MATTEO da Campione
MATTEO da Campione. – Non si conoscono il luogo e l’anno di nascita di questo scultore e architetto lombardo della seconda metà del Trecento (Lomartire, 1988, pp. 72-76).
L’inizio dell’attività di M., appartenente ai cosiddetti «maestri campionesi», un gruppo di lapicidi originari della regione dei laghi lombardi attivi nell’Italia settentrionale dalla metà inoltrata del XII secolo a tutto il XIV, si colloca presumibilmente all’inizio del sesto decennio del Trecento e si svolge nel contesto della piena età viscontea. Un’iscrizione in cui compaiono i nomi di Pietro e, in forma abbreviata, di Matteo «de Campilio» permette di riferirgli e di datare al 1351 il rosone marmoreo e il gruppo statuario ospitato nella lunetta del portale della chiesa di S. Pietro a Corniglia, in Liguria, dove si possono scorgere echi dello stile di Giovanni di Balduccio e soluzioni stilistiche personali in forma ancora immatura (Novello).
M. operò per diversi decenni nella basilica di S. Giovanni Battista (l’odierno duomo) a Monza, una struttura in gran parte già edificata prima del suo arrivo (Giordano; Cassanelli, 1989), come dichiarato dall’epigrafe sepolcrale a cui è sostanzialmente affidata la sua memoria: «Hic iacet ille magnus edificator devotus magister Matheus de Campiliono qui huius sacrostante ecclesie fatiem edificavit evangelicatorium ac babtisterium».
Nell’epitaffio, murato nella parete esterna della cappella absidale meridionale, attualmente detta del Rosario, l’appellativo «magnus edificator», con cui si esaltano le qualità di M., sembra testimoniare una sua rinomanza presso i contemporanei; mentre l’espressione «devotus magister» lascia intendere la lunga consuetudine del maestro con la fabbrica monzese. Inoltre, in modo piuttosto insolito per l’epoca, vengono elencate dettagliatamente le sue imprese, senza che sia possibile però individuare discriminanti cronologici tra di esse, né una loro possibile successione: la facciata, il pulpito, il fonte battesimale. Mentre quest’ultimo è andato perduto (ma forse vi appartenevano le lastre marmoree scolpite a traforo, murate all’esterno del coro intorno al 1577: Merati, 1982), il pulpito si è interamente conservato e nella originaria collocazione (tra i primi due pilastri del colonnato settentrionale della navata centrale), anche se l’adattamento a cantoria, forma assunta già alla fine del Quattrocento, ne ha modificato l’impianto (Lomartire, 1992).
Il pulpito doveva avere in origine una cassa marmorea rettangolare, con lati brevi di profondità doppia rispetto a quella attuale, poggiante su quattro archi lavorati a traforo, due ribassati sui lati lunghi e due a tutto sesto su quelli brevi, sostenuti agli angoli da quattro colonne. Nel XVIII secolo i lati corti della struttura vennero dimezzati e in parte rimontati sulla fronte: in quell’occasione gli archi a pieno centro dei fianchi dovettero essere tagliati ognuno in tre parti, di cui quelle mediane rimontate di nuovo sotto i parapetti laterali, mentre quelle estreme ricomposte a formare gli archi a sesto acuto della fronte, sostenuti dalle quattro colonne riallineate sul prospetto. Questa riorganizzazione dell’insieme comportò anche lo spostamento sulla fronte di due dei quattro apostoli che si trovavano in origine su ognuno dei fianchi, così come delle due serie di lesene con figurazioni che oggi scandiscono la parte mediana del lato principale.
Il pulpito si caratterizza per ricche cornici fitomorfe, una decorazione a motivi vegetali racchiusi entro riquadri modanati, l’ornato a traforo con il caratteristico motivo a trifoglio allungato inserito negli angoli e negli spazi di risulta, oltre che per una serie di otto clipei traforati che sviluppano altrettante variazioni sui temi della ruota, della stella e della croce: uno di questi presenta un motivo ad asole e nodi che richiama alla mente una nota formula ornamentale di tradizione araba e conferma la ricchezza di fonti e la straordinaria ricettività culturale di Matteo. Nei marginalia della decorazione affiorano le drôleries di grilli ed esseri mostruosi, i quali ritornano anche nei pennacchi ritagliati tra la cornice superiore e le nicchie con gli apostoli e in uno dei quarantacinque riquadri figurati che ornano le lesene. La fronte oblunga è occupata in alto da un parapetto marmoreo con al centro un ambone semiesagonale sporgente (sormontato da un’aquila reggileggio); sulla cassa del pulpito, entro nicchie divise da colonne tortili, sono scolpiti gli apostoli, S. Paolo e S. Barnaba, identificati dai tituli incisi nella modanatura superiore; sull’ambone è una Deesis con il Battista che porge il suo capo mozzato al Salvatore, il quale regge con la sinistra un libro aperto e con la destra un tronco d’albero con le radici in evidenza, secondo uno schema iconografico molto raro (che si ritrova però nella lunetta del portale della sacrestia aquilonare del duomo di Milano, eseguita da Giacomo da Campione), di carattere apocalittico (Lomartire, 1989, p. 111), cui concorre anche la presenza dei due serafini scolpiti alla base dell’ambone, dei simboli degli evangelisti ai lati del Cristo, e della serie degli apostoli nelle nicchie, secondo un immediato precedente identificabile nelle sculture entro nicchie di Giovanni da Campione sul protiro meridionale di S. Maria Maggiore a Bergamo. A iconografie originali M. ricorse anche per la personificazione dei Mesi, presenti nelle lesene della cassa, nella zona sinistra dell’ordine inferiore, solo in piccola parte riconducibili a modelli diffusi in area padana tra romanico e gotico. Nell’assetto originario ipotizzabile, dunque, dovevano trovare posto, sui fianchi e sulla fronte della struttura, la visione apocalittica di Cristo nel consesso degli apostoli, immagine della Chiesa trionfante nell’ultimo giorno, inquadrata da figure di santi, simboli della Chiesa militante; sul retro, la lastra con l’incoronazione di un imperatore con la corona ferrea a opera dell’arciprete del duomo di Monza con gli attributi vescovili, letta come l’Incoronazione di Venceslao di Lussemburgo, di dubbia attribuzione a M. (ma si veda Lomartire, 1992, pp. 162-167), affiancata dalla raffigurazione schematica del Tesoro monzese e da Virtù, allusione alle qualità cui dovevano ispirarsi i regnanti per esercitare il potere secondo ideali cristiani. Nel suo insieme la cassa del pulpito poteva essere letta anche come manifestazione della convergenza verso lo stesso fine, cioè la salvezza, dell’azione delle due grandi istituzioni in cui si riconosceva l’ordine costituito della società medievale, la Chiesa e l’Impero, la cui compatibilità era sentita come un riflesso della perfezione dell’ordo divino, di cui facevano parte, accanto agli oratores e ai bellatores, anche i laboratores, le cui attività ritornano nella raffigurazione dei Mesi (Vergani, p. 22).
Il complesso scultoreo del pulpito, caratterizzato da una sostenuta articolazione plastica delle figure, da un vivace apparato ornamentale, completato da integrazioni cromatiche, è il risultato di un’interazione di motivi decorativi desunti da numerose fonti; confronti puntuali sono stati fatti con l’arca di Cansignorio Della Scala a Verona, con il protiro meridionale di S. Stefano e Valentina Visconti in S. Eustorgio a Milano (Lomartire, 1988, p. 178).
L’opera più impegnativa di M. nel duomo di Monza fu la fiorita facciata marmorea, un esempio assai indicativo dell’architettura campionese del Trecento lombardo, che pone però un notevole problema critico, scaturito dalle sue complesse vicende di interventi di ristrutturazione, trasformazione e ripristino, tra cui l’erezione del protiro cinquecentesco (con leoni stilofori di reimpiego) e il restauro cominciato a fine Ottocento, al quale si deve la ricostruzione dei tabernacoli cuspidati al sommo dei contrafforti e, soprattutto, la sostituzione dell’intero paramento lapideo originario, con la conseguente scomparsa delle tracce di discontinuità del tessuto murario che potevano segnalare le vicende costruttive e dunque l’apporto di Matteo. La facciata appartenente alla prima fase costruttiva dell’edificio, fondato nel 1300, fu ampliata da tre a cinque campi e completata in elevato, in seguito all’allargamento della pianta deciso alla metà del secolo con la costruzione di due serie di cappelle lungo i fianchi, ed è riconoscibile in un nucleo originario tripartito leggibile sino a circa il margine inferiore del rosone, nel quale si apre il grande portale a strombi molteplici con la lunetta figurata esaltante l’appartenenza del Tesoro alla basilica. M., che i Visconti incaricarono di trasformare in un grandioso complesso la semplice e nitida struttura originaria (caratterizzata dal rivestimento murario a fasce bicrome, con finestre laterali aperte «a cielo» nel registro superiore e pochi effetti decorativi affidati al solo linguaggio dell’architettura, a eccezione dei capitelli e di alcuni elementi delle finestre), si dedicò soprattutto all’apparato scultoreo, isolando le singole componenti funzionali dell’architettura, evidenziandole con sontuose cornici e arricchendole, secondo modelli reperibili nella cultura figurativa trecentesca tra Umbria e Toscana, dalla facciata del duomo di Orvieto a varie chiese tra Pisa e Carrara.
Nell’ornamentazione esuberante e composita, memore di coeve esperienze lombarde e, nella riorganizzazione del rosone, toscane (Romanini, 1964, pp. 338 s.; Lomartire, 1989, pp. 104-108), nonché nella predilezione per la tecnica del traforo, in cui l’effetto del contrasto è accentuato dalla collocazione sul fondo di lastre di pietra scura, si ritrova la stessa cifra stilistica espressiva del pulpito, dal quale vengono ripresi singoli motivi decorativi riproposti nelle bifore come nella grande rosa del campo centrale, con sedici colonnine, riquadrata da una serie di formelle contenenti protomi barbute alternate a protomi leonine e a motivi ornamentali. Pur condizionato dalla preesistenza del paramento a fasce bicrome, M. concepì le componenti dell’apparato decorativo singolarmente e svincolate dal condizionamento della parete ed esaltò la funzione scenografica della facciata, in base ai principî retorici della varietas e della amplificatio. Il profilo superiore della fronte fu sottolineato per mezzo di fasce a polilobi traforati rette da una cornice ad archetti pure a traforo su colonnine pensili e concluse all’estradosso da una cresta di foglie rampanti. Alla sommità dei contrafforti furono montate edicolette gugliate entro le quali erano poste statue di santi, delle quali si conserva solo quella, massiccia e ieratica, di S. Gregorio Magno, rimasta nella sede originaria.
La facciata predisposta da M., strutturalmente e stilisticamente slegata dal corpo delle navate, costituisce una sorta di imponente paravento, assumendo una valenza più scultorea che strutturale, caratteristica che viene assegnata all’intera produzione dei campionesi, i quali «concepiscono l’architettura come scultura di proporzioni monumentali» (Romanini, 1964, p. 339). Anche qui, come nel pulpito, M. si mostra in bilico tra continuità e innovazione, come dimostra la compresenza di caratteri propri della più schietta e a tratti arcaica tradizione campionese con altri allineati sulle più recenti esperienze sviluppate in Lombardia dalle maestranze toscane o addirittura avviati verso una precoce formulazione di stilemi gotico internazionali.
Le invenzioni di M. sul fronte di S. Giovanni, dunque «ottimo esempio di un tipo di architettura toscaneggiante che in Lombardia fiorisce a partire circa dalla metà del Trecento» (ibid., p. 336), ebbero immediata eco nella stessa Monza sulla facciata di S. Maria in Strada e a Milano su quella di S. Marco.
In considerazione della rinuncia all’incarico offertogli in data posteriore al 10 luglio 1390 dal Collegio dei fabbricieri del duomo di Milano di assumere la direzione del cantiere dopo la morte di Marco Frisoni (Sanvito, 1991), data anche la mole delle opere poste sotto la sua responsabilità, è plausibile che l’impegno a Monza lo abbia assorbito completamente fino agli ultimi anni della sua vita.
M. morì a Monza il 24 maggio 1396, come attesta la citata epigrafe del duomo.
Fonti e Bibl.: A. Merati, Alla ricerca dei resti dello scomparso battistero monzese di M. da C., in Arte lombarda, VIII (1963), pp. 155-158; A.M. Romanini, L’architettura gotica in Lombardia, Milano 1964, pp. 141-145, 335-339; A. Merati, Il duomo di Monza e il suo Tesoro, Monza 1982, pp. 191 s.; L. Giordano, Il duomo di Monza e l’arte dall’età viscontea al Cinquecento, in Storia di Monza e della Brianza, IV, 2, Milano 1984, pp. 296-451; S. Lomartire, «Ille magnus edificator devotus». La personalità di M. da C., in Monza anno 1300. La basilica di S. Giovanni Battista e la sua facciata, a cura di R. Cassanelli, Monza 1988, pp. 72-86; R. Cassanelli, L’architettura. La basilica dal VI al XIX secolo, in Monza. Il duomo nella storia e nell’arte, a cura di R. Conti, Milano 1989, pp. 45-70; S. Lomartire, Scultura gotica, ibid., pp. 87-122; P. Sanvito, M. da C. ed altri architetti campionesi nelle fonti e menzioni documentarie milanesi, in Monza: la cappella di Teodelinda nel duomo, a cura di R. Cassanelli, Milano 1991, pp. 39-41; R.P. Novello, in Niveo de Marmore (catal., Sarzana), a cura di E. Castelnuovo, Genova 1992, pp. 320 s.; S. Lomartire, Il duomo di Monza e M. da C., in I maestri campionesi, a cura di R. Bossaglia - G.A. Dell’Acqua, Bergamo 1992, pp. 145-171; D. Ricci, Monza, in Enc. dell’arte medievale, VIII, Roma 1997, pp. 553-555; G.A. Vergani, «Per rerum visibilium … in rerum invisibilium»: alcune osservazioni sui programmi figurativi di M. da C. nel duomo di Monza, in Ille magnus edificator. M. da C. e il duomo di Monza (catal.), a cura di R. Cassanelli - R. Conti, Cinisello Balsamo 1999, pp. 16-27.