Bandello, Matteo
Domenicano, scrittore di novelle, poeta e segretario al servizio delle corti lombarde, nato a Castelnuovo Scrivia nel 1484 o 1485, rielabora il ricordo della vita e delle opere di M. con lo sguardo dell’intellettuale contemporaneo. Le Istorie fiorentine, il Principe, l’Arte della guerra, i Discorsi sono una fonte d’informazione preziosa per B., che nelle sue 214 novelle, accompagnate da altrettante lettere di dedica, racconta una fase decisiva delle guerre d’Italia. Nel racconto delle corti degli Stati italiani, oppressi dalle guerre tra francesi e spagnoli, B. mette in scena M. non solo come pensatore politico, del quale discute alcune tesi, ma anche come personaggio realmente conosciuto nell’estate del 1526.
Gli anni cruciali per la vita degli Stati italiani – tra la battaglia di Pavia (1525) e il sacco di Roma (1527) – sono il periodo più drammatico per la vicenda biografica di entrambi.
B., filofrancese, aveva abbandonato Milano (1526) e si era rifugiato presso Aloise Gonzaga del ramo cadetto dei Gonzaga di Castiglione delle Stiviere e di Castel Goffredo. Uscito dal convento domenicano di S. Maria delle Grazie, in cui era cresciuto, era ormai pronto al ruolo di segretario al quale era stato già formato prima da Alessandro Bentivoglio e da sua moglie Ippolita Sforza (dal 1513) e successivamente da Isabella d’Este Gonzaga (dal 1516). B. era stato costretto ad abbandonare il convento a causa della crescente tensione politica tra il duca Francesco II Sforza e Antonio de Leiva, generale di Carlo V. Nel 1528 B. abbandona anche il Gonzaga, nel frattempo passato agli spagnoli, per diventare segretario di Cesare Fregoso – capitano a servizio del re francese Francesco I – e della moglie Costanza Rangone. Dopo l’assassinio del marito (1541), Costanza si rifugia con la famiglia, e con B. al seguito, in Francia nel castello di Bazens (Aquitania). A Bazens B. si dedica alla raccolta e alla revisione dei suoi scritti sino alla morte (1561).
Nelle Novelle (le prime tre parti pubblicate a Lucca, stampate da Vincenzo Busdrago nel 1554, e la quarta parte, postuma, a Lione, stampata da Alesandro Marsilii nel 1573) si ritrova, quindi, la «istoria » di quegli anni, riformulata in 214 dittici narrativi, ciascuno formato da una lettera di dedica e da una novella. Nel dittico I 40, ambientato nell’estate del 1526, M. appare come personaggio e come narratore di una beffa. M. è di nuovo menzionato nel dittico III 55 (il narratore del momento, Francesco Torre, dice di non sapere se Niccolò è ancora vivo). Ma già nell’esordio del novelliere la novella del dittico I 1 – dedicato a Ippolita Sforza Bentivoglio – è scritta sulla falsariga di Istorie fiorentine II iii, con riprese puntuali del testo. Nella consueta duplice forma narrativa, l’esordio del novelliere è una narrazione a specchio in cui la vicenda contemporanea della lettera di dedica si riflette nella vicenda più antica della novella, sulla scorta dell’opera storica machiavelliana. Non a caso nella dedica B. fa comparire Lodovico Alamanni, ambasciatore fiorentino a Milano tra il 1518 e il 1519, il quale in modo assai significativo racconta l’assassinio di Buondelmonte Buondelmonti, colpevole di aver tradito il patto matrimoniale con gli Amidei per amore di una fanciulla della famiglia Donati: un episodio cardine della storia di Firenze, che già i cronisti del tempo (Giovanni Villani e Dino Compagni) e Dante (Inferno XXVIII 103-11) consideravano la scintilla del conflitto tra guelfi e ghibellini.
Al dettato machiavelliano, ripreso quasi alla lettera, viene sovrapposto qualche fronzolo moralistico e sentimentale. La rielaborazione bandelliana della istoria machiavelliana, che inaugura il primo libro di novelle, deve essere interpretata con altri passi in cui B. affronta sia le teorie politiche e militari di M. sia la sua personalità. In generale B. dichiara di non accettare l’asse portante del suo pensiero politico, al quale contrappone la propria formazione domenicana.
La separazione della morale dalla politica, la prassi spregiudicata del principe, l’uso della malvagità per finalità strategiche sono gli argomenti machiavelliani più contestati nel novelliere, a favore della morale politica e della saggezza priva di ombre di un principe.
L’ambiente cortigiano che B. rappresenta nelle dediche è il pubblico ideale per giudicare la politica contemporanea e gli esempi di governo dei principi del tempo. Il domenicano B. combatte senza distinzioni quella idea di «malizia», il cui uso spregiudicato per M. può essere vantaggioso nell’azione politica. Il dittico III 55 contiene una critica esplicita al noto capitolo dei Discorsi (I 27) e la dedica IV 11 condanna apertamente Cesare Borgia: il Principe non è citato, ma è presente sotto traccia. Questi due brani (III 55 e IV 11) sono necessari per interpretare il lato comico del celebre dittico I 40, dove M. (nella dedica) viene deriso per l’impaccio mostrato nel comandare una manovra militare; ed è presentato (nella novella) come il narratore di una beffa grottesca, che ricorda la Mandragola ma anche alcune riflessioni del Principe. La presa di distanza più rilevante dal M. si legge nel dittico III 55, in cui B., rivolgendosi al dedicatario (il conte Bartolomeo di Canossa), gli ricorda di quando si erano ritrovati a Verona nel 1532 con alcuni gentiluomini veneziani, con il capitano Cesare Fregoso e con Francesco Berni. Giunto il momento della conversazione un cortigiano legge alla brigata (probabilmente dalla prima stampa dell’opera) un capitolo dei Discorsi di cui riporta esattamente il titolo (Sanno rarissime volte gli uomini esser al tutto tristi o al tutto buoni): si tratta di uno dei capitoli più spregiudicati e discussi, che ha per protagonista Gian Paolo Baglioni. Svoltasi una discussione sull’argomento, Francesco della Torre prende la parola per raccontare una novella su un anonimo e immorale dottore di Bologna. Ma prima mette a fuoco la celebre riflessione di M. sul già parricida e incestuoso Baglioni, criticato soprattutto per la viltà dimostrata nell’affrontare Giulio II. Per della Torre questa lezione di M. «contiene in sé vie più di male che di bene, anzi in sé nessuna buona cosa ha»; devono, invece, essere puniti con «eterno biasimo» non solo coloro che fanno il male ma anche «chi altrui insegna». I predicatori, ricorda, sono stati «ordinati» affinché insegnino la retta via, a vivere cristianamente e a condannare le azioni malvage. Il contrasto, come è evidente, ha per oggetto la morale del principe, secondo una netta contrapposizione ideologica tra l’ordine dei predicatori e il nuovo pensatore politico. La critica entra nel dettaglio delle parole di M., secondo il quale la mancata azione del Baglioni rivela che «gli uomini non sanno essere onorevolmente cattivi, o perfettamente buoni, e, come una malizia ha in sé grandezza, o è in alcuna parte generosa, e’ non vi sanno entrare». B. al contrario non ammette che una malizia possa essere generosa e «che uno possa esser onoratamente tristo e far una sceleraggine, che da’ buoni sia reputata onorevole».
L’aspra critica alle tesi di M. è poi in parte mitigata da una generica lode all’acutezza del suo ingegno, anche se il narratore dimostra una sprezzante noncuranza quando dichiara di non sapere se M. sia ancora vivo o morto. M. è di fatto condannato come un cattivo maestro:
vorrei che fosse stato alquanto più parco e ritenuto e non così facile ad insegnar molte cose triste e malvage, da le quali molto leggermente se ne poteva e deveva passare, tacendole e non mostrandole altrui, come fa in diversi luoghi.
Chi è «tristo» deve essere indicato con il «dito di mezzo» in segno di disprezzo, in quanto nessuno può essere giudicato «onoratamente ribaldo». La disputa cortigiana sulle tesi machiavelliane viene trascinata oltre il consueto limite proemiale, cosicché la novella risulta essere solo una piccola appendice esemplificativa di questa lunga arringa contro i Discorsi, e viene introdotta quasi forzatamente dalla citazioneponte di un noto personaggio decameroniano, Ciappelletto (Decameron I 1), doppio letterario utile per attivare lo scambio tra conversazione e narrazione vera e propria.
La condanna della crudeltà dei tiranni è ricorrente in B., che non manca mai di ricordare ai suoi dedicatari l’instabilità delle cose presenti e il tragico susseguirsi delle guerre che funestano gli Stati italiani (III 62). Così anche Cesare Borgia, modello del principe nuovo per M., viene inserito da B. nella lista nera di coloro che hanno contribuito a rovinare l’equilibrio politico italiano con le loro «infami sceleratezze».
Nella dedica IV 11 un pubblico selezionato di letterati cortigiani, tra i quali Gian Giorgio Trissino e la duchessa Elisabetta Gonzaga, già protagonista del Cortegiano, ricorda Cesare Borgia come un tiranno sanguinario «immanissimo» che aveva coinvolto tragicamente anche la loro vita. Il Valentino, infatti, aveva ucciso anni prima una protetta della duchessa, che al ricordo a stento trattiene le lacrime.
È in questo quadro interpretativo di sostanziale contrapposizione alle tesi di M. che va inserita la dimensione comica e grottesca del dittico I 40. Nella lettera B. ricorda al dedicatario, il condottiero Giovanni de’ Medici (Giovanni dalle Bande Nere) l’incontro con M. durante l’estate del 1526 nel campo militare di Lambrate. Nell’estate del 1526 il capitano si trovava effettivamente acquartierato sotto le mura di Milano con l’esercito della lega di Cognac nel tentativo di liberare la città dalle truppe di Carlo V. La I 40, a differenza di altre lettere, ruota in modo esclusivo su tre emblematiche figure: B.-scrittore, Giovanni dalle Bande Nere-dedicatario e M.-narratore e personaggio. M. compie un sopralluogo nel campo di Lambrate come messaggero inviato da Francesco Guicciardini, luogotenente generale di Clemente VII. B. è da poco segretario del capitano Aloise Gonzaga, il quale, alla testa dei suoi cavalleggeri, si era unito alle forze della lega (Fiorato 1979). Alla fine del mese di luglio, dunque, l’incontro tra M. e Giovanni dalle Bande Nere, presente B., potrebbe essere avvenuto realmente, tanto più che la circostanza descritta da Guicciardini nella lettera a Roberto Acciaiuoli del 18 luglio 1526 («El Machiavello si trova qua. Era venuto per riordinare questa milizia, ma, vedendo quanto è corrotta, non confida averne onore. Starassi a ridere degli errori degli uomini, poi che non gli può correggere») coincide in parte con quanto scrive B. all’inizio della sua lettera-dedica: M. era presente sul campo per «far quell’ordinanza di fanti di cui egli molto innanzi nel suo libro di arte militare diffusamente aveva trattato».
Il dato storico del M. organizzatore delle truppe alleate nella lega di Cognac, compito svolto in qualità di provveditore e cancelliere dei Procuratori alle mura, è il concreto punto di partenza del racconto di B., che però è finalizzato a dimostrare l’incapacità del teorico nell’applicare i complicati schemi di schieramento prospettati nel suo dotto trattato. B. descrive, infatti, un M. impacciato che costringe tutti i presenti a stare sotto il sole più di due ore senza riuscire a sistemare tremila fanti nell’ordine che aveva così sagacemente descritto. Giovanni, stanco di aspettare, in poco tempo per mezzo di «tamburini» mette in ordine i fanti, «in vari modi e forme con ammirazione grandissima». La scena è costruita sulla base di un aneddoto narrato da Cicerone nel De oratore (II 18 75), che vede contrapposti il filosofo Formione, saccente teorico dell’arte militare, e uno spazientito Annibale (aneddoto che proprio M. rammenta a Guicciardini in una lettera del 4 apr. 1526). Come di consueto, il pessimo giudizio sulle capacità militari di M. è accompagnato da un generico apprezzamento quale persona «discreta e cortese» e dicitore «facondo» e «copioso». A M. B. attribuisce una novella che narra l’«inganno usato da una scaltrita donna al marito con una subita astuzia»: una novella da soldati, triviale e grottesca, che risulta infarcita di citazioni boccacciane (il richiamo a Guccio Imbratta, la perifrasi sessuale dello «scuotere il pelliccione»), ma che è costruita sulla base di un inganno erotico che ricorda la Mandragola (Maestri 1991; Rinaldi 2012). Le affinità tra i due testi, tuttavia, si devono anche al comune canone della beffa che, da Boccaccio in avanti, vede il personaggio tipico del «semplice» raggirato dalle trame dei più furbi. L’esistenza di questa umanità conflittuale, assai studiata dal vero M., è alla base dell’elenco accumulativo sulla natura umana che B. gli fa dire come suo speciale narratore: «Ladroni, traditori, simulatori e puttane di rado si lasciano accogliere». Il M. di B. avverte che occorre guardarsi sempre dall’arte della simulazione e della dissimulazione poiché queste persone usano così «apparenti scusazioni», «tante ipocrisie e simulate parole», che per forza si cade nei loro inganni:
pensate mo come farà il nostro Cocco, che non era perciò uno dei più avveduti e scaltriti uomini del mondo, anzi teneva alquanto del tondo, che lo copriva da capo a piedi; e se fosse stato milanese avrebbe avuto un livello perpetuo dentro la badìa di San Simpliciano.
Questo intervento di M. narratore sembra echeggiare passi del Principe, come questo: «e sono tanto semplici gli uomini, e tanto obediscono alle necessità presenti, che colui che inganna, troverrà sempre chi si lascerà ingannare» (Principe xviii). Il lato comico del dittico I 40 scaturisce proprio dal contrasto, vivo nei contemporanei, tra un M. narratore faceto, ma ridicolizzato dal vero condottiero, e la drammatica memoria degli avvenimenti di quella estate, in cui si dimostrò ancora una volta l’inettitudine delle armi ‘italiane’. La verosimiglianza della ambientazione bandelliana mescola abilmente verità storica e invenzione narrativa, creando una versione tutta letteraria degli eventi decisivi per le sorti della penisola, con gli attori più importanti di quello scenario.
Bibliografia: Tutte le opere di Matteo Bandello, a cura di F. Flora, 2 voll., Milano 1942-1943; La prima parte de le novelle, a cura di D. Maestri, Alessandria 1992; La seconda parte de le novelle, a cura di D. Maestri, Alessandria 1993; La terza parte de le novelle, a cura di D. Maestri, Alessandria 1995; La quarta parte de le novelle, a cura di D. Maestri, Alessandria 1996; Novelle, a cura e con introduzione di E. Menetti, Milano 2011.
Per gli studi critici si vedano: A.C. Fiorato, Bandello entre l’histoire et l’écriture. La vie, l’expérience sociale, l’évolution culturelle d’un conteur de la Renaissance, Firenze 1979; N. Borsellino, Schede per Bandello narratore: boccaccismi e machiavellismi, in Matteo Bandello novelliere europeo, Atti del Convegno internazionale di studi, Tortona 1980, a cura di U. Rozzo, Tortona 1982; R. Bragantini, Il riso sotto il velame: la novella cinquecentesca tra l’avventura e la norma, Firenze 1987; D. Maestri, Bandello e Machiavelli: interesse e riprovazione, «Lettere italiane», 1991, 43, pp. 354-73; E. Menetti, Enormi e disoneste: le novelle di Matteo Bandello, Roma 2005; G. Inglese, Machiavelli Niccolò, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 67° vol., Roma 2006, ad vocem; R. Rinaldi, Controcanto. Per alcune citazioni esplicite nelle novelle di Matteo Bandello, in Storie mirabili. Studi sulle novelle di Matteo Bandello, a cura di G.M. Anselmi, E. Menetti, Bologna, 2012.