BANDELLO, Matteo
Nacque nel 1485 a Castelnuovo Scrivia, in territorio a quei tempi lombardo, da famiglia nobile e antica.
È possibile che i suoi avi avessero, sotto Ottone I, titolo di "condomini di Castelnuovo, Sale e Caselle"; ma, presto coinvolti nelle lotte civili, al seguito dei Torriani dapprima e in età più recente degli Sforza, erano già alla fine del Quattrocento alquanto diminuiti nel prestigio e nelle facoltà. Il padre, Giovanfrancesco, era, nel secondo decennio del secolo XVI, fuoruscito e aveva trovato riparo presso i Colonna, bene accolto dal famoso condottiero Prospero e poi dal cardinale Pompeo; nulla, neppure il nome, ci è noto invece della madre. Il nonno Azzio era stato uomo autorevole e colto, "negli studi de l'umanità e de le civili leggi assai famoso". Degli altri consanguinei, con i quali lo scrittore intratteneva rapporti più o meno stretti, troviamo menzionati un Girolamo, "medico eccellente" e "nelle lettere greche e latine dottissimo", e un Cristoforo, ministro dell'Ordine dei minori per la provincia di Genova. Più intimamente legato alla biografia di Matteo è lo zio Vincenzo, che negli ultimi anni del Quattrocento era priore dei domenicani a Milano e dal 1501 generale dell'Ordine.Sotto la tutela dello zio Vincenzo, il B. entrava a dodici anni nel convento milanese di S. Maria delle Grazie e vi riceveva la prima educazione: memorabile, tra i suoi ricordi di puerizia, l'immagine del grande Leonardo, che egli dice d'aver visto intento a dipingere "il miracoloso e famosissimo Cenacolo". A quindici anni si trasferiva a Pavia, per completarvi in quello Studio la preparazione alla carriera sacerdotale e, oltre alle discipline teologiche e giuridiche, si dedicava con particolare predilezione alle lettere, alla storia e alla filosofia platonica: sembra ad ogni modo improbabile che vi conseguisse un titolo dottorale. Nel 1504 era già a Genova, in quel convento dei domenicani, dove poco più tardi è da credere che pronunciasse i voti. Della sua religiosità in quegli anni, nonché della sua discreta preparazione umanistica, è documento il racconto, che egli allora dettò in latino, della breve ed eroica vita del suo confratello Giambattista Cattanco.
Nel 1505 il B. accompagnava lo zio in un lungo viaggio di ispezione ai conventi domenicani dell'Italia centrale e meridionale, e la sua mente cominciava ad aprirsi all'esperienza di un mondo più vasto e vario. A Firenze aveva il suo primo amore platonico e poetico per una giovinetta che egli celebra sotto il nome di Viola, probabilmente Violante Borromeo. A Roma era introdotto da Angelo del Bufalo a frequentare la casa della famosa cortigiana Imperia. A Napoli si procurava la simpatia e la protezione dell'ex regina d'Ungheria, Beatrice d'Aragona, vedova di Mattia Corvino. Giunti in Calabria, il viaggio era bruscamente interrotto per la morte improvvisa dello zio nell'agosto del 1506: dopo averne riportato la salma a Napoli, perché fosse ivi tumulata nella chiesa di S. Domenico Maggiore, e appena uscito da una grave infermità che aveva condotto anche lui quasi sull'orlo della morte, il B. rientrava, triste e deluso nelle sue speranze di rapida fortuna, nel convento milanese delle Grazie.
È probabile che allora, o poco dopo, diventasse sacerdote; e intanto poneva le basi alla sua carriera di letterato mondano. Riallacciando le fila di amicizie e conoscenze, già iniziate durante il soggiorno a Pavia, comincia in quegli anni a frequentare i circoli degli umanisti e i salotti aristocratici, bene accolto per le sue doti di vivace e amabile conversatore e di cortigiano abile e servizievole: è assiduo, fra l'altro, nelle case delle nobili poetesse Cecilia Gallerana e Camilla Scarampa; ma soprattutto si lega ai Bentivoglio, venuti a Milano da Bologna, di cui avevano tenuto a lungo la signoria. Per Alessandro Bentivoglio svolge mansioni di fiducia, recandosi nel 1508, e forse anche nell'anno seguente, in Francia, incaricato di "negozi di grandissima importanza" alla corte del re Luigi XII; e dalla moglie dì lui, la colta e intelligente Ippolita Sforza, riceve il primo e più forte incitamento a scrivere e raccogliere le sue novelle. Venuta meno nel 1512 la dominazione francese in Lombardia, il B. si compromette con gli Sforza; cosicché nel 1515, quando i Francesi vincitori a Marignano rientrano in possesso del ducato, è costretto a fuggire da Milano e, con molti altri fuorusciti, trova "sicurissimo porto e rifugio" alla corte del marchese di Mantova Francesco Gonzaga.
A Mantova rimane dal 1515 al 1522 e in quell'ambiente di elegante mondanità e insieme di fervida vita intellettuale e artistica e di illuminato mecenatismo allarga la cerchia delle sue conoscenze aristocratiche e letterarie; consolida la sua fama di scrittore; si procura nuovi amici e protettori, specie fra le dame che gli accordano la loro confidenza e ne stimolano le ambizioni letterarie, da Elisabetta Gonzaga ad Emilia e Margherita Pio, a Ippolita Torelli. In particolare, è tra i familiari e segretari della marchesa, la grande Isabella d'Este. A questo soggiorno mantovano è legato il secondo dei suoi amori platonici, per una donna che nelle rime viene designata col nome di Mencia (come abitante sulle rive del Mencio o Mincio).
A Milano, abbandonata dai Francesi nel novembre del 1521, rientrò il B. nel 1522; ma se ne allontanava di nuovo nel 1526, "astretto per altrui colpa... a cangiar abito e costumi".
Non chiare restano le cagioni di questa sua fuga. Nel poemetto in lode di Lucrezia Gonzaga egli accenna oscuramente alle onorevoli proposte rivoltegli dal generale spagnolo Antonio de Leyva e da luì respinte per non danneggiare i suoi amici (onde avrebbe preferito rimanere "povero e fido" piuttosto che "ricco senza onor e stima"), alla persecuzione di Marino Caracciolo, ali, "invidia" di molti e all'ingratitudine di Francesco II Sforza. Da taluno si è pensato che egli avesse avuto parte nella fallita congiura del Morone. Certo è che, subito dopo la sua partenza, la sua casa fu saccheggiata dai soldati spagnoli e distrutti o dispersi i suoi libri e le carte.
Entrò allora al servizio di Federico Gonzaga di Bozzolo, seguendo le vicende degli eserciti della Lega di Cognac, nei loro spostamenti in Lombardia, in Romagna, nella Toscana e nel Lazio. A questo periodo son da riportare gli incontri con Giovanni dalle Bande Nere e con il Machiavelli. A probabile che sia di questo tempo anche la richiesta di secolarizzazione da lui avanzata alla curia, con l'appoggio del marchese di Mantova Federico Gonzaga, e rimasta senza esito: aveva intanto abbandonato il saio e rotto i rapporti con il convento. Lo incontriamo nel 1527 al seguito di Ranuccio Farnese, e poi (1528) di Cesare Fregoso, comandante del presidio di Verona. Di quest'ultimo si conquista la gratitudine negoziandone le nozze con Costanza Rangone, delle cui sorelle, Ginevra e Camilla, aveva già prima procurato il matrimonio rispettìvamente con Luìgi Gonzaga di Castelgoffredo e con Piero Gonzaga di Gazuolo. A Verona frequenta le case dei Canossa, dei Sauli e dei Serego. A Castelgoffredo, dove i Fregoso e i Gonzaga riparano durante la tregua concordata nel novembre del 1537, incontra la Lucrezia Gonzaga, di cui diventa precettore, e ne celebra in rime la virtù e la bellezza: terzo ed ultimo dei suoi amori letterari. Nello stesso anno si reca col Fregoso in Francia, dove conosce Margherita di Navarra, alla quale dedicherà la versione dell'Ecuba, alcune liriche e una novella.
Caduto il Fregoso in un'imboscata di sicari del marchese del Vasto (1541), il B. diventa il fedele servitore e consigliere della vedova Costanza, la segue nell'esilio, a Venezia e poi a Bassens (Bordeaux), dove il re di Francia le offre magnifica ospitalità. In quell'ambiente colto ed aristocratico egli può attendere in pace alla revisione e alla raccolta dei suoi scritti e provvedere a pubblicarli. Nel '50 accetta l'incarìco di reggere la diocesi di Agen (ma ne affida di fatto il governo a Giovanni Valerio, vescovo di Grasse), in attesa che gli subentri, non appena abbia raggiunto la maggior età, Ettore Fregoso, figlio della sua protettrice. Ad Agen muore nel 1561 ed ivi il suo corpo viene sepolto nel convento dei domenicani.
Opere - Scrittiminori: scarsa importanza ha la Religiosissimi fratris Ioannis Baptistae Cattanei Genuensis Vita,c omposta intorno ai vent'anni; e resta soprattutto come attestato della sua prima educazione umanistica e conventuale: vi si narra la storia di un nobile adolescente, novizio dell'Ordine domenicano; come egli fosse rapito a mano armata dal chiostro per opera dei padre e dei fratelli e come poi vi ritornasse vincendo, con il suo tenace proposito, l'ostilità della famiglia, per concludervi santamente la sua brevissima esistenza troncata dalla peste a soli sedici anni. Attraverso l'enfasi dell'artificioso latino e la ostentazione della dottrina claustrale s'intravvedono appena i primi segni di una incipiente disposizione narrativa. Un più preciso ínteresse in questo senso, nell'ambito del genere che il B. doveva prediligere, si rivela nella versione in latino della novella di Tito e Gisippo, una delle più stilizzate e auliche dell'ultima giornata del Decameron (la Titi Romani Aegisippique Atheniensis amicorum, historia in latinum versa,divulgata a stampa nel 1509). Puro esercizio rettorico, e abbastanza mediocre anche in questi limiti, è il discorso commemorativo nell'anniversario della morte del marchese di Mantova Francesco Gonzaga, composto per ordine di Isabella d'Este nel 1520 (Parentalis Oratio pro clarissimo imperatore Francisco Gonzaga). Nulla ci è giunto di qualche altro scritto latino, di cui troviamo ricordo nel repertorio di Leandro Alberti: biografie dello zio Vincenzo e di altri uomini illustri, nonché l'epitome di alcune vite di Plutarco.
Maggiore importanza hanno le opere poetiche in volgare: i Canti XI de le lodi de la signora Lucrezia Gonzaga di Gazuolo e del vero amore,stamp. a Agen 1545, insieme con le Tre Parche,capitoli in terza rima per la nascita di Giano, primogenito di Cesare Fregoso. Sia i capitoli che risalgono al 1531, come i Canti, composti fra il 1536 e il 1538, mostrano i limiti dell'adesione del B. al gusto rinascimentale, sul piano ideale e su quello stilistico: la dottrina dell'amor platonico e gli schemi formali del lirismo petrarchesco si svolgono nell'ambito di un gusto ancora legato ai modelli quattrocenteschi, che si attarda in compiaciute e macchinose costruzioni allegoriche e si disperde in una minuzia di banali riferimenti autobiografici. Questi limiti trovano una parziale conferma anche nei Fragmenti de le rime (ilcui manoscritto, inviato a Margherita di Francia, fu da questa portato a Torino allorché nel 1559 andò sposa a Emanuele Filiberto di Savoia), nonché nelle poesie estravaganti. Certo in queste liriche è assai più avanzato il processo di stilizzazione della materia e del linguaggio, nel senso del petrarchismo bembesco, e alquanto progredita la perizia del verseggiatore, che si esercita non senza bravura, oltre che in sonetti ballate e madrigali, anche nei metri più ardui della canzone e della sestina. Ma i momenti più felici sono da cercare, anche qui, nelle prove meno ambiziose, di tono più confidenziale, discorsivo o descrittivo, le più vicine insomma al petrarchismo ancora empirico di un Tebaldeo o di un Boiardo.
È da ricordare infine (oltre uno scarso manipolo di lettere) la traduzione in versi italiani dell'Ecuba di Euripide, inviata nel 1539 a Margherita di Navarra: documento dell'interesse che anche il B. dedicò, sia pur marginalmente, a un altro dei principali temi della cultura letteraria del Cinquecento, la restaurazione della tragedia classica.
Novelle. La raccolta delle novelle è non soltanto l'opera più ampia e più lungamente elaborata del B., ma anche quella in cui meglio si riflettono tutti gli aspetti della sua personalità: una vasta e varia esperienza del mondo, maturata nella lunga pratica delle corti, nelle contrattazioni private e nei maneggi diplomatici, nella frequentazione degli accampamenti, ma vista soprattutto nella prospettiva per eccellenza "mondana", appunto di quei salotti dove convengono "i più elevati e belli ingegni", e "gli uomini militari de l'arte del soldo ragionano, i musici cantano, gli architetti e i pittori disegnano, i filosofi delle cose naturali questionano, e i poeti le loro ed altrui composizioni recitano"; una pronta e inesauribile curiosità dei casi e delle passioni umane, sensibile alle vicende piccole e grandi della storia e della cronaca, appena corretta dalla presenza di un moralismo nient'affatto rigido, conforme allo spirito abbastanza accomodante di quella società libera e insieme raffinata e alla sua indole di "uomo terenziano" che non ritiene aliena da sé "nessuna cosa umana" e disprezza i pedanti e gli ipocriti, "i quali vorrebbero esser tenuti santi ed in effetto sono sentine d'ogni vizio"; una cultura infine anch'essa essenzialmente cortigiana, aperta a tutte le voci della civiltà rinascimentale (dal platonismo del Bembo alla poesia dell'Ariosto, alla piacevolezza del Berni; dall'acume storico e politico del Machiavelli e del Guicciardini all'idealismo aristocratico del Castiglione), ma sempre senza un preciso impegno letterario o teorico, curiosa assai più di notizie che di idee, ecletticamente dispersa in letture innumerevoli, italiane e forestiere, da cui attingere soprattutto un repertorio di cronache, aneddoti, esempi, facezie, e dovunque adattata alle esigenze di un'elegante conversazione da salotto.
Le novelle sono in tutto duecentoquattordici, distribuite in quattro parti, di cui le prime tre, edite nel 1554 a cura dell'autore, hanno un'estensione pressoché uguale, mentre la quarta, pubblicata postuma nel 1573, raccoglie un materiale meno copioso e forse meno elaborato. È probabile che il B. cominciasse fin dalla prima giovinezza a comporle, o almeno a registrarle in forma ancora provvisoria nelle sue carte; il definitivo lavoro di lima e di assestamento dell'opera sarà invece da collocare nell'ultimo ventennio della sua vita, durante il soggiorno al castello di Bassens, quando, com'egli stesso ci dice, ritrovandosi "un poco d'ozio" dopo tanti travagli e l'agio "di vivere a sestesso ed a le muse", deliberò di "metter l'ultima mano a le sue novelle per mandarle fuora" rivedute ed emendate. La raccolta rifiuta lo schema unitario di un inquadramento narrativo, accettato sul modello della "cornice" boccaccesca dalla maggior parte dei novellieri del Cinquecento, e neppure si ordina secondo una distinzione di argomenti: tutt'al più obbedisce a un criterio di regolata e riposante varietà, alternando e contemperando storie lunghe e brevi, situazioni e toni tragici, patetici, avventurosi, comici. Il B. insiste sul fatto che ha radunato le sue novelle "non servando altrimenti ordine alcuno di tempo", senza badare insomma alla successione cronologica della composizione, disponendole "secondo che a le mani gli venivano", in una serie del tutto casuale in cui si riflette il ritmo vario e altrettanto casuale dell'esistenza: "una mistura d'accidenti diversi, diversamente in diversi luoghi e tempi a diverse persone avvenuti e senza ordine veruno recitati". Ogni racconto è preceduto da una lettera, con cui l'autore lo dedica a un personaggio illustre per autorità o per ingegno, e al tempo stesso finge l'occasione in cui l'avrebbe udito narrare e stabilisce un legame più o meno stretto tra la vicenda raccontata e l'ambiente e la persona del supposto narratore. Era senza dubbio ingenuo l'atteggiamento dei vecchi critici che prendevano alla lettera le notizie fornite dalle dedicatorie, considerate come autentici documenti per la vita dell'autore e la storia dei tempi; ma è altrettanto ingenua la disposizione di alcuni studiosi più recenti che sembrano considerarle come una sorta d'imbroglio escogitato per ingannare la buona fede del lettore e mascherare la genesi libresca di una parte almeno delle novelle; laddove si tratta di un esplicito espediente letterario tradizionale nella novellistica (fin dai tempi del Boccaccio e del Sacchetti), sebbene non mai adottato in forma così sistematica, per costituire ai racconti un colorito sfondo e una decorosa ambientazione di costume e quindi una forte illusione di verità e di precisione storica. Il che non toglie che la finzione abbia un fondo reale e sia costituita con elementi attinti di volta in volta al vero. Sta di fatto che nessuna opera del Cinquecento forse ci offre un quadro altrettanto ricco e particolareggiato, una cronaca così mossa e vivace della società nei suoi vari strati e nelle sue diverse specificazioni ("rien ne peint mieux la façon d'être de ce beau pays vers 1500", come osservava già Stendhal); e dietro alla cronaca, anche la storia drammatica di un'epoca, che vede il momento culminante dei conflitti di egemonia fra le grandi potenze, la lacerazione ideologica e morale iniziata dalla Riforma, l'espansione dei Turchi nell'oriente europeo, il crollo delle autonomie e dell'effimero equilibrio degli stati italiani: fatti che il B. registra nella gravità delle loro conseguenze e nel modo eccezionale delle loro "súbite mutazioni", senza indagarli da storico, ma con l'animo di un testimone stupito e accorato.
Non meno ingenua è la pretesa, dei pur benemeriti ricercatori di fonti, di dedurre, dall'accertata o supposta origine letteraria di un certo numero di novelle, un giudizio di condanna sul loro valore e gli indizi per un processo di plagio; come se l'indifferenza più o meno grande verso la materia grezza del racconto e l'adozione o la varia contaminazione di temi desunti da un repertorio scritto od orale non fossero tradizione costante della novellistica prima e dopo il B., e come se il B. non si comportasse nel trattare questi temi con altrettanta libertà e disinvoltura dei suoi predecessori. Si dovrà, se mai, osservare che è relativamente scarso l'apporto che gli forniscono i novellatori (dal Boccaccio a Giovanni Fiorentino, da Masuccio a Sabbadino degli Arienti, allo Straparola e al Molza); tutt'altro che dimostrato il suo debito verso l'Heptaméron di Margherita di Navarra; di gran lunga più importante invece il ricorso agli storici, ai cronisti, ai viaggiatori antichi e moderni (Erodoto e Senofonte, Appiano e Livio, Paolo Diacono e il Villani, Flavio Biondo e il Giovio, le storie venete del Sabellico, gli annali genovesi del Giustiniani, la storia di Francia di Paolo Emilio e quella di Spagna di Marineo Siculo, i Mémoires del Commynes e gli annali d'Aquitania del Bouchet, la descrizione dell'Africa di Giovanni Leone e l'Itinerario di Ludovico de Varthema). Questo orientamento nella scelta delle fonti, che punta sulla ricerca della storia vera, o ritenuta tale, con una sua capacità intrinseca di commozione o d'interesse o di curiosità, accresciuta appunto da questa preliminare presunzione di verità storica, è già di per sé significativa per illustrare la novità dell'atteggiamento bandelliano. E si veda poi come da ogni vicenda, e talora da uno spunto estremamente scarno ed esile, lo scrittore riesca a ricavare, sul filo della sua curiosità appassionata di lettore, le implicite riserve di svolgimenti narrativi in senso patetico e avventuroso; si osservi, ad esempio, quale ritmo e andatura di novella e romanzo acquistino nelle sue mani le storie, che egli attinge da varie parti, di Seleuco e Stratonica, di Ciro e Pantea, di Lucrezia e Sesto Tarquinio, di Rosmunda, di Rosmunda, di Guglielmo d'Aquitania, degli adulteri delle nuore di Filippo il Bello, dei matrimoni e degli amori di Enrico VIII d'Inghilterra. Alla predilezione della storia veduta in una prospettiva romanzesca è parallelo il gusto dei fatti di cronaca, vera o fantastica, contemporanea o almeno abbastanza recente, che è la radice di alcuni dei racconti più famosi e suggestivi, come quelli della contessa di Challant, di Giulietta e Romeo, di Ugo e Parisina, di Marulla, di Giulia da Gazuolo. "Queste mie novelle... non sono favole, ma vere istorie": la dichiarazione, da non intendersi troppo alla lettera, caratterizza la direzione della fantasia bandelliana; e ad essa si affianca l'altro enunciato, su cui il B. fonda la sua scusa della scrittura inelegante e della lingua difettosa ("io non ho stile, e il conosco purtroppo, e per questo non faccio professione di prosatore"): "dico che ogni istoria, ancor che scritta fosse nella più rozza e zotica lingua che si sia, sempre diletterà il suo lettore" (e anche qui bisogna saperlo intendere a proposito: vuol dire che la sua lingua letteraria non ha la spontaneità e la vivezza dei toscani e che lo stile segue docile il ritmo del racconto senza pretendere a un suo rilievo autonomo). Qui sta l'originalità dello scrittore e la sua importanza nel quadro della novellistica del tempo: un'arte intesa più alla materia che ai modi dell'espressione, che respinge ogni ambizione di architettura e decoro formale, e anche di riposata e sottile analisi psicologica, e si appunta sul vario movimento e sul tragico urto delle passioni, sulla novità dei casi e sul groviglio delle peripezie, sull'interesse insomma e sull'evidenza immediata della situazione che ti dà l'illusione e il brivido della realtà. Perciò l'attenzione del lettore si rivolge, più che non alle storie brevi, a quelle d'intreccio più vasto e complesso e, più che non ai racconti comici, a quelli tragici o patetici o avventurosi. È vero che a volte c'è più la materialità del caso narrato che non la sua sostanza poetica, più la cronaca nuda e persino incoerente, se pure non mai fredda, dei fatti, che non la loro idealizzazione e celebrazione fantastica. Ma era necessario, proprio in vista dei futuri svolgimenti della letteratura narrativa, che questa si svincolasse anzitutto dalla splendida, ma alquanto chiusa e ormai greve, atmosfera poetica della tradizione boccaccesca, e si avviasse verso le mete di un nuovo più ardito realismo, sia pure attraverso l'accettazione provvisoria di un tono cronachistico senza rilievo e leggerezza di fantasia. E questo spiega (anche a non tener conto delle sue pagine più belle e commosse, più numerose di quanto non si creda) l'enorme fortuna del novelliere del B., le cui invenzioni penetrarono subito in Francia, con le traduzioni del Launay e del Belleforest, e, attraverso la mediazione francese, in Inghilterra, con le versioni e riduzioni del Painter e del Fenton, nonché in Spagna, nell'originale e tradotte, e offrirono spunti e schemi ai drammaturghi dell'età elisabettiana (Shakespeare, Webster, Marston), alle commedie del Lope de Vega, alle novelle del Cervantes.
Edizioni. L'edizione principe del novelliere bandelliano è rappresentata dalle seguenti stampe, che, in mancanza di manoscritti, hanno valore di archetipo: La prima [La seconda, La terza] parte de le Novelle del Bandello,in Lucca, per Vincenzo Busdrago, 1554, La quarta parte de le Novelle del Bandello nuovamente composte né per l'adietro date in luce,in Lione, appresso Alessandro Marsilii, 1573. Da esse derivano tutte le edizioni successive, tra le quali saranno da segnalare solo le più recenti (non sempre concordi nel modo di correggere singole lezioni errate o dubbie e di risolvere taluni problemi di grafia): Le quattro parti delle novelle riprodotte sulle antiche stampe,a cura di G. Balsamo Crivelli, Torino 1910-11; Le Novelle,a cura di G. Brognoligo, Bari 1910-11; Tutte le opere di M. B.,a cura di F. Flora, Milano 1952. Quest'ultima edizione comprende, oltre le novelle, i CantiXI,le Tre Parche,le Rime,le lettere, la dedicatoria dell'Ecuba tradotta, e la Vita del Cattaneo.
Delle opere minori del B. sono state pubblicate in vita le seguenti: Titi Romani Aegisippique Atheniensis amicorum historia in latinum versa, Milano, Gottardo da Ponte, 1509; Parentalis Oratio pro clarissimo imperatore Francisco Gonzaga Marchione Mantuae quarto,s. n. t.; Canti XI de le lodi de la signora Lucrezia Gonzaga di Gazuolo e del vero amore..., seguiti da Le tre Parche cantate ne la natività del signor Giano primogenito del signor Cesare Fregoso e de la signora Costanza Rangona sua consorte,Agen, per Antonio Reboglio, 1545. Hanno visto la luce postume le Rime tratte da un codice della R. Biblioteca di Torino a cura di L. Costa, Torino, Pomba, 1816, e l'Ecuba, tragedia di Euripide tradotta in verso toscano,Roma, De Romanis, 1813 (a cura di G. Manzi, dal codice Vat. Reg. 1395). La Religiosissimi Fratris Ioannis Baptistae Cattanei Genuensis Vita è stata pubblicata per la prima volta integralmente (dal codice Croce, ora alla Nazionale di Napoli) nella citata edizione delle Opere curata dal Flora. Distrutto nell'incendio del 1904 il manoscritto torinese delle Rime,la diligente stampa del Costa ha acquistato valore di fonte unica ed è stata riprodotta, con l'aggiunta delle estravaganti scoperte e edite in precedenza dal Percopo e dal Mandalari, nel volume: Il Canzoniere, a cura di F. Picco, Torino 1923.
Saranno da citare infine, fra le edizioni parziali con o senza note, di novelle del B. quelle curate da F. Picco (Milano 1911 e Roma 1927), da G. Lipparini (Milano 1922), da V. Osimo (ibid. 1929), da G. Vigorelli (Milano 1940), nonché le scelte incluse nelle Novelle del Cinquecento,a cura di G. B. Salinari, Torino 1955, e nelle Novelle italiane del Cinquecento, a cura di B. Maier, Milano 1962.
Bibl.: Come studio d'insieme rimane sempre vivo, nonostante le riserve espresse dalla critica più recente, il saggio di E. Masi, M. B. o Vita italiana in un novelliere del Cinquecento,Bologna 1900 (già comparso nella Nuova Antologia, ottobre-novembre 1892); accanto al quale possono essere ricordati: V. Spampanato, M. B. e le sue Novelle,Nola 1896; D. Morellini, M. B. novellatore lombardo,Sondrio 1900; H. Meyer, M. B. nach seinen Widinungen,in Archiv für das Studium der neueren Sprachen u. Literaturen,CVIII(1902), pp. 324 ss.; CIX(1902), pp. 83 ss.; U. Fresco, M. B. e le sue novelle,Camerino 1903. Una svolta essenziale, anche per quanto riguarda la nuova prospettiva del giudizio critico, rappresenta l'indagine portata sulle fonti letterarie delle novelle da L. Di Francia, Alla scoperta del vero B.,in Giorn. stor. d. letter. ital., LXXVIII (1921), pp. 290-324; LXXX (1922), pp. 1-94; LXXXI (1923), pp. 1-75. Contro le tesi del Di Francia hanno reagito con vivacità e spesso con buon senso G. Brognoligo, In difesa di M. B.,in Atti della Accademia Pontaniana,LVIII (1928), pp. 92-113, e G. Manginelli, IlB. novelliere e altri saggi,Napoli 1931. Il Di Francia ha replicato alle obiezioni nello scritto IlB. e la critica,in Giorn. stor. d. letter. ital.,XCIII(1929), pp. 106-117, e ha ribadito e riassunto i suoi concetti in Novellistica,II,Milano 1925, pp. 1-62. Per la critica più recente sono da consultare: T. Parodi, Le novelle del B.,in Poesia e letteratura,Bari 1926; G. Bellonci, B. e il realismo letterario lombardo in Circoli,V(1935), pp. 901-909; A. Baldini, il B., in Celebrazioni Piemontesi,Urbino 1935, e in Cattedra d'occasione, Firenze 1941; F. Neri, Quanto valga il B., in Saggi di letteratura italiana francese inglese,Napoli 1936; A. Momigliano, B. e il Cinquecento,in Elzeviri,Firenze 1945; B. Croce, Poesia popolare e poesia d'arte,Bari 1933, pp. 488-98; G. Petrocchi, M. B. L'artista e il novelliere,Firenze 1949; G. Getto, Il significato di B., in Lettere italiane, VII(1955), pp. 314-29; L. Russo, M. B. novellatore "cortegiano", in Belfagor, XVI(1961), pp. 24-38; A. Borlenghi, M. B.,in IMinori,Milano 1961; oltre le Prefazioni del Flora, del Vigorelli, del Salinari alle citate edizioni.
Per la biografia, oltre la vita scritta da G. M. Mazzuchelli, in Gli Scrittori d'Italia,II,1,Brescia 1758 e l'elogio di G. F. Galeani Napione, in Piemontesi illustri,V,Torino 1787, sono importanti le ricerche di F. Picco (Iviaggi e la dimora del B. in Francia,in Scritti varii... in onore di R. Renier,Torino 1912; M. B. évêque d'Agen,Agen 1920; Dame di Francia e poeti d'Italia,Torino 1921), oltre alcuni contributi minori: M. Mandalari, IlB. in Calabria,Catania 1900; C. E. Patrucco, Ilsoggiorno di M. B. in Pinerolo,Pinerolo 1900; G. Bolognini, Verona nel novelliere di M. B.,in Atti d. Accad. di agricoltura scienze e lettere di Verona,1915; sulla data della nascita, Carletta [A. Valeri], in Rivista d'Italia,III(1900), 3, pp. 536-538; sulla data della morte, F. Picco, in Etudes italiennes,I(1919), pp. 223-28; sulle idee morali, M. Mandalari, IProverbi del B.,Catania 1899.
Studi su singole novelle o su particolari aspetti dell'opera: D. Morellini, Un "facetoaccidente",in Giorn. stor. della letter. ital., XLV (1905), pp. 455 s.; Id., Giovanna d'Aragona duchessa di Amalfi,Cesena 1906; V. Osimo, IlMachiavelli e il B.,in Giorn. stor. d. letter. ital.,LIV (1909), pp. 86 ss.; F. Picco, Il testo di una novella del B. negli "Annales d'Aquitaine",Città di Castello 1912; Id., Iltesto di due novelle del B. nella descrizione dell'Africa di Giovan Leone Africano,Città di Castello 1912; Id., Una fonte diretta del B.,Piacenza 1912; C. Agosti Garosci, Per la cronologia di alcune novelle di M. B.,in Giorn. stor. d. letter. ital.,LIX (1912), pp. 91 ss. Id. IlMachiavelli in alcune novelle di M. B.: ibid.,LXIV (1914), pp. 172 ss.; H. Hauvette, Réminiscences de Boccace dans une légende célèbre,in Miscellanea storica della Valdelsa,XXI(1913), pp. 292 ss.;G. Brognoligo, Personaggi bandelliani,in Studi dedicati a F. Torraca, Napoli 1912; A. Durengues, La société milanaise d'après B. au temps de la Renaissance,in Revue du seizième siècle,XVIII(1931); F. Neri, La contessa di Challant,in Storia e poesia,Torino 1944. Sulla fortuna dello scrittore in Francia: R. Sturel, B. en France au XVI.me siècle,in Bulletin italien,XIII(1913), pp. 210 ss., 331 ss.; XIV(1914), pp. 29 ss., 211 ss.; XV(1915), pp. 2 ss.,56 ss.; in Inghilterra: E. Köppel, Studien zur Geschichte der italienischen Novelle in der englischen Literatur,Strassburg 1892; C. Chiarini, Romeo e Giulietta: la storia degli amanti veronesi nelle novelle italiane e nelle tragedie di Shakespeare,Firenze 1906; R. L. Douglas, Introduzione alla ristampa di Certaine Tragicall Discourses di G. Fenton, Londra 1898; F. Olivero, SulB. e il dramma elisabettiano,Torino 1928; in Spagna, M. Menendez y Pelayo, Origines de la novela, Madrid 1907, II, pp. XX-XXIII.