BUONAMICI, Matteo
Nacque a Prato da antica famiglia cittadina in data imprecisabile della prima metà del sec. XVI. Si sa che fu prete e che godeva di qualche relazione alla corte romana, che non riuscì tuttavia a mettere a frutto per una consistente carriera nella prelatura; dovette invece contentarsi di alcuni oscuri incarichi: resse in qualità di vicario del cardinale G. A. Santori l'arcivescovato di Santa Severina nel Regno di Napoli durante tutto il periodo in cui di esso rimase titolare quel porporato, dal 1566 al 1573; probabilmente su richiesta dello stesso cardinale alle autorità spagnole ottenne quindi la carica di governatore della piccola città di Mileto, in Calabria Ultra, dove morì nel 1590.
Il B. è ricordato per una sua operetta didascalica, che alcuni storici del pensiero politico italiano cinquecentesco collocano, con una larghezza forse eccessiva, a margine della tematica utopistica, soprattutto in virtù di alcuni richiami esterni a certi motivi correnti dell'utopia contemporanea. Lo scritto del B., Trattati della servitù volontaria,nel quale moralmente si discorre della vita di chiunque serva (ilplurale indica l'intenzione dell'autore di far seguire a questo primo scritto altri volumi, che tuttavia non furono mai pubblicati), ebbe in realtà una qualche fortuna editoriale: fu infatti pubblicato una prima volta a Napoli, nel 1572, e ristampato a Napoli nel 1581 e a Venezia nel 1590. Tuttavia una rilettura dell'operetta non rende ragione di questa fortuna, poiché essa appare ideologicamente priva di significato e letterariamente assai mediocre, caratterizzata da ambizioni confuse e comunque irrealizzate, squallidamente riecheggiante i luoghi comuni di una tradizione didascalica e moralistica ormai esausta nel suo continuo ricorso ai frusti schemi dell'allegoria, scritta in una lingua piatta e spesso incomprensibile per le sue incertezze sintattiche.
Il B. vuole "descrivere un Regno e una Repubblica formati e ordinati con tal leggi, consuetudini e costumi, mediante i quali gli abitanti di quelli si conservassin in somma perfezione di vita e Regno e Repubblica si mantenessin eterni senza portar pericolo che la monarchia, aristocrazia e democrazia si convertissino in una odiosa tirannide o l'una si trasformasse nell'altra". E perché questa ripresa della più stantia tematica politica che solo il volenteroso prete toscano poteva considerare "utile" avesse anche il ricercato carattere di "dilettevole", il B. fa appello alle altrettanto consunte risorse del mito e della allegoria, immaginando, con una "invenzione" non propriamente originale, che nella cornice di un intrattenimento cortese il cavaliere Caumo narri, su invito di una curiosa "regina", le sue peregrinazioni per sfuggire alla servitù d'amore sino alla favolosa città di Narsida.
Qui, nel tempio della Libertà, il viaggiatore ha tutte le desiderate spiegazioni sulla origine della servitù nelle sue varie forme, tutte riducibili alla soggezione ai tre vizi principali dell'animo umano, la superbia, la lussuria e l'avarizia: origine rinviata alla fine dell'età dell'oro, quando dalla "naturale" indistinzione "di tuo e di mio" gli uomini erano passati "a disprezar le leggi di natura", dividendo la terra comune e ponendo confini, scatenando la prepotenza dei più forti sui più deboli, finché Nemesi mandò in terra Pandora col suo orribile vaso. La salvezza era, secondo il B., nella "servitù volontaria" al principe ed a Dio, come dimostrava appunto l'esistenza, non meglio illustrata, della felice Narsida. Il poco fantasioso mito del B. si articola quindi in un groviglio indistricabile di apologhi, in cui lo stesso autore finisce per perdere completamente la bussola della tematica originaria di regno e repubblica, di libertà e servitù per approdare ad una precettistica nemmeno più lontanamente politica, e rivolta invece, in sostanza, a illustrare e dirigere la servitù "volontaria" del cortigiano o, piuttosto, dell'umile prete alla ricerca sfortunata di un padrone generoso.
Bibl.: F. Cavalli, La scienza politica in Italia, II, Venezia 1783, pp. 295, 298; C. Curcio, Utopisti ital. del Cinquecento, Roma 1944, pp. 175 ss.; L. Firpo, Lo stato ideale della Controriforma, Bari 1957, p. 244.