FRESCOBALDI, Matteo
Figlio del poeta stilnovista Dino e di una Giovanna poi ritiratasi a vita monacale, nacque a Firenze intorno al 1297. Suo fratello Lambertuccio, che aveva lo stesso nome del nonno banchiere e fu, in gioventù, poeta, nacque presumibilmente l'anno successivo. Le date di nascita sono desunte da due atti notarili rispettivamente dell'8 aprile e del 12 maggio 1316, i primi documenti in cui i due fratelli siano nominati. Nel primo, il F. concede a Lambertuccio un mutuo di 500 fiorini a sei mesi, nel secondo accade l'opposto. Si tratta evidentemente di un contratto simulato, le cui finalità d'interesse si possono soltanto supporre e che vede i contraenti agire senza tutori: i due fratelli erano quindi già maggiorenni. Dino ebbe anche un terzo figlio, illegittimo, di nome Francesco.
Il F., a detta del mercante Donato Velluti che era un suo congiunto e lo ritrasse nella sua Cronica domestica (pp. 93 s.), fu uomo di statura normale e tanto amante del gioco da essere costretto talvolta a impegnare o vendere i propri bellissimi abiti e a vestire poveramente. Non prese moglie ma ebbe una figlia, Piera, che alla morte del padre lavorò per un periodo come domestica presso lo zio Niccolò Frescobaldi. Secondo il Velluti, il F. sarebbe morto nella peste del 1348 "d'età di quarant'anni o più" (p. 94). La sua data di nascita potrebbe dunque essere spostata attorno al 1305-08, ma il contrasto con la data deducibile dai documenti è alquanto attenuato dal carattere puramente indicativo del dato offerto dalla Cronica, opera, tra l'altro, scritta dal Velluti a memoria e a distanza di tempo dai fatti narrati (1367-70).
Il F. non partecipò attivamente alla vita politica di Firenze e non si hanno notizie di sue attività economiche. Dovette essere invece abbastanza nota la sua pratica poetica, visto che la prima notizia che rompe il silenzio documentario su di lui è quella di una corrispondenza che il poeta Adriano de' Rossi volle allacciare con lui inviandogli, nel 1333, tre sonetti di proposta a commento del diluvio che il 4 novembre di quell'anno ruppe tutti i ponti di Firenze tranne quello di Rubaconte. Le eventuali risposte del F., però, non ci sono pervenute. L'anno seguente venne fermato dalla milizia del podestà e multato per possesso di armi, fatto di per sé non molto significativo ma da collegare, forse, alle faide in corso tra la sua famiglia e quelle dei Bostichi, degli Adimari e dei Conti di Pontormo. All'incirca nello stesso periodo, Dino, figlio di suo fratello Lambertuccio, fu gravemente ferito in un agguato dai Bostichi, che intendevano così vendicarsi dell'omicidio di un loro congiunto compiuto da Tommaso di Lippaccio Frescobaldi. Anni più tardi la famiglia del F. venne coinvolta in un drammatico episodio politico. Il capitano di Guerra Giacomo Gabrielli da Gubbio tentò di trasformare la propria carica in una signoria personale con l'appoggio del popolo grasso più influente e con una pratica di potere dispotica e crudele. Ciò provocò una violenta reazione dei magnati che, guidati da Andrea de' Bardi, Iacopo e Bardo Frescobaldi, scesero in piazza armati il 1° nov. 1340. La disorganizzazione fece fallire la congiura e chi vi partecipò fu costretto all'esilio. Il F., poiché non vi aveva preso parte, poté rimanere a Firenze, dove però scrisse due canzoni in cui lamentò la decadenza politica della città. Gli esiliati tornarono in patria per concessione del duca d'Atene, la cui breve signoria (1342-43) vide il F. partecipare al suo unico atto pubblico notevole, dopo che i documenti ne avevano registrato la presenza soltanto in atti privati, segnatamente riguardanti sua cognata Lisa. L'atto in questione è la pace tra la sua famiglia e quella dei Bostichi, una delle tante che il duca riuscì a far stipulare alle famiglie magnatizie nel tentativo di pacificare i contrasti interni. Il F. non partecipò alla pace vera e propria del 27 sett. 1342, ma alle sue ratifiche del giorno seguente e del 3 ottobre (a quest'ultima presenziò anche il cancelliere e poeta Ventura Monachi). Degli ultimi anni di vita si hanno notizie solo dai protocolli notarili che lo vedono in veste di mallevadore o di testimone, cosicché l'avvenimento più degno di nota è la stesura del testamento, che egli dettò il 13 giugno 1348, nell'imminenza della morte, a favore delle nipoti Giovanna e Maffia. Donato Velluti, che fu uno degli esecutori testamentari, riferisce che il patrimonio lasciato dal F. e dal fratello ammontava alla considerevole somma di 2.500 fiorini.
L'identificazione tra il F. descritto dal Velluti e l'autore delle rime proposta dal Debenedetti non si basa - come ha dimostrato il Li Gotti - su argomenti inconfutabili, ma rimane tuttavia la più plausibile. Sembrerebbe argomento a sfavore il silenzio del Velluti sull'attività poetica del F., a fronte della menzione di quella di suo zio Giovanni; l'argomento però s'indebolisce se ricordiamo che neanche il padre Dino è ricordato dal Velluti come rimatore.
Spiccano nella sua produzione le due canzoni politiche ricordate: "Cara Fiorenza mia, se l'alto Iddio" e la sua ironica palinodia per le rime "Molto m'allegro di Firenze or io", datate attorno al 1340 dal Corsi (pp. 77 s.). Le canzoni, però, non offrono alcun elemento cronachistico, esibendo piuttosto un dettato retoricamente eloquente che ricalca ora le rime civili di Guittone d'Arezzo e dei suoi seguaci, ora i motivi polemici della Commedia dantesca o della Cronica di Giovanni Villani, quali il rimpianto per Firenze antica e le accuse ai nuovi venuti dal contado. La ballata "Vostra gentil melizia", che invita i reggitori della città a seguire saggiamente le quattro virtù cardinali, fu probabilmente indirizzata al governo misto di magnati e di popolani grassi insediatosi dopo la cacciata da Firenze del duca d'Atene nel 1343 (come suggerito dal Corsi, pp. 78 s.). Benché la complicata e contraddittoria tradizione manoscritta sia più concorde nel dare al F. la paternità delle rime politiche, maggior fama critica il poeta ha ricavato dalle rime d'amore, la cui attribuzione è tutt'altro che certa. Sulla sua immagine di epigono stilnovista ha di certo influito la figura del più noto padre, Dino, che a sua volta è stata magnificata di riflesso dall'epigonismo del figlio, benché nei pochi componimenti amorosi attribuibili con una certa sicurezza al F., più che il filone cavalcantiano e dantesco seguito da Dino, si rilevi piuttosto una leggerezza aggraziata e musicale e una sensibilità al dato puramente visivo e coloristico che fanno pensare a Lapo Gianni. A Cino da Pistoia il F. è debitore, oltre, forse, che per il tono medio della lingua, anche per il suo tema meno canonico, quello dell'amore per la donna vedova, "l'onesta bellezza / che sotto nero manto chiara luce" ("Com più riguardo", vv. 2-3), salvo poi tornare a Dino per constatare che da una sua canzone, "Per gir verso la spera, la fenice" il F. mutua lo schema metrico delle canzoni a Firenze.
Piuttosto tormentata è la storia editoriale dell'opera del F.: nel 1866 il Carducci pubblicò una raccolta di 54 componimenti, senz'altra distinzione fra autentici e dubbi se non un asterisco premesso a questi ultimi. Un lavoro di più sottile crivello è stato compiuto dal Debenedetti che ha sicuramente attribuito al F. le rime politiche e ha sfoltito il numero delle rime d'amore. Uno studio rigoroso del Li Gotti ha ulteriormente ridimensionato il canzoniere del F. aggiungendo alle rime politiche conservate nei codd. Magliab. II, 40 (Firenze, Bibl. naz.) e Vat. lat. 3213 (Biblioteca apost. Vaticana) soltanto otto sonetti del cod. Redi 184 (Firenze, Bibl. Laurenziana), due dei quali indirizzati a un don Bonifazio prete di S. Trinita e due a Neri del Ricco. La restrizione del Li Gotti, che elimina dal canzoniere tutti i componimenti che abbiano una sola attestazione è stata oggetto di pareri contrastanti da parte della critica più recente (Sapegno, Corsi). G.R. Ambrogio, nella sua edizione critica (che segna un momento importante nella storia delle edizioni moderne dell'opera del F.) ha pubblicato tutte le 54 poesie dell'edizione Carducci. Con maglie più larghe rispetto al Corsi, ha attribuito al F. 4 canzoni (le due politiche più altre due d'amore contenute nel solo cod. Magliab. VII, 993), 11 sonetti (gli otto del Redi più uno tramandato dal cod. Barberiniano lat. 3679 della Biblioteca apost. Vaticana e due dal Vat. lat. 3213), e 9 ballate (Vostra gentil melizia e altre otto d'argomento amoroso), considerando dubbi 14 componimenti (tra questi Donna gentil) e solo 16 "di improbabile attribuzione".
Edizioni: Rime, a cura di G.R. Ambrogio, Firenze 1996. Per le edizioni apparse tra la metà e la fine dell'Ottocento: F. Zambrini, Le opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV, Bologna 1884, pp. 442 s. e S. Morpurgo, Le opere volgari… Supplemento…, Bologna 1929, ad Ind. Tra esse si ricorda quella curata da G. Carducci, Rime di M. di Dino F. ora nuovamente raccolte e riscontrate sui codici, Pistoia 1866; due antologie in cui lo stesso Carducci incluse rime che attribuiva al F.: Cantilene e ballate dei secc. XIII e XIV, Pisa 1871, pp. 90-101 e Antica lirica italiana, Firenze 1907, coll. 87, 325-327. Nel Novecento l'opera del F. è stata edita da N. Sapegno in Poeti minori del Trecento, Milano-Napoli 1952, pp. 28-38 (nota critica a p. 1140); si veda anche la raccolta curata da G. Corsi, Rimatori del Trecento, Torino 1969, pp. 88-105, il cui testo è stato corretto da F. Brambilla Ageno, Osservazioni sul testo di poeti minori del Trecento, in Romance philology, XXXI (1977), pp. 96-110.
Fonti e Bibl.: S. Debenedetti, M. F. e la sua famiglia, in Giorn. stor. della lett. italiana, XLIX (1907), pp. 314-342 (con ampie citazioni dalle fonti, anche in appendice); D. Velluti, Cronica domestica, a cura di I. Del Lungo - G. Volpi, Firenze 1914, pp. 93-95 (tav. III: genealogia dei Frescobaldi); G.M. Crescimbeni, Comentarj intorno all'istoria della volgar poesia, II, pt. II, libro III, Venezia 1730, p. 138; F. Flamini, La lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi del Magnifico, Pisa 1891, p. 696; Dieci sonetti storici fiorentini, a cura di S. Morpurgo, per nozze Morpurgo - Levi, Firenze 1893, pp. 6, 14-16 (contiene i tre sonetti di A. de' Rossi al F., poi anche in E. Levi, Adriano de' Rossi, in Giorn. stor. della lett. it., LV [1910], p. 205); F. Flamini, Studi di storia letteraria, Livorno 1895, pp. 14-16, 18; V. Cian, Storia dei generi letterari ital. La satira, I, Milano 1923, pp. 228 s.; G. Volpi, Il Trecento, Milano s.d., p. 259; E. Li Gotti, Le rime di M. F., in Restauri trecenteschi, Palermo 1947, pp. 116-139; B. Croce, Poesia popolare e poesia d'arte, Bari 1967, p. 126; N. Sapegno, Il Trecento, Milano 1973, pp. 56 s., 66 s., 416; G. Petrocchi, Cultura e poesia del Trecento, in Storia della lett. italiana (Garzanti), Il Trecento, Milano 1987, pp. 697 s., 726; per i non comprovati rapporti del F. con G. Boccaccio: V. Branca, G. Boccaccio. Profilo biografico, Firenze 1977, pp. 49, 64, 69, 78. Interessanti seppur rapide notazioni critiche in G. Gorni, Il nodo della lingua e il verbo d'amore, Firenze 1981, p. 105; D. Frescobaldi, Canzoni e sonetti, a cura di F. Brugnolo, Torino 1984, pp. XIII, 28; più ampi gli interventi di A. Balduino, Boccaccio, Petrarca e altri poeti del Trecento, Firenze 1984, ad Ind. e di V. Dornetti, in Aspetti e figure della poesia minore trecentesca, Padova 1984, pp. 154-156.