Matrimonio
Il matrimonio (dal latino matrimonium, derivato di mater, "madre") è l'unione fisica, morale e legale dell'uomo (marito) e della donna (moglie) che decidono di vivere insieme, al fine di fondare la famiglia e perpetuare la specie, ovvero la relazione socialmente sancita fra due individui di sesso diverso con lo scopo della procreazione e della socializzazione dei figli.
l. Definizioni
Nonostante attualmente, nel mondo occidentale, si stia diffondendo la tendenza al riconoscimento delle coppie di fatto, nella maggior parte delle società del pianeta il matrimonio è tuttora l'istituzione base della famiglia, di qualunque tipo essa sia, e pertanto della società; la famiglia è intesa come creazione sociale e non solamente come necessità biologica legata alla riproduzione (nel qual caso il matrimonio non risulterebbe necessario). Sebbene spesso la cosiddetta famiglia nucleare - padre, madre e figli - venga considerata come basilare e universale, in realtà l'unico vero gruppo sociale non ulteriormente riducibile è quello rappresentato dalla madre e dai suoi figli. Tale gruppo, con l'intervento di un maschio nell'atto della fecondazione, può risultare sufficiente alla riproduzione della specie, come è evidente nel caso dei matrimoni poliginici, nei quali un uomo possiede più mogli, talvolta residenti in abitazioni diverse, che visita periodicamente: ciascuna delle mogli abita con i propri figli e forma quindi quel gruppo basilare che risulta indispensabile alla sopravvivenza dei piccoli. La famiglia nucleare è pertanto un'istituzione, derivata dal gruppo basilare madre/figli, che il matrimonio rende stabile e duratura nel tempo. L'uomo, come peraltro tutti i Primati, ha sviluppato la società come strumento nella lotta per la sopravvivenza. Fin dall'inizio, quando i nostri antenati vivevano raggruppati in bande, gli elementi fondamentali della società, oltre alla riproduzione, erano il mutuo aiuto e la dipendenza reciproca: gli adulti si prendevano cura dei piccoli e li difendevano dai pericoli. In tutti i gruppi animali, uomini compresi, una caratteristica comune è data dalla presenza di un certo ordine di accoppiamento. L'accesso da parte dei maschi alle prestazioni sessuali delle femmine è quindi regolamentato; se si registrano casi di promiscuità sono generalmente il frutto di qualche disordine sociale. Quanto più il gruppo è socialmente organizzato, tanto più si delineano regole che danno vita a coppie formate da un maschio e da una femmina oppure da un maschio e più femmine. Tali unioni, nel caso del genere umano, vengono solitamente sancite dall'istituzione del matrimonio.
Una delle definizioni antropologiche più note caratterizza il matrimonio come l'unione tra un uomo e una donna tale che i figli di questa sono considerati prole legittima di entrambi i coniugi. Tra le funzioni principali del matrimonio vi è infatti quella di trasmettere alla prole uno status sociale. Presso tutte le società il matrimonio definisce le condizioni in cui un uomo e una donna possono intrattenere relazioni sessuali, regola il processo di allevamento dei figli e stabilisce privilegi e doveri legati a queste condizioni.
L'antropologo inglese E.R. Leach (1968) ha stilato una lista di funzioni storicamente attribuite al matrimonio: determinare il padre legale dei figli di una donna e la madre legale dei figli di un uomo; dare al marito o alla sua famiglia estesa il controllo sulle prestazioni sessuali, sulle capacità lavorative e sui beni della moglie; dare alla moglie o alla sua famiglia estesa il controllo sulle prestazioni sessuali, sulle capacità lavorative e sui beni del marito; determinare uno stanziamento congiunto di beni per i figli; determinare un legame socialmente significativo tra i gruppi domestici del marito e della moglie. L'ultimo punto pone tra le conseguenze del matrimonio il fatto che esso contribuisce ad allargare la sfera dei legami parentali, dando vita a vincoli di affinità che si aggiungono a quelli di consanguineità. Pertanto si può dire che il matrimonio crea una più estesa parentela sociale, distinta da quella biologica.
L'unità di base madre/figli potrebbe anche risultare autosufficiente ai fini della riproduzione. In teoria, i figli potrebbero infatti accoppiarsi con la madre e generare prole. Però uno dei principi universali che accomunano quasi tutte le culture è quello della proibizione, o meglio dell'evitazione, dell'incesto. Prima di accennare alle diverse teorie formulate su questo tema, va chiarita la differenza tra proibizione dell'incesto ed esogamia: la prima riguarda la sfera dei rapporti sessuali; la seconda determina le scelte matrimoniali. Un uomo può intrattenere rapporti sessuali con una figlia, senza impedire che questa successivamente sposi un altro uomo. Ciò contribuisce a invalidare la teoria secondo la quale l'incesto risulterebbe dannoso, in quanto impedirebbe lo sviluppo di una rete allargata di relazioni sociali. Anche l'affermazione della pericolosità dell'incesto, basata sul fatto che se una donna avesse un figlio da suo padre, diventerebbe a un tempo madre e sorella del bambino, non è sostenibile: oltre a confondere proibizione dell'incesto con esogamia, si confondono i ruoli sociali con i fatti biologici.
Una delle più diffuse teorie che tentano di spiegare il tabu dell'incesto si basa sull'affermazione che l'incrocio tra consanguinei porterebbe a risultati genetici disastrosi. Su questo tema gli esperti sono discordi, ma in ogni caso non si spiega perché, se l'incesto è dannoso, esso costituisca un tabu. È difficile pensare che, se a un tratto si dimostrasse l'insussistenza di esiti negativi nelle relazioni incestuose, tutti si affretterebbero a praticarle. Una spiegazione può venire dall'esame della società primitiva. Nell'orda primordiale erano i maschi più anziani a dominare e a mantenere il controllo sulle donne. I giovani erano pertanto spinti fuori dal gruppo e si vedevano costretti a cercare altrove compagne con cui accoppiarsi. Questa loro 'uscita' era inevitabile, se si prendono in considerazione le condizioni di vita dell'epoca. La vita media si aggirava attorno ai 35 anni e la pubertà non si raggiungeva prima dei 15 anni. Le donne partorivano generalmente un figlio alla volta e spesso con lunghi intervalli tra un parto e l'altro. Quindi, quando i maschi raggiungevano la pubertà, le loro madri avevano già superato l'età fertile oppure erano già morte. Lo stesso valeva per i rapporti tra fratelli e sorelle. Poiché vigeva una netta divisione sessuale del lavoro, gli uomini cercavano delle compagne non solo per l'attività sessuale, ma anche per avere un aiuto nelle attività di sopravvivenza. Pertanto quando un ragazzo raggiungeva la pubertà era probabile che la sua sorella maggiore fosse già stata 'presa', mentre quando la sorella minore avesse raggiunto anch'essa la maturità, il fratello era probabilmente già accoppiato. I maschi tendevano quindi a uscire dal gruppo e l'incesto era reso quasi impossibile dalle condizioni pratiche. È dunque lecito pensare che solo con il passaggio a uno stadio di sviluppo avanzato, caratterizzato da gruppi famigliari stabili, sia nata l'esigenza di porre l'incesto come tabu, per mantenere i vantaggi selettivi dimostrati, ma anche per le implicazioni sociali positive che tale imposizione portava con sé.
Se nella società occidentale la scelta del coniuge è piuttosto libera e legata a fattori personali, presso molte società di interesse etnografico sono in vigore norme che regolano le possibilità di matrimonio, vincolandolo a determinati contesti. In alcuni casi vige l'obbligo o la preferenza a sposare membri esterni al proprio gruppo di appartenenza, sia esso sociale (lignaggio, clan, casta ecc.) o territoriale (gruppo di residenza, villaggio ecc.): questa pratica viene definita esogamia. Al contrario, il termine endogamia indica una norma che prescrive di contrarre matrimonio con persone appartenenti al proprio gruppo. Uno degli esempi più evidenti di endogamia è rappresentato dalle caste indiane. La società dell'India è suddivisa in caste gerarchicamente ordinate (jati), determinate dalla nascita. Pertanto nessun individuo potrà accedere a una casta diversa dalla propria e neppure sposare una donna o un uomo appartenente a un'altra casta. Il concetto di endogamia viene esteso alle sottocaste (upajati), gruppi nei quali ogni casta è suddivisa, spesso caratterizzati da una professione comune o da un particolare credo politico. In questo caso il principio dell'endogamia contribuisce a determinare, rafforzare e mantenere in vita la separazione tra le diverse caste e a istituzionalizzare i concetti di impurità e purezza. In caso di matrimonio misto, infatti, accade che i trasgressori siano processati da un tribunale di casta e talvolta espulsi dalla casta stessa. Nel caso che un uomo di casta alta sposi una donna di casta più bassa, lo status dei figli sarà pari alla casta del padre. Nel caso contrario, invece, i figli acquisiranno lo status più basso previsto dalla gerarchia delle caste, indipendentemente da quelle dei genitori. All'interno delle caste endogamiche convive però un principio di esogamia. Se infatti è obbligo sposare un pari casta, questi non deve appartenere allo stesso gotha, cioè i suoi quattro nonni non devono portare gli stessi cognomi dei nonni del coniuge. Presso la maggior parte delle società a discendenza unilineare vige solitamente la norma dell'esogamia. Di regola tra le società patrilineari (sebbene esistano alcune eccezioni come i beduini dell'Africa settentrionale) l'esogamia riguarda i parenti da parte di padre e quindi il divieto di contrarre matrimonio fra loro. Al contrario, nelle società matrilineari il divieto sarà valido nei confronti dei parenti materni. In molti casi la consuetudine di cercare una sposa al di fuori del proprio gruppo contribuisce a stemperare o ad annullare del tutto la competizione che nascerebbe tra i giovani se dovessero contendersi le ragazze del gruppo.
Allo stesso modo l'usanza di sposare i 'propri nemici' diventa un sistema per creare nuove alleanze: accade spesso che tra gruppi tradizionalmente o potenzialmente in conflitto avvenga uno 'scambio di spose'. In tal modo ciascun membro del gruppo si trova ad avere delle sorelle residenti nel gruppo opposto e questo contribuisce inevitabilmente a limitare, se non a eliminare, la possibilità di scontro. Sotto il profilo demografico l'esogamia presenta alcuni vantaggi culturali e sociali. In primo luogo i gruppi di dimensione ridotta, se praticassero l'endogamia, correrebbero il rischio di trovarsi, in seguito a una fortuita serie di nascite maschili, in una situazione di forte disparità tra i sessi che li condannerebbe all'estinzione. L'esogamia, pertanto, garantisce un maggiore successo riproduttivo. Inoltre, essa dà origine a nuove alleanze tra gruppi diversi (familiari, clanici o etnici), che a loro volta creano condizioni destinate a formare la base di società sempre più complesse e strutturate.
Sebbene essa sia estranea, almeno ufficialmente, al mondo occidentale, è stato calcolato che in circa il 90% delle culture del nostro pianeta è presente, in qualche misura, la poligamia (Harris 1993), cioè il matrimonio di un coniuge con più partner. La poligamia, che in ogni caso ha un carattere preferenziale e non costrittivo, si divide in due forme: la poliginia (un marito con diverse mogli) e la poliandria (una moglie con diversi mariti). La prima forma è la più diffusa, anche se occorre precisare che, pur essendo autorizzata presso molte culture - per es. quelle di religione islamica, che consente di avere fino a quattro mogli -, non sempre è comune a tutti gli individui, essendo spesso appannaggio dei più abbienti. I motivi della maggiore diffusione della poliginia rispetto alla poliandria sono piuttosto evidenti. In primo luogo, in tutte le società sono i maschi ad avere maggiori diritti e a occupare una posizione preminente; in secondo luogo, soprattutto nelle società di interesse etnografico, si riscontra generalmente un numero di donne superiore a quello degli uomini, in quanto questi sono spesso impegnati nella caccia, nella guerra o in altre attività pericolose. La poliginia servirebbe, pertanto, ad assicurare a ogni donna la possibilità di sposarsi e quindi di soddisfare i propri bisogni. Secondo alcuni antropologi (Goody-Tambiah 1973), la poliginia è connessa alla riproduzione piuttosto che all'economia. Infatti tale istituzione sembra essere prevalente in contesti economici nei quali le risorse principali sono umane rispetto a contesti dove predominano le risorse di tipo ambientale. In molte società africane, presso le quali non esiste un diritto fondiario che prevede il possesso della terra, ma solamente un diritto allo sfruttamento di essa, la poliginia è fonte di ricchezza. Infatti più mogli si hanno, più figli si mettono al mondo e più terra si può coltivare, e con i guadagni realizzati si possono acquisire altre mogli. In società a discendenza patrilineare, la poliginia consente al padre di trasmettere il proprio status a un numero maggiore di figli. Al contrario, nelle società matrilineari non c'è un grande interesse ad avere molti figli e infatti la poliginia è assai ridotta se non assente. I rapporti tra diverse mogli di uno stesso marito sono spesso conflittuali e fonte di tensione, come dimostra il termine usato tra le popolazioni del Ruanda per indicare una delle mogli, che significa 'gelosia'. A regolare tale potenziale distruttivo, vige solitamente tra le co-mogli una sorta di gerarchia basata sull'età: la più anziana ha uno status superiore e così via a calare. Presso i tangba del Benin settentrionale ogni moglie cucina a turni di due giorni per il marito e per le altre co-mogli e in quelle notti il marito dorme con lei. La pratica della poliandria è assai rara e si registrano oggi pochissimi casi in cui vige tale norma; uno è quello dei toda dell'India meridionale. Nel Tibet invece vige un matrimonio poliandrico adelfico, in cui una donna sposa un uomo e tutti i suoi fratelli; spesso tra questi c'è una forte differenza di età e il più anziano domina gli altri come se fosse il padre, regolando così l'accesso sessuale e i ruoli all'interno della famiglia. Un altro caso caratteristico rappresentava la società dei nayar del Malabar (India sudoccidentale). Sino alla fine dell'Ottocento, gli uomini appartenevano a una casta di guerrieri impiegati a tempo pieno dai signori locali, pertanto trascorrevano gran parte del loro tempo in accampamenti militari o in battaglia; le donne invece andavano spesso a servire nelle abitazioni dei brahmani dai quali, in molti casi, venivano prese come concubine. Queste fanciulle potevano avere figli dai loro padroni, anche se prima della pubertà venivano sposate ritualmente a un uomo di un lignaggio con il quale il loro intratteneva rapporti preferenziali. Infatti ogni donna, pur avendo un coniuge rituale riconosciuto, era libera di prendere fino a dodici amanti o mariti temporanei. Un numero così elevato aveva la funzione di garantire una riserva sicura per la riproduzione, in quanto molti di essi si trovavano a essere lontani dal villaggio per adempiere ai servizi militari. Ogni marito aveva il diritto di visitare la propria moglie, ma se trovava la lancia o lo scudo di un altro davanti alla porta di casa della donna, doveva desistere e ritornare la notte successiva.
Nel quadro del matrimonio esogamico, inteso come veicolo di alleanze tra gruppi distinti, molte società mettono in atto diversi tipi di strategie per determinare e regolare tali alleanze. Uno dei sistemi più semplici è la cosiddetta reciprocità. Immaginiamo due gruppi residenziali A e B, appartenenti alla stessa tribù: se una ragazza di A va sposa a un giovane appartenente a B, una ragazza di B verrà data in sposa a un giovane di A. Talvolta questa reciprocità viene realizzata in modo assai meccanico, offrendo in sposa la sorella dello sposo stesso. In altri casi lo scambio avviene in forma più indiretta: per es., il gruppo B può offrire in sposa al gruppo A una delle figlie nate dal matrimonio tra un giovane B e una donna A. I due gruppi spesso coincidono con due clan diversi, siano essi a discendenza patrilineare o matrilineare. Questo sistema risulta assai funzionale in una società la cui economia è caratterizzata dalla caccia-raccolta, come, per es., quella degli aborigeni australiani. L'esempio più noto di tale forma di matrimonio è quello denominato kariera, dal nome della tribù australiana che lo rappresenta. Nella terminologia parentale i cugini di un individuo si dividono in due tipi: i cosiddetti cugini paralleli e i cugini incrociati. I primi sono rappresentati dai figli e dalle figlie dei fratelli dello stesso sesso, cioè, prendendo come riferimento un individuo chiamato ego, si considerano cugini paralleli i figli e le figlie del fratello di suo padre e i figli e le figlie della sorella di sua madre; al contrario i figli e le figlie dei fratelli di sesso opposto vengono chiamati cugini incrociati e pertanto saranno così definiti i figli e le figlie del fratello della madre e i figli e le figlie della sorella del padre. Tale sistema prevede il matrimonio con i cugini incrociati: esso può apparire di difficile comprensione, ma si tratta di una difficoltà più teorica che pratica. Infatti, i kariera non hanno alcun bisogno di distinguere i cugini incrociati da quelli paralleli (Fox 1967) e ciò che devono fare è soltanto scambiarsi le sorelle, in quanto tale tipo di modello matrimoniale non è altro che il risultato dello scambio delle sorelle nelle diverse generazioni successive. Questo sistema garantisce sempre la realizzazione dell'esogamia. Infatti, sia in una situazione patrilineare sia in una matrilineare i cugini incrociati stanno al di fuori del lignaggio o del clan, mentre i cugini paralleli ne fanno sempre parte.
In seguito al matrimonio, i coniugi danno vita a una nuova famiglia e quindi iniziano a condividere la loro esistenza. Nella società occidentale gli sposi abbandonano le rispettive case paterne per abitare in una casa loro, ma tale modello residenziale 'neolocale', non è comune a tutte le culture e la diversità dei modelli incide sulla formazione dei gruppi domestici, in quanto contribuisce ad aggiungere o a sottrarre individui al gruppo residenziale. Presso comunità molto piccole può essere applicato un modello 'natolocale', in cui gli sposi continuano a mantenere la residenza ognuno presso i propri genitori. In tal modo l'unità di residenza coincide con quella dei consanguinei. In altri casi viene adottato un sistema 'bilocale', per cui i coniugi vivono alternativamente per un periodo presso il gruppo dello sposo e per un altro presso quello della sposa, oppure scelgono di vivere stabilmente con l'uno o l'altro gruppo (residenza 'ambilocale'). Questi due ultimi modelli sono caratteristici delle società di cacciatori-raccoglitori, come, per es., i khoi-san del deserto del Kalahari (Africa australe), noti anche come boscimani, caratterizzati da una forma di organizzazione sociale a discendenza bilineare. Una necessità fondamentale per chi vive di caccia-raccolta è infatti la flessibilità, in quanto le risorse sulle quali si basa la sussistenza sono estremamente mobili e spesso di localizzazione variabile. È stato calcolato che presso i khoi-san, durante l'anno, circa il 13% degli individui cambia permanentemente residenza da un accampamento all'altro, mentre il 35% sposta la propria residenza tra due o tre campi per periodi di tempo più o meno uguali. Il 71% delle società umane adotta dopo il matrimonio il modello residenziale incentrato sulla figura del marito (Murdock 1967). Sebbene non vi sia sempre una corrispondenza meccanica tra forma di discendenza e modello residenziale, tale prevalenza dipende dal fatto che le società patrilineari sono circa quattro volte più numerose di quelle matrilineari. Nella maggior parte dei casi la sposa abbandona la propria famiglia e si trasferisce presso il gruppo dei parenti del marito (residenza 'virilocale'). In particolari contesti (solitamente caratterizzati da un modello di discendenza patrilineare), dove è importante mantenere stretti i legami tra i maschi, la sposa non solo raggiungerà il gruppo o il villaggio del marito, ma andrà a risiedere nella casa del padre di quest'ultimo (residenza 'patrilocale').
La causa principale dell'adozione di questi modelli è da ricercarsi soprattutto nella necessità di favorire al massimo la cooperazione tra i maschi più che quella tra le donne. Ciò si verifica in società di villaggio impegnate spesso in guerre locali e scontri, dove il gruppo dei maschi assicura un potenziale difensivo più elevato e una maggiore mobilità per quanto riguarda la caccia e il commercio. In molte società a discendenza matrilineare si ritrovano spesso modelli opposti ai precedenti. In questi casi è l'uomo a lasciare la propria famiglia per trasferirsi presso il gruppo dei parenti della moglie (residenza 'uxorilocale') oppure presso l'abitazione di sua madre ('residenza matrilocale'). Come si è visto, la residenza patrilocale o virilocale è legata alle necessità belliche, ma tale sistema appare meno valido quando commercio, caccia e guerra non sono più scorrerie a corto raggio e si trasformano in spedizioni a lungo termine. È il caso, per es., degli huron dell'Ontario oppure dei mundurucú dell'Amazzonia, dove sono le donne a rimanere stabili nei villaggi e a dover mantenere vive le relazioni di cooperazione tra i diversi gruppi parentali. In questo caso, però, le donne di uno stesso villaggio provengono da gruppi diversi non locali. La loro lealtà sarà quindi rivolta maggiormente verso i propri gruppi d'origine a scapito della collaborazione con le altre donne. Adottando invece una residenza di tipo matrilocale o uxorilocale, nel villaggio rimarranno donne, madri, figlie e sorelle, le quali, anche in caso di assenza prolungata dei maschi, continueranno a collaborare tra di loro in quanto legate da vincoli di consanguineità. Poiché, però, sono generalmente gli uomini a detenere il potere, nei sistemi matrilineari e matrilocali, essi non vedono di buon occhio il fatto che siano i figli maschi ad abbandonare la casa al momento del matrimonio. Per questo spesso tali sistemi tendono con il tempo a diventare patrilineari e patrilocali. Esiste, tuttavia, una soluzione che permette di attenuare le tensioni dovute alla matrilocalità: si tratta della cosiddetta residenza 'avuncolocale', cioè un sistema dove la coppia vive presso lo zio materno dello sposo. In tale modo si vengono a creare gruppi di maschi con interessi comuni, che continueranno a governare gli affari all'interno del gruppo matrilineare.
Poiché nella maggior parte dei casi è la donna a lasciare la propria famiglia per trasferirsi presso il gruppo dello sposo, in molte culture vige un sistema di compensazione per cui la famiglia della donna viene rifusa della perdita dalla famiglia dello sposo che, al contrario, acquisisce un nuovo membro. Tale istituzione viene chiamata prezzo della sposa o ricchezza della sposa e si traduce in forme diverse. Nella maggioranza dei casi si tratta di un passaggio di beni vero e proprio da un gruppo all'altro. I genitori o i parenti del futuro sposo si presentano nella casa della ragazza e, dichiarando l'intenzione di voler celebrare il matrimonio tra i due giovani, offrono una certa quantità di beni che possono essere generi alimentari, abiti, armi, capi di bestiame o, come sempre più spesso accade in epoca moderna, denaro. All'offerta seguirà una trattativa e, se l'accordo sarà raggiunto, l'unione tra i due giovani - e quindi anche tra le loro rispettive famiglie - verrà sancita. In alcuni casi il prezzo della sposa viene pagato sotto forma di lavoro: per es., presso alcune popolazioni dell'Africa occidentale il promesso sposo lavorerà, per un periodo stabilito, i campi del futuro suocero. Spesso i beni ricevuti vengono utilizzati per acquisire una moglie per uno dei figli maschi della famiglia della sposa, innescando così un meccanismo di circolazione che contribuisce a creare e a rinsaldare alleanze tra diverse famiglie. Nel parlare comune, il pagamento del prezzo della sposa viene interpretato come una forma di acquisto della moglie. In realtà si tratta di una forma di scambio assai più complessa e raffinata, all'interno della quale la donna non viene assolutamente concepita come una merce. Il prezzo della sposa è legato alle sue capacità procreative. Nel caso di separazione di una coppia, infatti, se la moglie non ha procreato figli, il marito potrà richiedere indietro ciò che è stato pagato come prezzo della sposa; qualora la donna abbia invece dato alla luce uno o più figli, il marito non avrà nessun diritto al rimborso in quanto ella gli ha assicurato una prole. Percorso inverso al prezzo della sposa segue invece la transazione economica definita dote. Si tratta di una serie di beni, status o denaro che viene data alla sposa dalla propria famiglia. Tale pratica è tipica delle società più ricche ed è spesso legata al criterio di discendenza (e quindi di trasmissione dell'eredità) bilaterale, come avviene in Europa e in Asia, anche se la parte spettante alle donne raramente è uguale a quella destinata ai figli maschi. In società fortemente gerarchizzate, come quella indiana, dote e prezzo della sposa sono collegate alla differenza di status e di reddito tra i due coniugi. Per es., nel caso in cui un uomo economicamente ricco, ma di status basso, voglia prendere in moglie una donna di famiglia non abbiente, ma di status elevato (ipogamia) la loro unione sarà sancita dal pagamento del prezzo della sposa, determinando così una transazione economica a favore della famiglia più povera economicamente. Nel caso opposto, cioè di un uomo di status elevato, ma povero, il quale contrae matrimonio con una donna ricca, ma di status inferiore (ipergamia), sarà la sposa a recare con sé la dote, dando vita a una transazione anche questa volta orientata verso il meno abbiente. In entrambi i casi assistiamo a una sorta di compensazione tra ricchezza economica e status.
Una delle funzioni del matrimonio è quella di stabilire una linea di discendenza, lungo la quale verrà trasmessa anche l'eredità dei genitori ai figli. Nell'ambito di tale trasmissione le relazioni biologiche non sempre coincidono con quelle parentali. Per questo gli antropologi distinguono il padre sociale da quello fisiologico, facendo ricorso ai termini di pater per indicare il primo e di genitor per designare il secondo (lo stesso vale per la madre). Poiché nella tradizione popolare occidentale si credeva che il bambino nel grembo si nutrisse del sangue della madre, è stato dato a questo elemento un fortissimo valore simbolico, per cui gli individui discendenti da una stessa stirpe vengono chiamati consanguinei. Nonostante sia opinione condivisa che la nascita di un figlio è dovuta al contributo di un uomo e di una donna, non tutte le culture considerano uguale l'apporto dei due genitori nel momento in cui occorre determinare la discendenza dei figli. Una delle più diffuse regole di discendenza è quella unilineare che presenta due forme ben caratterizzate: quella patrilineare, secondo la quale è il padre a trasmettere eredità e status ai propri figli; quella matrilineare dove invece tali elementi vengono ereditati dai figli tramite la madre. Ciò non significa però che siano le donne a gestire il controllo dei beni, in quanto nella grande maggioranza delle società sono i maschi a detenere il potere: esse fungono da polo per il passaggio di beni alla generazione successiva. In questo caso, i beni e lo status di un uomo non andranno a suo figlio, ma al figlio di sua sorella. Esistono poi alcuni gruppi in cui la discendenza è doppia o bilineare. È il caso degli yakö della Nigeria, presso i quali l'eredità passa contemporaneamente sia attraverso la linea paterna sia attraverso quella materna. Questa popolazione di circa 11.000 individui vive quasi interamente nel grande villaggio di Umor, diviso in quartieri abitati da clan patrilineari, che detengono il diritto esclusivo dell'utilizzo della terra e quindi della trasmissione dei beni immobili. Il villaggio è però anche abitato da clan matrilineari, i quali risultano inevitabilmente dispersi in quanto la residenza è patrilocale (la sposa va ad abitare nella casa dei suoceri). Tutti i beni mobili vengono trasmessi lungo la linea materna. Entrambi i tipi di clan sono esogamici. Un individuo riceve quindi un'eredità duplice, sia da parte paterna sia da parte materna. Questo sistema sembra combinare i problemi caratteristici dei sistemi unilineari con il matrimonio. I membri dei clan matrilineari devono provvedere affinché le loro donne vengano fecondate e devono esercitare il controllo sui loro figli. I clan patrilineari invece cedono le loro donne consanguinee per ottenere mogli e avere a loro volta dei figli. In tale contesto i clan matrilineari sono avvantaggiati in quanto ricevono il prezzo della sposa dai clan patrilineari, ma non perdono il controllo sui figli delle loro donne. Anche presso società patrilineari, accade che una donna, particolarmente abbiente, possa fondare un lignaggio proprio. Per es., presso i nuèr del Sudan, nel caso in cui una donna, in possesso di numerosi capi di bestiame tali da pagare una compensazione matrimoniale, risulti sterile, può chiedere in sposa una donna. A tale moglie sarà consentito avere un amante e i figli che nasceranno dall'unione saranno socialmente considerati eredi della donna sterile che avrà così dato vita alla propria discendenza. Presso gli yoruba della Nigeria meridionale molte donne praticano il commercio e talvolta riescono ad accumulare notevoli ricchezze. Anche in questo caso è possibile, per una donna che non sia in grado di avere figli, 'acquisire' una sposa per crearsi eredi propri.
Un'istituzione che ha come scopo quello di mantenere in vita l'alleanza nata dal matrimonio è quella del levirato. Tale termine deriva dal latino levir, che designa il fratello dello sposo, e indica una pratica matrimoniale adottata da alcune società caratterizzate da discendenza patrilineare come, per es., i nuèr del Sudan, i lodagaa del Ghana settentrionale, ma anche i beduini dell'Arabia e gli ebrei. In tali contesti, nel caso in cui una donna rimanga vedova, potrà risposarsi con il fratello del marito defunto oppure con un suo figlio. In realtà non è necessario celebrare un nuovo matrimonio, semplicemente il nuovo consorte prende il posto del defunto. Gli eventuali figli nati da questa seconda unione non verranno considerati proprietà del nuovo marito, ma verranno legalmente riconosciuti eredi del defunto. In questo modo, il levirato assicura comunque, anche a un uomo non più in vita e senza figli, una discendenza sociale. Un'estensione ancora più marcata del levirato è quella praticata dai nuèr e definita matrimonio con un defunto. In questo caso, se un uomo muore prima di avere avuto figli o prima di essersi potuto sposare, un suo fratello più giovane sposerà sua moglie oppure colei che gli era stata destinata in moglie. La donna sarà, però, sempre considerata moglie del defunto (che magari non ha mai incontrato) e così i suoi figli. Presso i nuèr sarebbe ritenuto addirittura sconveniente se un giovane prendesse una moglie per sé, prima di avere adempiuto ai doveri del levirato. Tale istituzione, oltre a evidenziare il legame tra fratelli, contribuisce a rafforzare l'unità del lignaggio e quindi a mantenere il principio di formazione dei gruppi di discendenza, che costituiscono la base strutturale di molte società. Parallela e complementare all'istituzione del levirato, anche se assai meno diffusa, è quella del cosiddetto sororato, nella cui pratica un uomo rimasto vedovo avrà l'obbligo di sposare una sorella della moglie defunta.
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