparizione in Inghilterra sotto il protettorato di Cromwell, e apparve, nella seconda metà del Seicento, in qualche colonia dell'America Settentrionale. In Francia con un editto del novembre 1787 fu lasciata ai calvinisti la scelta di contrarre matrimonio dinnanzi al parroco, considerato come magistrato civile, o davanti al giudice del loro domicilio, che li dichiarava uniti in nome della legge.
Alla rivoluzione l'assemblea costituente, ispirandosi all'opinione di Condorcet, che lo stato civile degli uomini debba essere indipendente dalle loro opinioni religiose, votò il 27 agosto 1791 la disposizione che fu inserita nel titolo II della costituzione del 3-14 settembre successivo: La loi ne considère le mariage que comme contrat civil: l'organizzazione del matrimonio civile fu fatta con la legge 20 settembre 1792 sul modo di constatare lo stato civile dei cittadini. Il codice di Napoleone regolò il matrimonio al titolo V del libro I (26 ventoso XI): era fissata l'età minima di 18 anni per l'uomo e 15 per la donna, era necessario il consenso dei genitori per i maschi fino a 25 anni, per le donne fino a 21; oltre tale età era necessario, in caso di dissenso, l'acte respectueux. Il matrimonio doveva essere celebrato dinnanzi all'ufficiale dello stato civile del domicilio di una delle due parti, previe pubblicazioni alla municipalità. Era ammesso il divorzio (titolo VI: 30 ventoso anno XI: fu abolito con la legge 8 maggio 1816) per cause determinate o per consenso reciproco (allorché esistessero certi presupposti). Il 54° articolo organico, passato poi nel cod. pen., aveva vietato la celebrazione del matrimonio religioso senza previo matrimonio civile.
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Il matrimonio nelle legislazioni contemporanee.
Diritto italiano. - Col cod. civ. del 1865, entrato in vigore il 1° gennaio 1866, era stato accolto in Italia il sistema del cod. napol., cioè solo il matrimonio civile aveva effetti nell'ordinamento statale. È noto che un caposaldo subito posto dal papa Pio XI per la conclusione del concordato fu il riconoscimento di effetti civili al matrimonio religioso. Questo caposaldo, accettato, ispirò l'art. 34 del concordato, con cui "lo stato.... riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili", e la legge 27 maggio 1929, n. 847, legge unilaterale dello stato italiano (per quanto sia lecito pensare ch'essa sia stata proposta, intesa almeno la S. Sede); da parte della Chiesa, a prescindere da altri atti minori, venne emanata un'istruzione della Congregazione dei sacramenti agli ordinarî d'Italia del i° luglio 1929. Con l'accennata legge 27 maggio 1929 il legislatore italiano ha dovuto affrontare la difficoltà enorme inerente a un radicale mutamento di sistema, e all'inserzione del riconoscimento, sia del matrimonio religioso, sia della competenza dei tribunali ecclesiastici nelle cause matrimoniali, nel diritto di uno stato, che non solo non dà prescrizioni di natura religiosa ai suoi sudditi, ma in massima si disinteressa di conoscere persino la loro confessione.
Dal 1929 si hanno in Italia tre forme di matrimonio:
a) Quella cattolica, che ha effetti civili a termini dell'art. 34 del concordato. Un matrimonio ha effetti per lo Stato, se sia riconosciuto valido per la Chiesa cattolica, dinnanzi alla quale è stato contratto, purché sia stato trascritto (e all'uopo occorreranno le pubblicazioni, di regola anteriori alla celebrazione) sui registri dello stato civile, al cui ufficiale l'atto viene inviato dal parroco. La forma di celebrazione e la capacità stessa dell'ecclesiastico che vi assiste, sono regolate dal diritto della Chiesa: peraltro il ministro del culto deve (è controverso se ciò sia indispensabile perché il matrimonio possa essere trascritto) leggere, ricevuto l'assenso degli sposi, gli articoli 130-132 del cod. civ., riguardanti i diritti e i doveri dei coniugi. È eccezionale l'esistenza di matrimonî canonici senza effetti civili: tali sono i matrimonî di coscienza in senso proprio (tali secondo il diritto canonico) o in senso improprio (in cui la Chiesa abbia consentito alla volontà degli sposi, che il matrimonio non sortisse effetti civili, e in cui pertanto il parroco non ha trasmesso l'atto all'ufficio dello stato civile), nonché i matrimonî in cui uno degli sposi non è capace per il diritto dello stato, e ciò per essere coniugato (col solo vincolo civile, o anche con doppio vincolo, che però è venuto meno per la Chiesa per la presunzione di morte dell'altro coniuge, istituto che non esiste nel nostro diritto) o per essere interdetto per infermità di mente, e altresì i matrimonî contratti dinnanzi ai soli testimonî e senza intervento del parroco o di un suo delegato (controverso). Per i matrimoni della prima categoria (di coscienza), la trascrizione può seguire anche tardivamente, in qualsiasi tempo dopo la celebrazione del matrimonio, solo che (e la necessità di questa condizione è controversa) i due sposi siano ancora in vita: purché nel frattempo nessuno di loro abbia contratto matrimonio civile.
b) Quella civile, celebrata dinnanzi all'ufficiale dello stato civile. Le condizioni di capacità e gl'impedimenti sono stati modificati col tit. I della legge 27 maggio 1929, n. 847, allo scopo di rendere la legge civile quanto più prossima possibile alla legge canonica: così l'età è stata abbassata da 18 e 15 a 16 e 14 anni; i minori abbisognano del consenso del genitore che esercita su loro la patria potestà. Il matrimonio è preceduto dalle pubblicazioni, se non vi sia stata dispensa. La celebrazione consiste nella lettura fatta dall'ufficiale dello stato civile agli sposi degli articoli 130-132 dcl cod. civ., nel ricevimento della dichiarazione che si vogliono rispettivamente prendere in marito e moglie, nella pronuncia, da parte dell'ufficiale, in nome della legge ch'esse sono unite in matrimonio: il tutto alla presenza di due testimonî (art. 94 del cod. civ.).
c) Quella celebrata dinnanzi a ministri di un culto acattolico riconosciuti dallo stato, che siano autorizzati alla celebrazione di quel determinato matrimonio dall'ufficiale dello stato civile, il quale abbia previamente riscontrato, attraverso le pubblicazioni, la capacità degli sposi e la mancanza d'impedimenti. La celebrazione consiste nella lettura degli articoli 130-132 del cod. civ., e nel ricevimento, alla presenza di due testimonî idonei, della dichiarazione espressa di entrambi gli sposi di volersi prendere rispettivamente in marito e in moglie. Il ministro che celebra compila l'atto di matrimonio e lo trasmette all'ufficiale dello stato civile, che lo trascrive nei suoi registri (articoli 9 e 10 della legge 24 giugno 1929, n. 1159).
I cittadini, poi, possono contrarre matrimonio all'estero, purché abbiano la capacità secondo la nostra legge, e osservino le forme stabilite dalla legge locale: nei tre mesi dal ritorno in patria, devono fare iscrivere il matrimonio nei registri dello stato civile del comune di residenza: ma l'inosservanza non ha per sanzione che una multa (art. 100, 101 del cod. civ.). Gli stranieri possono contrarre matrimonio dei tipi b) e c), in Italia, purché siano capaci secondo la loro legge nazionale (art. 102 del cod. civ.). Il re e i principi della famiglia reale hanno come ufficiale dello stato civile il presidente del senato: ove contraessero matrimonio civile, si avrebbero per loro le seguenti particolarità: a) nessun minimo legale di età; b) inesistenza degl'impedimenti della parentela in 3° grado e dell'affinità in 2° grado; c) necessità (per i principi) dell'assenso del re; d) luogo di celebrazione fissato dal re; e) possibilità di matrimonio per procura (art. 69, 99 del cod. civ.). Per il matrimonio - in qualsiasi forma contratto - di persone che si trovino in particolari vincoli di dipendenza verso lo stato (appartenenti a forze armate, agenti diplomatici) può esserci divieto o necessità di particolari autorizzazioni, portate da leggi speciali; l'effetto di queste disposizioni non è però mai l'invalidità del matrimonio, ma sanzioni disciplinari (di regola, la perdita dell'impiego) per chi vi abbia contravvenuto.
Quanto alle cause di nullità, quelle dei matrimonî del tipo a) sono di competenza dei tribunali ecclesiastici e i matrimonî rati e non consumati possono essere sciolti per dispensa pontificia. Il provvedimento o sentenza di annullamento o di dispensa è esaminato dal supremo tribunale pontificio della Segnatura, il quale controlla se siano state rispettate le norme del diritto canonico relative alla competenza del giudice, alle citazioni e alla legittima rappresentanza o contumacia delle parti; dopo di che, corredato dal decreto della Segnatura, viene da questa trasmesso alla Corte d'appello della circoscrizione cui appartiene il comune presso il quale fu trascritto l'atto di celebrazione del matrimonio, e detta Corte, con ordinanza pronunciata in camera di consiglio, lo rende esecutivo e ne ordina l'annotazione a margine dell'atto di matrimonio (art. 34 del conc. e art. 17 della legge 27 maggio 1929, n. 847): è controverso se la Corte, oltre ad accertare che il matrimonio annullato o dispensato fosse un matrimonio canonico, possa anche valutare se la sentenza o provvedimento sia contrario all'ordine pubblico italiano. Le cause di nullità dei matrimonî del tipo b) e c) sono di competenza esclusiva dei tribunali dello stato, e la nullità può essere pronunciata solo: α) per mancanza dell'età legale (ma non si può più chiedere l'annullamento se siano trascorsi sei mesi dopo compiuta l'età richiesta o quando la sposa sia rimasta incinta); β) per vincolo di precedente matrimonio; γ) per essere stato contratto tra ascendenti e discendenti, tra fratelli e sorelle, tra affini in 1° grado, o, senza dispensa, tra zii e nipoti, affini in 2° grado, adottante, adottato e suoi discendenti, figli adottivi della stessa persona, adottato e figli sopravvenuti dell'adottante o coniuge dell'adottante, adottante e coniuge dell'adottato; δ) per essere stato contratto, senza dispensa, tra chi fu in giudizio criminale convinto reo o complice di omicidio volontario commesso, mancato o tentato sulla persona di uno dei coniugi, e l'altro coniuge; ε) per incompetenza dell'ufficiale dello stato civile (ma la causa di nullità si sana col decorso di un anno) o senza la presenza dei testimonî; ζ) per mancanza di libertà del consenso, o per errore nella persona, che può essere fatto valere solo dal coniuge indotto in errore: queste cause di nullità non possono più essere fatte valere, se vi sia stata coabitazione continuata per un mese dopo che lo sposo riacquistò la libertà o riconobbe l'errore; η) per l'impotenza manifesta e perpetua, anteriore al matrimonio, di uno dei coniugi (solo l'altro coniuge può far valere la nullità); ϑ) per infermità di mente di uno degli sposi, che dia luogo all'interdizione; ι) per mancanza del consenso del genitore esercente la patria potestà (con restrizioni). Eccettuato l'annullamento, il matrimonio non viene meno che con la morte di uno dei coniugi.
La sentenza di annullamento del matrimonio cancella retroattivamente il matrimonio dal giorno della celebrazione: a rigor di diritto, pertanto, i coniugi non furono mai coniugi e i figli eventualmente procreati non sono figli legittimi. Ma tali rigide conseguenze dell'annullamento sono temperate dal cosiddetto matrimonio putativo, che è il matrimonio annullabile contratto in buona fede da almeno uno dei coniugi. Benché dichiarato giudizialmente nullo, esso conserva i suoi effetti civili, tanto a favore del coniuge, o dei coniugi, di buona fede, quanto a favore dei figli (art. 116 cod. civ.).
Gli effetti del matrimonio sono sempre gli stessi, fissati dalla legge dello stato, indipendentemente dalla forma di celebrazione. Esso impone ai coniugi l'obbligo della coabitazione, della fedeltà e dell'assistenza; il marito è il capo della famiglia, la moglie assume il suo cognome: si dà l'obbligo della convivenza.
Legislazioni estere. - Il sistema francese, di completa avocazione del matrimonio allo stato, fu adottato in Olanda, ove il cod. Napoleone venne esteso nel 1811, nel Belgio, in Svizzera (legge feder. 24 dicembre 1874), in Germania (legge dell'impero, 6 febbraio 1875), in Ungheria (legge XXXI del 1894), in Portogallo (legge 25 dicembre 1910), in Estonia (legge 27 ottobre 1922), in Turchia (cod. civ. votato il 25 febbraio 1926), in Spagna (legge 28 giugno 1932) e anche in Romania, per il codice civ. del 1864, sennonché è controverso se ivi la validità e gli effetti del matrimonio civile non siano subordinati alla celebrazione di quello religioso. Lo stesso sistema vige anche in varî stati d'America.
Invece in Austria per la legge 25 maggio 1868 il matrimonio civile è ammesso solo quando il clero non possa celebrare per ragioni di ordine canonico, o si tratti di matrimonio tra persone che non professino alcuna religione o tra persone di religione diversa: le cause matrimoniali sono di competenza dei tribunali statali. In Inghilterra si è conservato il matrimonio religioso con effetti civili, ma, a partire dal Marriage Act del 1836, si è introdotto un matrimonio civile supplettivo, dinanzi ai registrars, cui le parti possono liberamente ricorrere. Le questioni in materia matrimoniale furono sottratte alle corti ecclesiastiche con il Matrimonial causes Act del 1857 e deferite a una Court for divorces and matrimonial causes, successivamente fusa nella Supreme Court of judicature, una cui camera si occupa dei divorzî, tenendo sedute anche fuori di Londra. Negli Stati Uniti la common law è nel senso che un contratto per verba de praesenti o per verba de futuro cum copula dia vita al matrimonio; ma le leggi dei singoli stati possono stabilire requisiti particolari per la celebrazione. Non è riconosciuta alcuna giurisdizione ecclesiastica. Il matrimonio civile facoltativo esiste in Danimarca, Svezia e Norvegia (il matrimonio religioso è obbligatorio se gli sposi sono luterani: le cause sono di competenza dei tribunali civili), in Finlandia (si può ricorrere indifferentemente al matrimonio religioso e a quello civile; le cause sono di competenza dei tribunali civili: legge 13 giugno 1929), in Lettonia (le cause sono di competenza dei tribunali civili; legge 1° febbraio 1921-5 aprile 1928), nella repubblica cecoslovacca (leggi 22 maggio e 23 luglio 1919). Il matrimonio religioso obbligatorio vige in Bulgaria, in Grecia, in Lituania, nella Polonia ex-russa, nella Iugoslavia ex-serba.
Il rito cattolico della celebrazione del matrimonio consiste: nella dichiarazione di consenso che, a domanda del sacerdote, fanno i contraenti, e a cui il sacerdote replica: Ego coniungo vos in matrimonium in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen; nella benedizione degli anelli, che gli sposi poi s'impongono a vicenda (o almeno lo sposo alla sposa), seguita da breve preghiera (e, nei paesi a regime concordatario, dalla lettura fatta dal sacerdote degli articoli principali del codice civile riguardanti i doveri scambievoli dei coniugi); infine, normalmente, nella Messa pro sponso et sponsa, che contiene due particolari orazioni nuziali, una dopo il Pater noster e l'altra prima della benedizione al popolo. Altre particolari costumanze sono proprie a singoli paesi, e fu già intenzione del concilio di Trento che esse fossero mantenute (Decr. conc. Trid., Sess. XXIV, De reform., cap. I). In tempo di Avvento e di Quaresima ogni solennità nuziale è proibita nella liturgia.
Bibl.: Diritto italiano: F. Vassalli, Il matrimonio nel regime del Concordato fra l'Italia e la S. Sede (estr. dalla riv. Le opere e i giorni), Genova 1929; primo scritto sull'argomento e pertanto prima impostazione delle relative questioni; id., Lezioni di diritto matrimoniale, Padova 1932; A. Ravà, Il matrimonio secondo il nuovo ordinamento italiano, Padova 1929; id., Lezioni di diritto civile sul matrimonio, 2ª ed., Padova 1933; G. Grisostomi Marini, Il diritto matrimoniale nelle recenti disposizioni legislative, Roma 1929; D. Schiappoli, Il matrimonio secondo il diritto canonico e la legisl. concord. italiana, Napoli 1932; C. Badii, Sistema del diritto matrim. italiano, Roma 1932; M. Falco, Corso di diritto eccles., II, Padova 1934. Sul matrimonio civile: A. Cicu, Diritto di famiglia, Roma 1915; F. Degni, Del matrimonio, Torino 1926-29. Sul matrimonio nei culti acattolici: P. A. d'Avack, Il diritto matrim. dei culti acattolici nell'ordin. giur. ital., Roma 1933. - Per la legislazione estera v.: E. Lehr, Le mariage, le divorce, Parigi 1899; J. Kosterse e F. Bellemans, Les conventions de la Haye, Harlem-La Haye 1921; P. Haeck, Le mariage des étrangers en Belgique, Bruxelles-Parigi 1932.
Folklore.
Oroscopi, pronostici e altre pratiche divinatorie precedono o accompagnano le trattative di matrimonio. Per consuetudine generale la richiesta, non di rado a mezzo del messaggero, che prende varî nomi (cane bianco, gatto grigio, bracco, testa di lupo, ecc.), va fatta ai genitori della fanciulla a nome dei genitori del pretendente, e in molti casi è espressa con termini figurati e allegorici, immaginando l'uomo come un re, un principe, un cavaliere, un cacciatore, e la donna come un'agnella, una tortora, un capriolo, ecc. Si hanno esempî di proposte o richieste fatte mediante serenate o mediante il ceppo collocato sul limitare della casa della sposa. I matrimonî vanno combinati fra individui di uguale classe o condizione sociale dello stesso paese o quartiere ("moglie e buoi, dei paesi tuoi"; "porci e marito, del tu' sito"), purché non siano parenti. Se sono parenti, "si brucia la parentela", facendo tenere agli sposi una candela accesa finché la fiamma lambisca l'epidermide della mano. L'età giovane è condizione essenziale: secondo un proverbio siciliano, 18 anni per la donna, 28 per l'uomo; ma di solito il matrimonio si fa anche prima, specie quando l'uomo abbia dato prova della sua forza fisica portando lo stendardo nella processione, facendo il "battente" nella settimana santa, ecc., e la donna abbia dimostrato perizia nei lavori casalinghi e campestri. Talvolta i genitori promettono in matrimonio i figli ancor piccoli o anche nascituri, e il segno della promessa è un nastro rosso che i piccoli fidanzati portano alla cintola. Sono oggetto di riprovazione i matrimonî dei vecchi e dei vedovi (v. batterella).
Non ogni tempo è adatto alla celebrazione. Ab antico sono ritenuti nefasti i mesi di maggio e agosto; propizî quelli di aprile, settembre e ottobre, novembre e dicembre. I popoli germanici, slavi, lituani preferiscono l'autunno e il principio dell'inverno. Ma vi sono giorni sempre interdetti, come il martedì e il venerdì. Secondo un adagio siciliano, di lunedì sposano le vedove. Nell'Istria si evita di far celebrare le nozze il 1° aprile, il 1° agosto e il 1° dicembre; come nei paesi nordici (Scandinavia, Estonia, Turingia, ecc.) durante il periodo della luna nuova. In qualche località gli sposi, alla vigilia del matrimonio, si dànno alla fuga, salvo poi a far benedire la loro unione; e in qualche altro gli sposi in peccato sono sottoposti a una speciale penitenza (in Calabria detta "l'ammenda pubblica"), che rappresenta la finta lapidazione. Quando lo sposo appartiene a un altro villaggio o paese, ha luogo il "serraglio" o "barricata", "travata", per obbligare i nuovi coniugi a pagare il pedaggio.
I rapporti economici sono stabiliti dalle due famiglie e, talvolta, dalle parentele appositamente convocate. La "minuta" (libellum dotis), che porta varî nomi secondo i luoghi, elenca gli oggetti dotali o del corredo che la sposa porta nella casa del marito. Questi provvede ai mobili, agli ornamenti e alle vesti nuziali, obbligandosi per contratto a corrispondere alla moglie un tanto a titolo di "lacci e spille" ("spillatico"), o a farle un regalo che in Sicilia si indica con l'appellativo di "buon amore" (cfr. la Morgengabe del diritto barbarico). In parecchi paesi, i nuovi coniugi osservano la castità per un certo periodo (in Germania "le notti di Tobia"); in altri, la donna ritorna all'ottavo giorno nella casa paterna, rimanendovi per un tempo più o meno lungo.
La moglie è sottoposta al marito; ma la consuetudine le attribuisce nella casa delle facoltà che sono indicate sotto il titolo generico e complessivo di "potestà delle chiavi". Una vecchia tradizione dei paesi mediterranei vuole che la donna, fra gli oggetti dotali, recasse al marito anche una frusta, la cosiddetta "ragione".
Bibl.: A. De Gubernatis, Storia comparata degli usi nuziali, 2ª ed., Milano 1878; E. Westermack, The history of human marriage, 5ª ed., Londra 1926; R. Corso, Patti d'amore e pegni di promessa, S. Maria C. V. 1925; id., I doni nuziali, in Revue d'ethnographie et de sociologie, 1911, pag. 228-254; H. Bächtold, Die Gebräuche bei Verlobung und Hochzeit, Basilea-Strasburgo 1914; E. Casas, Las ceremonias nupciales, 2ª ed., Madrid 1931.
Matrimonio morganatico.
Il matrimonio morganatico (contestata l'origine del vocabolo) nasce dalla vecchia concezione germanica che il matrimonio possa sussistere come tale, privo di effetti giuridici, senza confondersi col concubinato. Gli effetti giuridici non sarebbero conseguenza indispensabile del matrimonio, ma nascerebbero piuttosto da elementi e formalità aggiunte: quelli di cui si è sopra tenuto parola (v. più sopra: Diritto germanico). Più tardi questa concezione fu superata e si ammise che ogni matrimonio sortisse effetti giuridici, anche quello contratto senza forme; ma che si potessero escludere tali effetti, esclusione che in un periodo anteriore si aveva automaticamente col contrarre matrimonî non accompagnati dalle formalità rituali. Nei Libri feudorum, redatti intorno alla metà del secolo XII, appare appunto la possibilità di matrimonî contratti da un nobilis con una femina minus nobilis (detti matrimonî ad morganaticam: talora si parla anche di disparagium), in cui la donna e i figli non prendono la posizione giuridica del rispettivo marito e padre; per la legge salica avere dei figli da tali nozze equivaleva a morire senza figli (lege salica decedere).
Il Codex iuris canonici non fa menzione dell'istituto (il can. 1112, ponendo la regola che la moglie circa canonicos effectus, particeps efficitur status mariti, pone però la riserva: nisi iure speciali aliud cautum sit), che nell'eta moderna non trovò più applicazione se non presso l'alta nobiltà, e oggi soltanto in seno alle famiglie regnanti.
Seconde nozze.
A Roma prima della lex Iulia le seconde nozze della donna non erano viste con favore: ma questa legge colpì con le pene del celibato le donne che non passavano a seconde nozze entro l'anno se il matrimonio era sciolto per morte del marito, entro sei mesi se era sciolto per divorzio: termini portati più tardi dalla lex Iulia et Papia Poppaea a due anni e diciotto mesi rispettivamente.
Le cose mutarono sotto l'influenza cristiana e - sembra anche - orientale. Presso i primi Padri le seconde nozze sono ritenute immorali e qualificate come speciosum adulterium, honesta fornicatio o fornicatio addirittura: né diversamente si dichiarano anche i primi concilî tenuti a Nicea, a Laodicea, a Neocesarea, a Cartagine. La δευτερογαμία merita di essere chiamata - si dice - turpissima imbecillità. Il regime delle seconde nozze s'inizia con Costantino: i momenti più importanti sono da sorprendere nella legislazione di Teodosio il grande e di Giustiniano. Il primo con la costituzione del 382 (Cod. Theod., III, 8, de sec. nupt., 2) sancì che la donna passata a seconde nozze dovesse perdere la proprietà della donazione ante nuptias e tutto quanto le proveniva dal coniuge defunto a favore dei figli di primo letto, restandole unicamente l'usufrutto. Con la costituzione del 439 Teodosio II sancì la perdita dei lucri nuziali anche per il caso che a seconde nozze passasse il marito.
Nella compilazione giustinianea, e specialmente in quella specie di codice cristiano che è la Nov. 22, il regime delle seconde nozze, riordinato e rifuso più volte e anche ampliato, può essere riassunto così: 1. il principio generale è che i lucri nuziali, dote e altri beni, passando il coniuge superstite a seconde nozze, sono devoluti in proprietà ai figli di primo letto. Nell'anno 539 Giustiniano tolse il carattere penale alla perdita della proprietà dei lucri nuziali, disponendo che essa avesse luogo anche se il coniuge superstite non fosse passato a seconde nozze. Ma nell'anno 548 egli tornò ad attribuire in proprietà al coniuge superstite, per il caso di non passaggio a nuove nozze, una porzione virile insieme coi figli, sicché le seconde nozze tornano a esser cagione di perdita della proprietà, benché soltanto nella misura della quota virile; 2. conformemente alla costituzione dell'imperatore Leone, inserita nel Codice, il coniuge binubo non può lasciare al nuovo coniuge una porzione superiore a quella ricevuta dal meno favorito tra i figli di primo letto; 3. è sancita la perdita della dispensa dalla cautio legatorum servandorum causa per i legati da pagare ai figli, ai fratelli, alle sorelle, ai discendenti di fratelli e sorelle; 4. vi sono anche restrizioni positive per il coniuge binubo circa le ordinazioni sacerdotali e le alte dignità sacre; 5. è riconosciuta valida la condizione di vedovanza apposta a un lascito per atto di ultima volontà: condizione che era dichiarata invalida dalla legislazione augustea, di guisa che il favorito poteva ugualmente conseguire il lascito se giurava che contraeva le nozze liberorum quaerendorum causa.
Alcune conseguenze delle seconde nozze concernono in special modo le donne. La madre binuba infatti: 1. consegue soltanto l'usufrutto dei beni del figlio che derivano dal patrimonio paterno, succedendo ab intestato al figlio in concorso coi fratelli di questo, e, se essa ha ereditato prima delle nuove nozze, perde la proprietà serbando solamente l'usufrutto; 2. perde il diritto di revocare le donazioni per ingratitudine dei figliuoli salvo offese gravissime; 3. è incapace di gerire la tutela; 4. perde il diritto di educare i proprî figliuoli.
Presso gli antichi Germani, come dice Tacito, il consortium stabilito dal matrimonio si estendeva anche oltre la tomba e in molte tribù non si conoscevano seconde nozze. Colui che voleva sposare una vedova doveva, secondo il diritto salico, pagare ai parenti della sposa somme reali o simboliche per riparare l'offesa che la vedova recava alla famiglia sua e a quella del marito morto (reipus) e inoltre riscattare il mundio dagli eredi del morto (achasius). In Italia sotto l'influenza romana i Longobardi mitigarono questi principî: bastava che il nuovo sposo pagasse ai parenti del marito morto la metà di ciò che questi aveva dato alla moglie in occasione delle nozze. Poi protessero la moglie contro il mundualdo che si opponesse alle sue nozze o le impedisse il ritorno alla casa paterna, e la posero in questo caso sotto il mundio del re. Dopo il sec. IX la rigidità della Chiesa nei riguardi delle seconde nozze si temperò e i decretisti insegnavano: hodie novo iure canonico nubat cui vult, tamen in Domino. Però nella pratica italiana del Medioevo la vedova che conservava il lutto, che giurava il votum viduitatis solemne alla presenza di testi e di sacerdoti, i quali dopo le benedizioni di rito le consegnavano le vesti vedovili, godeva di speciale considerazione. I testamenti favorivano la moglie quae lectum custodiverit del testatore e trovarono larga applicazione i lasciti sub condicione viduitatis. Statuti e leggi posteriori si occupano delle seconde nozze per proibire le serenate, ciambellerie, cencerrade, che sempre, specialmente a Napoli, si facevano quando un vedovo o una vedova si risposavano.
La disposizione dell'imperatore Leone (anno 469), riferita nel codice giustinianeo (V, 9, de sec. nupt., 6), secondo la quale il coniuge binubo non poteva lasciare per atto di ultima volontà al nuovo coniuge una porzione superiore a quella ricevuta dal meno favorito dei figli di primo letto, è passata nell'art. 770 del codice italiano.
Bibl.: P. Bonfante, Corso di diritto romano, I, Diritto di famiglia, Roma 1925, p. 394 segg.; A. Del Vecchio, Le seconde nozze del coniuge superstite, Firenze 1885; Weinhold, Reipus und Achasius, in Zeitschr. für deutsches Recht, VII (1849), p. 539; Wolf, Zur Geschichte der Witwenehe im altdeutschen Recht, in Mitt. Inst. für österr. Geschichte, XVII, p. 399; G. Salvioli, Storia del diritto italiano, 9ª ed., Torino 1930, p. 406 segg.
Oltre i riferimenti che sotto famiglia si trovano fatti al matrimonio, vedi a complemento di questa voce: adulterio; separazione personale; divorzio. Per ciò che concerne il fidanzamento v. sponsali. Per ciò poi che riguarda il regime patrimoniale fra coniugi v.: comunione: comunione dei beni fra coniugi; dote; parafernali, beni, e per il regime patrimoniale tra fidanzati v.: arra: Arrhae sponsaliciae.
Statistica della nuzialità.
Nel suo significato più generale nuzialità è quella parte della demografia che si riferisce ai matrimonî. In un senso più ristretto s'intende per nuzialità la frequenza dei matrimonî in una data popolazione e in un dato intervallo di tempo. Molteplici sono le circostanze dalle quali dipende il numero assoluto dei matrimonî contratti in una popolazione nelle successive unità di tempo, come l'ammontare, il rapporto dei sessi e la composizione per età della popolazione stessa, le sue condizioni sanitarie ed economiche, la stagione, il ricorrere dei divieti religiosi, il giorno della settimana, ecc. La serie dei numeri assoluti di matrimonî celebrati nei diversi anni è, perciò, poco significativa; conviene eliminare l'influenza che talune almeno delle accennate circostanze hanno sulle variazioni di quei numeri, per ottenere altri numeri più espressivi.
Per un sommario apprezzamento del fenomeno ci si limita, di solito, a eliminare l'influenza dell'ammontare della popolazione, sostituendo a quei numeri assoluti di matrimonî i rispettivi rapporti all'ammontare medio della popolazione, moltiplicati per 1000 ottenendo così il quoziente generico di nuzialità o semplicemente nuzialità della popolazione nell'anno considerato. Come ammontare della popolazione si assume ordinariamente la media aritmetica dei numeri degli abitanti al 1° gennaio dell'anno considerato e del successivo, oppure l'ammontare della popolazione al 30 giugno, o anche una media aritmetica opportunamente ponderata dei numeri degli abitanti al principio e alla fine di ciascun trimestre di quell'anno. Ecco per l'Italia (nuovi confini dal 1924 in poi) i numeri assoluti dei matrimonî e i quozienti generici di nuzialità nei singoli anni o nella media annua dei periodi indicati:
A differenza di altri quozienti demografici, la nuzialità presenta una notevole stabilità, ciò che è pure confermato dai dati precedenti, fra i quali, se si eccettuano, per evidenti ragioni, il quoziente di nuzialità bassissimo corrispondente al tempo della guerra, quello assai elevato dell'immediato dopoguerra e quello pure alto del quadrennio 1922-25, si avverte una relativa stazionarietà. Si può aggiungere, per l'Italia, che mentre i quozienti di natalità e di mortalità, che furono nel 1872-75 rispettivamente 36,8 e 30,5, si ridussero via via fino a 24,9 e 14,7 nel 1931, la nuzialità si è in quello stesso intervallo ridotta soltanto da 7,9 a 6,7.
Ecco i quozienti di nuzialità per 1000 abitanti nei 1928 e 1931 negli stati seguenti:
Naturalmente le oscillazioni della nuzialità si accentuano col restringersi delle circoscrizioni in cui essa viene considerata, perché cresce l'influenza delle cause accidentali che possono farla variare; e come vi sono taluni comuni italiani nei quali la nuzialità è salita oltre il 18‰ nell'anteguerra (1910-14) e nel dopoguerra (1922-24), così, d' altra parte, L. Livi ha segnalato alcune comunità israelitiche italiane (Mantova, Padova, Ferrara, Reggio Emilia), nel cui complesso è discesa a 4,5, a 3,8 e fino a 2,9 (1926-30).
Oltre che il quoziente generico di nuzialità si possono, per una data popolazione, considerare diversi quozienti specifici di nuzialità, che esprimono la frequenza dei matrimonî in particolari classi della popolazione, e che si ottengono ragguagliando all'ampiezza media di queste classi i numeri di matrimonî che ne sono derivati nel corso dell'anno preso in esame. Si possono così avere quozienti specifici di nuzialità per ciascuno dei due sessi, per la popolazione accentrata e per la popolazione sparsa e anche in riferimento a quella sola parte della popolazione (da 15 anni in poi) dalla quale i matrimonî generalmente provengono, oppure in relazione ai soli coniugabili maschi o alle sole coniugabili femmine. Quozienti di questo tipo dimostrano, p. es., che la più alta nuzialità si osserva ovunque nella popolazione poco accentrata, che i vedovi contraggono matrimonio con maggiore frequenza delle vedove, i divorziati con maggiore frequenza dei vedovi, ecc.
Come si è già accennato, la nuzialità subisce variazioni che dipendono dall'avvicendarsi delle stagioni e dal ricorrere di periodi di astensione dal matrimonio per divieto religioso o per consuetudine. Così per il quinquennio 1924-928, indicata con 100 la media giornaliera dei matrimonî in Italia, si troverebbero come numeri indici delle medie giornaliere relative ai diversi mesi, i seguenti:
Altre variazioni della nuzialità si connettono al mutare delle condizioni economiche e sociali. Ciò risulta chiaro, dalla tabella che riporta i quozienti di nuzialità in alcuni stati (v. sopra), nella differenza fra il 1928 e il 1931 dovuto alla crisi economica.
Tavole di nuzialità. - I quozienti di nuzialità, generali e specifici, fin qui considerati, non vanno confusi con le cosiddette probabilità di matrimonio. In una certa collettività di donne coniugabili si dice probabilità di matrimonio all'età precisa x (generalmente espressa da un numero intero di anni) il rapporto tra il numero dei matrimonî contratti in età fra x e x + 1 anni dalle sole donne che in un determinato intervallo di tempo oltrepassano l'età precisa x, e il numero di tali donne. Quando sia possibile fare alcune ipotesi semplificative, e cioè supporre tanto i matrimonî quanto i decessi a cui dànno luogo quelle tali donne che oltrepassano l'età x, uniformemente distribuiti in tutto il tempo nel quale dura l'osservazione, l'accennata probabilità è data da un quoziente in cui il dividendo è il numero medio annuo di matrimonî, e il divisore è il numero medio delle donne coniugabili presenti, aumentato: a) di metà di quel numero medio annuo di matrimonî; b) di metà del numero medio annuo dei decessi. Si può intendere il valore pratico di questa modificazione nel calcolo, quando si rifletta che è più facile avere la distribuzione per età delle donne coniugabili presenti a una cena data (p. es., in occasione di un censimento) anziché la distribuzione delle donne coniugabili che in un intervallo di tempo oltrepassano rispettivamente le età x, x + 1, x + 2, ecc. L'accennata addizione al numero medio delle coniugabili presenti, dei contingenti indicati in a) e b) tende, appunto, a costituire approssimativamente il numero delle coniugate oltrepassanti l'età precisa x nello spazio di un anno. Quando, poi, la data del censimento sia press'a poco a metà del periodo di osservazione dei matrimoni, il numero delle donne coniugabili censite in età da x a x + 1 anni si può normalmente assumere come numero medio delle donne in questa classe d'età nel periodo considerato (intendendo sempre di escludere quelle donne che divengono coniugabili durante questo periodo). Altrettanto si può dire per quanto riguarda gli uomini; e tavole di nuzialità possono dirsi quelle contenenti le probabilità matrimoniali corrispondenti alle diverse età. Ecco una tavola di nuzialità tratta da più ampie tavole calcolate da G. Mortara in base al numero dei celibi (e delle nubili) censiti il 1° gennaio 1901 e alla media annua dei matrimonî (in prime nozze) nel quadriennio 1899-1902.
Combinazioni matrimomali per età. - Piuttosto che riferire i numeri dei matrimonî a quelle particolari collettività in cui essi hanno luogo, ottenendone quozienti generici e specifici che la statistica metodologica classifica fra i rapporti di derivazione, può convenire, in talune ricerche, calcolare quei rapporti (di composizione) che denotano il modo di distribuirsi di un certo insieme di matrimonî a seconda di particolari circostanze. La tavola a doppia entrata qui sotto esposta fornisce, p. es., la distribuzione, secondo l'età degli sposi, dei matrimonî celebrati in Italia durante l'anno 1928 (cifre proporzionali a 1000 matrimonî di età nota).
Come si vede, la più alta frequenza (169,9) spetta a quei matrimonî nei quali la sposa è in età da 20 a 25 anni e lo sposo da 25 a 30; da questo culmine le frequenze decrescono via via, fino a rendersi minime per le combinazioni fra età molto disparate. Si osserva altresì che lo sposo ha generalmente un'età superiore a quella della sposa.
Attrazione matrimoniale. - Un'altra interessante questione inerente alla nuzialità è quella di vedere se nella scelta matrimoniale si manifesti attrazione (omogamia), oppure indifferenza, oppure repulsione (eterogamia) fra sposi appartenenti allo stesso gruppo sociale, allo stesso gruppo d'età, ecc. Per la misura dell'intensità dell'omogamia sono stati proposti diversi indici variabili fra i valori estremi + 1 e − 1 (indice di attrazione d. R. Benini; indice di associazione e indice di collegazione di U. Yule; indice di reversione assoluta e indice di rassomiglianza di C. Gini) che F. Savorgnan ha criticamente analizzato, pervenendo, fra altro, alla conclusione che gl'indici del Benini e quelli dello Yule sono generalmente preferibili per misurare l'intensità dei fattori psicologici dell'omogamia, mentre gl'indici di reversione assoluta e quelli di rassomiglianza del Gini appaiono più indicati nella misura dell'omogamia considerata come stato di fatto, cioè quale risulta per effetto di tutti i fattori che concorrono a determinarla. Ecco alcuni esempî riguardanti la nuzialità in Italia:
Il fatto che tutti questi indici risultano positivi significa che esiste effettivamente attrazione matrimoniale tra appartenenti allo stesso gruppo: è elevata specie tra sposi dello stesso grado d'istruzione e tra agricoltori.
Bibl.: R. Benini, Principi di demografia, Firenze 1901; G. Mortara, La popolazione delle grandi città italiane al principio del secolo ventesimo, in Bibl. dell'econ., s. 5ª, XIX (1908); C. Gini, Indici di omofilia e di rassomiglianza e loro relazioni col coefficiente di correlazione e con gli indici di attrazione, in Atti del R. Istit. ven. di sc., lett. ed arti, 1915; G. Zingali, Demografia, in Trattato italiano d'igiene, diretto da O. Casagrandi, Torino 1930; C. Gini, Sulle relazioni fra le oscillaziono mensili del numero dei matrimoni e quelle del numero delle nascite, e sulle variazioni mensili della fecondità matrimoniale, in Atti del Congr. Intern. per gli studi sulla popolazione, Roma 1932; F. Savorgnan, La misura dell'omogamia e dell'endogamia, ibid., Roma 1932; L. Livi, Spunti di demografia ebraica, ibid., Roma 1932; A. Niceforo, Il metodo statistico, nuova ed. ampliata, Messina s.a. (1932); Istituo Centrale di statistica del Regno d'Italia, Movimento della popolazione secondo gli atti dello stato civile nell'anno 1928, Roma 1932. Per una comparazione fra la nuzialità generica d'anteguerra (media del quinquennio 1910-1914), e la nuzialità postbellica (media del triennio 1922-24) dei singoli comuni italiani v. gli appositi cartogrammi dell'Atlante statistico italiano, edito dall'Istituto centrale di statistica, parte 2ª, Roma 1932.