GRIBALDI MOFFA, Matteo
Nacque a Chieri ai primi del Cinquecento, secondogenito di Giovanni e di Maria dei marchesi di Ceva. Discendente da una famiglia patrizia imparentata con le casate dei Broglia e dei Benso titolari ab antiquo del feudo di Santena, il G. acquistò già prima del 1535 il castello di Farges, nel Comune di Gex, passato l'anno dopo dal Ducato di Savoia alla protestante Repubblica di Berna. Di qui il titolo di "dominus Fargiarum" o "sieur de Farges" che costantemente gli fu attribuito, e di qui anche la sua soggezione alla Repubblica, attestata dalla confessione di fede fatta a Berna nel 1557 (Corpus reformatorum, XLIV, Brunsvigae 1877, col. 638), che gli consentì di trovarvi sicuro rifugio, a breve distanza da Ginevra.
Infondate le notizie circa un suo insegnamento del diritto civile a Chieri e a Pisa, così come incerta è la sua presenza nello Studio di Perugia nel 1540, anno in cui il G. accettò la condotta conferitagli a Valence nel Delfinato (da Valence è datata la prefazione della sua opera principale, i De methodo ac ratione studendi libri tres, Lugduni, apud A. Vincentium, 1541). Sei anni prima, secondo la sua stessa testimonianza, aveva insegnato a Tolosa. Incerto è un insegnamento a Cahors, inesistente uno a Pavia, mentre ampiamente testimoniata è la sua presenza nell'Università di Grenoble. La condotta fu stipulata il 21 febbr. 1543, per un anno, con lo stipendio di 300 scudi d'oro: l'insegnamento cominciò il 3 aprile successivo e proseguì con tanta soddisfazione generale, che il 17 marzo 1544 il G. fu ricondotto per un anno, e lo stipendio gli fu aumentato di 20 scudi. Con tutto ciò, nel 1545 egli abbandonò Grenoble, a quanto pare per le difficoltà finanziarie in cui la città si trovava. Ma il G. mantenne negli anni buoni rapporti, tanto che ancora nel 1548 fu interpellato intorno ai lettori italiani da assumere, e fu ripetutamente invitato a tornare, come in effetti avvenne fra il 1559 e il 1560.
Il 22 marzo 1548 il G. fu chiamato a Padova, con tutta probabilità dopo avere retto una podestaria ad Asti (Arch. di Stato di Torino, Carte Biscaretti, m. 47, M.M., cc. 117 ss.). A Padova il G. si trattenne per sette anni, fino al 1555, quando fu costretto ad allontanarsi a motivo del diffuso sospetto verso le sue idee religiose. Il suo passaggio alla Riforma deve porsi dopo il 1543, anno in cui a Grenoble risulta che assisteva ancora alla messa. A Padova il G. fu in contatto con gli ambienti riformati principalmente per mezzo degli studenti tedeschi che si affollavano intorno alla sua cattedra e ad alcuni dei quali, come Basilio Amerbach, egli dava ospitalità secondo le consuetudini universitarie del tempo. Una lettera di A. Osiander al padre di Basilio, Bonifacio Amerbach, nel 1553 descrive in modo colorito l'ambiente familiare del G., che ospitava gli studenti tedeschi a più caro prezzo che gli italiani, dispensando con grande parsimonia cibo e bevande in una casa disertata dalla moglie e dai figli, scomoda, umida nell'inverno e calda d'estate, e che soprattutto faceva mancare la conversazione dotta e non si esprimeva né in italiano né in latino, ma nel suo vernacolo.
A Padova il G. si legò in stretta amicizia con Pietro Paolo Vergerio e venne coinvolto nel processo intentato contro di lui in relazione al caso di F. Spiera, del quale lo stesso G. risultò assiduo frequentatore. Il Vergerio abbandonò Padova e l'Italia nel 1549, dopo la morte dello Spiera, curando di divulgarne la storia con un'Apologia, stampata a Basilea nel 1550 e corredata, oltre che da scritti di Giovanni Calvino e di Celio Secondo Curione, da un'Epistola dello stesso Gribaldi. Il G. rimase invece a Padova, dissimulando, per quanto gli riuscì possibile, la sua eterodossia. Doveva essere già allora in relazioni epistolari, e forse anche personali, con Calvino, prima ancora che l'episodio dello Spiera li accomunasse nel commemorarlo. Fu infatti il G. a raccomandare a Calvino l'esule Vergerio con una lettera del 1549; e a Ginevra, dal vicino castello di Farges, il G. doveva recarsi spesso, quando gli impegni patavini non lo assorbivano (dalla corrispondenza con il Curione sappiamo che vi era nel 1552, da quella con il Vergerio che l'anno prima si trovava a Berna).
A Ginevra il G. si trovava anche nel 1553 nel momento culminante della tragedia di Michele Serveto. Al G. allude infatti Sebastiano Castellione, quando nel Contra libellum Calvini scrive di un "Italus quidam, i[uris]c[onsul]tus celebris", che, prendendo le difese di Serveto, asserì che nessuno poteva essere condannato per le sue opinioni erronee nella fede. Calvino rifiutò allora un colloquio con il G., al quale non restò che tornarsene a Padova, non senza avere relazionato sull'accaduto ai suoi amici del circolo antitrinitario di Vicenza. In ogni caso il G. fu il primo che osò, a Ginevra, esprimere di persona allo stesso Calvino un'aperta critica sul processo intentato a Serveto e sulla condanna capitale. Fu il primo scontro fra Calvino e gli antitrinitari italiani: da allora non c'è insinuazione o esplicita professione di antitrinitarismo da parte di italiani che non risulti legata alla critica del procedimento contro Serveto. Il G. prese parte, sia pure solo come ispiratore, alle polemiche seguite alla condanna in seno al mondo riformato, tenendo contatti stretti con Lelio Socini e intervenendo poi direttamente nella controversia teologica durante un suo soggiorno ginevrino del 1554. Nel settembre di quell'anno assistette a Ginevra all'adunanza della congregazione generale della Chiesa italiana e fu sollecitato a intervenire sulla questione trinitaria, come risulta da una sua epistola ai connazionali residenti a Ginevra che riassume il contenuto della disputa e promette, una volta tornato a Padova, una più diffusa esposizione. Era a Padova il 19 ott. 1554, insieme con la famiglia - la moglie e i sette figli -, che aveva portato con sé da Torino: qui si trovò presto soggetto ai sospetti dell'Inquisizione e alle pressioni dei reggitori veneti, che lo posero infine davanti all'alternativa tra ricredersi dalla condotta sospetta o lasciare lo Studio. Il G. abbandonò la città il 22 apr. 1555, non sentendosi più sicuro "ob monachorum insidias", come narra una lettera di Basilio Amerbach al padre (Trechsel, p. 57 n. 4).
Per diretta intercessione di Bonifacio Amerbach il G. fu chiamato a Tubinga presso il duca Cristoforo del Württemberg come insegnante di diritto civile, con lo stipendio di 400 fiorini d'oro e circondato da amplissimo consenso e fama della sua dottrina, attestati dallo stesso Melantone. Prima di prendere possesso del nuovo incarico il G. passò dal castello di Farges e da Ginevra, dove Calvino lo chiamò a un drammatico colloquio. L'episodio, celebre per numerose relazioni datene dai biografi di Calvino e dallo stesso riformatore, ebbe luogo il 29 giugno davanti alla Compagnia dei pastori, i cui registri recano la succinta ma viva testimonianza dello scontro: Calvino si rifiutò di stringere la mano portagli dal G. se prima non si fossero risolte le divergenze dottrinali; per tutta risposta il G. se ne andò senza pronunciare parola. Convocato poco dopo dinanzi al Consiglio cittadino, fu bandito dalla città, avendo salva la vita forse solo in ragione della sua soggezione a Berna. Cominciò però allora una strenua persecuzione, fatta di invettive e denunce, indirizzate da Calvino e da Th. de Bèze agli ambienti politici e accademici nei quali operava il Gribaldi. Tutti questi attacchi crearono un clima di sospetto e ostilità e sulla via del ritorno a Farges nel 1557, a Berna il G. fu ferito a coltellate da un attentatore. Rientrato a Tubinga, fu messo alle strette dalle rinnovate accuse dei suoi nemici, alimentate ora anche dal Vergerio, e chiamato a discolparsi davanti al duca. Preferì rifugiarsi a Farges, mentre il duca trasmise alla Signoria di Berna una relazione sull'accaduto e una serie di carte compromettenti per il Gribaldi. Questi non cessò, da Farges, di difendersi e di propagandare le sue idee, finché il balivo di Gex non intentò contro di lui un procedimento sommario.
Mandato prigioniero a Berna e lì giudicato da N. Zurkinden in modo equanime, fu rilasciato a patto che rientrasse a Tubinga per rispondere della sua fuga. Ma, una volta libero, il G. supplicò la Signoria di Berna di essere esaminato e giudicato davanti ai predicatori bernesi, per non vedersi costretto a darsi nelle mani dei cattolici con la sua famiglia. Il G. fu così costretto, su persuasione dello Zurkinden, a firmare un'umiliante confessione di fede; fu inoltre bandito dal territorio della Repubblica e non poté così rientrare nel suo dominio di Farges. Rifugiatosi a Friburgo in Svizzera, mortagli la moglie ai primi del 1558, chiese e ottenne un salvacondotto per sé e per i figli, e poté rientrare a Farges a condizione che cessasse ogni attività di propaganda delle sue idee. Considerato ormai generalmente il caposcuola dell'antitrinitarismo italiano ed europeo, il G. visse i suoi ultimi anni in continuo pericolo tra l'Università di Grenoble e il castello di Farges.
Chiamato ancora a insegnare a Grenoble con una condotta del 4 ag. 1559, per tre anni e con lo stipendio di 1000 lire tornesi, il G. fu collega e competitore di António de Gouveia, propugnatore del cosiddetto mos Gallicus in opposizione alla tradizione italiana. Nel 1560 un ordine del duca Francesco di Guisa, governatore del Delfinato in nome del re, impose però alla Municipalità di Grenoble di licenziare il G. perché mal pensante in fatto di religione, sotto minaccia di sopprimere l'Università.
Dopo il licenziamento, vanamente ostacolato dalla città, non si ha più notizia del G., che morì di peste a Farges nel 1564, pochi mesi dopo la scomparsa di Calvino.
Il giudizio sul G. eretico non può essere separato da quello sul suo insegnamento del diritto. Egli fu partecipe di quella corrente di giuristi italiani che, nella seconda metà del secolo XVI, si fecero difensori della tradizione giusdottrinale e abbracciarono nel contempo idee eterodosse in ambito politico-religioso.
In campo giuridico fu sostenitore di una concordantia fra esigenze di conservazione ed esigenze di rinnovamento del metodo degli studi e della scienza del diritto. Nel De methodo, fu tra i primi a formulare il programma che ancora oggi si è soliti sintetizzare nella formula "ius in artem redigere", cioè nella riduzione del diritto civile a scienza compendiosa e metodica, in anticipo su Louis Le Caron (De restituenda et in artem redigenda iurisprudentia, Parisiis 1553) e soprattutto su Jean de Coras, giureconsulto di formazione patavina, attivo, come il G., a Tolosa, e autore di quel De iuris arte libellus o De iure civili in artem redigendo (Lugduni 1560), che è considerato il manifesto delle istanze di rinnovamento dispositivo dell'umanesimo giuridico. E non diverso è il caso di François Douaren che nel De discendi docendique iuris ratione, di appena tre anni successivo al De methodo, sembra ripeterne il programma, appellandosi alla ricerca dei theoremata universalia, che sono una derivazione dagli axiomata iuris del Gribaldi.
La difesa, attuata nel De methodo, del mos Italicus, inteso come abito eminentemente dialettico e speculativo, lontano per sua natura da intenti compilatori, è espressione di un razionalismo che si basa sull'intrinseca concordanza fra principî filosofici e assiomi giuridici, "concordia Aristotelis et Corporis iuris". Ad Aristotele rinvia la premessa metodologica, "Omnem disciplinam generalibus constare praeceptis, quae ignorare non licet" (I, 3), secondo la quale ogni investigazione scientifica deve derivare direttamente da precetti generali per sé noti e non revocabili in dubbio, necessari alla conoscenza del particolare. La costruzione dello ius civile come scienza compendiosa comincia con la compilazione di un catalogo di principî generali, disposti alfabeticamente per evidenti finalità di memorizzazione, senza i quali nessuno ardirebbe "de iure palam consulere vel respondere". Segue un'ulteriore precisazione in tema di metodo, introdotta dal precetto "Causas et rationes in omni disciplina diligenter prevestigandas", seguita da altre cento regole, sempre in ordine d'alfabeto.
A questo secondo elenco segue un'esposizione degli elementi primi del metodo dialettico, introdotti dalle massime "Per rationes dubitandi et decidendi legum sensa elicienda" e "Per contraria et oppositiones veritatem melius inveniri" (I, 5-6, cc. 14r, 15v). Le regole, estratte dalla lettera così come dal significato più riposto delle norme e ulteriormente esplicitate in una terza centuria, precedono il richiamo al canone per cui la retta interpretazione non consiste nell'affastellare opinioni, ma nell'indagare la mens del legislatore. Seguono quindi i capitoli più noti e frequentati del De methodo, nei quali il G. esalta l'utilità dell'assidua disputatio e raccomanda agli scolari di dedicarsi alla lettura di "paucos et idoneos auctores" (che sono poi la scuola bartoliana).
La denuncia dell'ignoranza della storia e degli errores maiorum è impietosa; altissimo è l'elogio della filologia umanistica e dei suoi cultori giuristi, "viri immortalitate digni"; esplicita l'intenzione di lavorare ancora su di un così vasto campo. Il G. insiste a lungo sulla necessità stretta di un fondamento storico-filologico dell'interpretazione, e dunque sull'urgenza di una profonda revisione critica della giurisprudenza giustinianea (I, 16, c. 38r). Con il Valla il G. ripete che sine Latinitate "caeca omnis doctrina est, et illiberalis, praesertim in iure civili" (I, 21, c. 60r).
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