IMBRIANI, Matteo
Nacque a Roccabascerana, presso Avellino (ma diocesi di Benevento), il 6 sett. 1783 da Giuseppe e da Lucrezia Capone di Torrenova Fossaceca. La famiglia di proprietari terrieri, anticamente denominata Umbriani, conosceva la propria genealogia dal secolo XVI (Coppola, 1963, p. 355) e possedeva un "comodo patrimonio". Per la sua educazione l'I. fu mandato a Napoli, nel collegio detto dei Cinesi (il futuro Istituto orientale), dove fu condiscepolo di C. Troya e ricevette una buona formazione umanistica, che in seguito arricchì con studi di storia, lingue, scienze e specialmente filosofia: sembra che il filosofo che plasmò il suo pensiero sia stato J. Locke, mentre come guida di vita abbracciò le teorie stoiche. Con particolare attenzione studiò poi le strutture costituzionali di vari tempi e paesi, traendone conclusioni che formeranno la base della sua attività politica.
Nel 1806 l'I. sposò Caterina De Falco, di una ricca famiglia di Pomigliano d'Arco, che gli portò in dote anche la "casa palazziata" di Pomigliano, che con quelle di Roccabascerana e San Martino Valle Caudina fu la principale dimora della famiglia dalla primavera all'autunno (per l'inverno fu preso un appartamento in affitto a Napoli). La coppia ebbe solo due figli: Paolo Emilio e Rosa.
Sebbene la famiglia, quando fu in esilio, nel tentativo di ottenergli la grazia sostenesse che mai era stato iscritto ad alcuna setta, è quasi certo che in gioventù appartenne alla carboneria irpina: in Valle Caudina esistettero infatti ben 192 "vendite", e quella di Roccabascerana (denominata I seguaci di Jacopo Ortis) non fu tra le meno attive. Fino al 1814 l'I. si occupò delle proprietà di famiglia e dell'amministrazione, già tenuta dal padre, dei beni del principe di Sepino (Pignatelli della Leonessa); in quell'anno Gioacchino Murat lo nominò consigliere generale del Principato Ultra, carica che resse fino al 1818, quando sembra che partecipasse agli avvenimenti che agitarono l'Irpinia in quell'anno e alle "cinque giornate di Avellino" del 1820. Fu eletto (contro la sua volontà, si disse) al Parlamento nazionale delle Due Sicilie come deputato del Principato Ultra nella classe III (proprietari).
Il 1° ott. 1820 fece parte della deputazione che ricevette solennemente la famiglia reale in Parlamento per il giuramento del re, e il giorno seguente, quando vennero formate le commissioni, fu addetto alla VII (Esame e tutela della Costituzione); in seguito fece parte di quella sulle Amministrazioni provinciali e fu membro delle deputazioni per le Leggi di abolizione della feudalità, per la Divisione dei demani della Sicilia oltre il Faro e per l'Organizzazione della guardia nazionale; inoltre intervenne alla presentazione al reggente delle dichiarazioni del Parlamento in merito alle deliberazioni del Congresso di Lubiana. Fra i suoi principali interventi in aula si ricordano quello del 14 ottobre sui cimiteri fuori dalle mura, quello per la compilazione di relazioni delle sedute da pubblicarsi nel Giornale costituzionale, quello per l'invio in Sicilia come emissari del Parlamento dei colonnelli Gabriele Pepe e P. De Luca.
Prima dei moti rivoluzionari l'I. si era avvicinato al giornalismo, partecipando alla stampa alla macchia dei fogli che venivano affissi clandestinamente e alla successiva fioritura di numerosi giornali a Napoli (quali, nel solo giugno, Il Giornale degli amici della patria, La Luce, La Voce del secolo, L'Imparziale, La Minerva napoletana). Volle allora presentarsi con una testata propria, e il 25 luglio uscì per i torchi di A. Nobile il primo numero del suo La Voce del popolo, un foglio bisettimanale che continuò le pubblicazioni fino alla chiusura del Parlamento, divenendo espressione della linea politica dell'I., che gli dedicò un impegno anche maggiore di quello profuso nell'ambito parlamentare.
La Voce del Popolo, che si fregiava del motto tacitiano "Incorruptam fidem professis sine amore quisquam et sine odio dicendus est", assunse principalmente la veste di guardiano della costituzione, e senza riguardi attaccò il governo per ogni sorta di irregolarità senza però esimersi da lucidi giudizi sull'inesperienza del Parlamento; in uno dei primi numeri scrisse: "La nostra rigenerazione è ancora bambina, e voi, Deputati, sapete bene che essa deve soffrire tutte le infermità dell'infanzia, e deve esser soggetta a tutti i deliri della gioventù". Tuttavia l'I. "non si scostò mai da una seria temperanza opposta agli impeti dei demagoghi", distinguendosi "per gentilezza e soavità di modi e per austerità di principi", che gli derivavano da "civiltà greca e parsimonia paesana" (B. Puoti, cit. in Mellusi, p. 53). Molto importante per la definizione delle teorie costituzionali dell'I. è un lungo articolo (La Voce del popolo, n. 4 del marzo 1821) dal rivoluzionario titolo "Le modificazioni da farsi alla Costituzione hanno bisogno della sanzione reale?".
Rimase al suo posto in Parlamento fino all'ultima seduta, e si ritiene che abbia fatto parte del coraggioso gruppo di 46 deputati guidati da G. Poerio che presentò la protesta del 24 marzo 1821 contro la prepotenza austriaca, anche se non figura tra i firmatari: ma non era tipo da millantare un merito illegittimo, né suo figlio lo avrebbe dichiarato, come fece, nell'epigrafe tombale del padre; d'altra parte egli fu punito dalla reazione borbonica proprio per tale fatto.
Alla chiusura del Parlamento l'I., forse grazie alla sua discrezione, non venne subito inquisito, mentre intorno infuriava violenta la reazione. Tuttavia i rapporti di polizia lo definirono "deputato del sedicente parlamento, uomo pericoloso e influente"; nell'ottobre 1823, mentre villeggiava a Pomigliano, un semplice ordine di polizia lo espulse dal Regno con un passaporto per Roma, senza alcun provvedimento giudiziario.
Partì per l'esilio conducendo con sé il figlio quindicenne, della cui educazione si occupava personalmente. A Roma lo raggiunsero la moglie e la figlia. Nel settembre 1824 Lucrezia Capone, la madre vedova, presentò al re una supplica per ottenere il rientro del figlio, adducendo la necessità che si occupasse dell'abbandonato patrimonio e suggerendo che era nell'interesse dello Stato che le sue rendite non uscissero dal Regno. La supplica venne ignorata, e anzi nel Consiglio ordinario di Stato del 16 ag. 1825 il re ordinò che l'I. fosse incluso nella III classe, fra "coloro cui era proibito rientrare mai nel reame, salvo ulteriori sovrane disposizioni". Nel 1827 l'I. passò da Roma a Firenze, dove si riunì agli amici fraterni Gabriele Pepe e P. Colletta, coltivando i suoi studi e inserendosi negli ambienti culturali fiorentini: tra l'altro fu ben accolto al Gabinetto Vieusseux, dove conobbe il Leopardi, che lo stimava. Chiese allora almeno il rientro dei familiari, con il solito pretesto che vi fosse qualcuno ad amministrare il patrimonio: il rientro fu concesso solo per la moglie e la figlia, mentre per Paolo Emilio fu necessaria una nuova supplica, che ebbe buon esito il 1° dic. 1830, solo pochi giorni prima che egli stesso venisse compreso nel largo provvedimento di amnistia del 18 dicembre. A Firenze l'I. lavorò, con interessi prevalentemente filosofici, alla compilazione di una Grammatica razionale della lingua italiana, in tre volumi manoscritti, e di un Trattato sulle sensazioni (incompleto), che però non volle pubblicare: anzi, sul letto di morte consigliò al figlio di distruggerli, cosa che questi non fece.
Rientrato a Napoli fu accolto affettuosamente dal fraterno amico B. Puoti, con il quale continuò a occuparsi dei suoi studi. Curò anche l'educazione dei figli e poi dei nipoti, poiché Paolo Emilio si era sposato (maggio 1838) con Carlotta del barone Giuseppe Poerio, non senza vivi contrasti.
Al matrimonio si era opposta la moglie dell'I., donna di paese che non voleva una nuora evoluta, colta e sfornita di dote adeguata. Le nozze furono possibili solo per l'improvvisa morte della signora (a Torre del Greco, forse di colera, il 22 dic. 1837), anche se neppure l'I. era stato inizialmente del tutto favorevole. Comunque egli, insieme con la figlia nubile, decise di vivere con gli sposi e con i nipotini Giorgio, Vittorio e Matteo Renato.
Secondo la genealogia degli Imbriani di N. Coppola l'I. morì per "reo morbo" il 29 marzo 1847 a Roccabascerana. I funerali ebbero però certamente luogo a Napoli, con commossi interventi del Puoti e di Gabriele Pepe, fatto che potrebbe creare qualche dubbio sul luogo della morte. Nonostante le vicissitudini lasciò un patrimonio "onestamente accresciuto".
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, Archivi di famiglie e di persone, Imbriani-Poerio, bb. 12 (1798-1916), con 1636 lettere; Ministero esteri, Espulsi, anni 1821 e ss., fasci 3793-3836; Affari riservati, fasci 3697-3739; Alta polizia, fascio 40 (registro dei napoletani espatriati ed esiliati); Ministero di polizia, fascio 280, incartamento 444 (supplica al re della madre dell'I., settembre 1824); Suppliche, anni 1827-31, pend. 1140, fasci 800-805; Protocolli di polizia, vol. 657; Napoli, Biblioteca nazionale, Archivio Imbriani; Roma, Residuo Archivio Imbriani-Poerio (nel 1965 presso i coniugi Attanasio-Fioretti); La Minerva napoletana, II (1821), p. 239; S. Baldacchini, Morte di M. I., Roma 1847 (è l'orazione funebre per l'I.); Id., Prose, Napoli 1873, II, pp. 349-355; Il Parlamento nazionale napoletano per gli anni 1820-21: memorie e documenti, a cura di V. Fontanarosa, Roma 1900, pp. 52, 58, 82 s.; G. Olivieri, Notizie su la vita di Gabriele Pepe, Campobasso 1904, passim; A. Mellusi, Monumento a Paolo Emilio Imbriani, in Riv. storica del Sannio, n. 1, luglio-agosto 1914, pp. 52-55 (lettera di B. Puoti a S. Betti, segretario della Pontificia Accademia di S. Luca, sull'I.), 56-60 (parte del discorso di S. Baldacchini al funerale dell'I.), 61-65 (parte del discorso del Pepe nella stessa occasione); B. Croce, Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici, Bari 1919, passim (sui Poerio); Atti del Parlamento delle Due Sicilie 1820-21, a cura di A. Alberti et al., Bologna 1926, ad ind.; N. Coppola, La famiglia di un patriota in esilio, in Irpinia, IV (1934), 1, pp. 8 ss., 377 (lapide nella cappella fatta più tardi costruire da Paolo Emilio, quando il corpo dell'I. vi fu traslato); V. Cannaviello, Gli irpini nella rivoluzione del 1820 e nella reazione, Avellino 1940, pp. 10, 20, 56 s., 65, 144, 159, 186, 376; P.A. Pellecchia, Le cinque giornate di Avellino del 1820 e i giornali napoletani tra le due costituzioni, in Giornalismo del Risorgimento, a cura del Comitato naz. per la celebrazione del I centenario dell'Unità d'Italia, Torino 1961, pp. 455, 457-460 (a p. 459 si accenna erroneamente alla condanna a morte dell'I.); N. Coppola, Vittorio Imbriani intimo…, Roma 1963, pp. 15, 20, 295, 351-355, 365-368 (a p. 355 genealogia degli Imbriani dal 1580); Carteggi di Vittorio Imbriani. Voci di esuli politici meridionali, a cura di N. Coppola, Roma 1965, pp. 11, 690; Enc. biogr. e bibliogr. "Italiana", F. Ercole, Il Risorgimento italiano, Gli uomini politici, II, p. 200.