BOIARDO, Matteo Maria
Nacque a Scandiano, castello del Reggiano, quando il Sole appariva nella costellazione dei Gemelli (son. 78), quindi fra il 21 maggio e il 21 giugno, nel 1441 o, come è meno probabile, nel 1440 (Reichenbach), dal conte Giovanni e da Lucia Strozzi, sorella del poeta Tito Vespasiano.
Scandiano, già feudo dei Fogliani, era stato assegnato all'avo di Matteo Maria, Feltrino, nel 1423 da Niccolò III d'Este, vicario imperiale, in cambio di Rubiera, ed eretto in contea con diploma del 13 dicembre 1423 da Filippo Maria Visconti, signore presuntivo del contado di Reggio. Nel 1441 a Niccolò III succede il figlio naturale Leonello (1441-1450): Giovanni Boiardo entra al servizio nel nuovo signore e si trasferisce a Ferrara proprio quando l'allievo del Guarino, divenuto principe, dà nuovo impulso all'umanesimo, già ben vivo nella città.
La prima educazione del B. avvenne dunque in un clima saturo di cultura. Nella sua stessa famiglia il nonno Feltrino, umanista e guerriero, non esitava a iscriversi, a più di sessant'anni, a un corso di diritto canonico presso l'università ferrarese e lo zio Tito Vespasiano Strozzi cesellava versi latini fra i più eleganti del secolo.
Però, a breve distanza l'uno dall'altro, vennero a mancare Leonello (1450) e Giovanni Boiardo (1451): il B., decenne, ritornò dunque a Scandiano presso l'avo Feltrino e un figlio di questo, lo zio Giulio Ascanio.
Probabilmente proprio in questi anni, nella quiete del feudo e sotto la guida di un prete, cappellano e precettore di casa Boiardo, Bartolomeo da Prato (lett. 5), e di Feltrino, ormai libero da impegni gravosi, il giovinetto si formò una cultura che lo portò ad usare disinvoltamente il latino e a possedere forse qualche nozione di greco; allo studio dei Latini, poi, per suo diletto, il B. affiancò la lettura dei poeti italiani del secolo precedente e specialmente di Dante e del Petrarca, dei quali sono frequenti i ricordi anche nella sua poesia latina.
Nel 1456 anche il vecchio Feltrino morì e lo zio Ascanio, dal giovinetto amato come un padre (lett. 1), lo seguì nel 1460; per il B. fu la fine dell'ozio letterario e l'inizio del governo del feudo: già nell'aprile del 1460 egli si presenta agli Anziani di Reggio ai quali dichiara di voler proseguire la tradizionale amicizia del suo casato per la città. Forse per appoggiarsi ai parenti della madre, gli Strozzi, assai potenti alla corte di Borso d'Este, il B. volle aver casa stabile anche a Ferrara e il signore, nell'ottobre del 1461, firmò il lasciapassare necessario a trasferire la casa del Boiardo "venturi de proximum ad abitandum Ferrarie". Alla corte il giovane incontrava Tito Vespasiano Strozzi, Battista Guarini, Bartolomeo Paganelli, Lodovico Carbone, il Tribraco, autori tutti di versi latini, specialmente elegiaci, e poteva dilettarsi nella lettura di molti codici di materia di Francia e di Bretagna di cui era ricca la biblioteca di Borso (Bertoni).
Più di quella ferrarese il giovane frequentava, però, le vicine corti minori che i fratelli di Borso, Ercole e Sigismondo, tenevano rispettivamente a Modena e a Reggio: alla prima lo conduceva la simpatia per quello degli Estensi che egli più amò; alla seconda una giovinetta, Antonia Caprara, il cui nome ricorre più volte in acrostico negli Amorum libri e che dovrebbe essere la stessa fanciulla battezzata in S. Giovanni Battista di Reggio il 31 ott. 1451, l'unica che risulti di tal nome nei registri battesimali del tempo. Nel suo canzoniere il B. dipinge la fanciulla, come bellissima e volubile, e il sentimento che provò per lei come una vera passione, la quale durava da due anni fra illusioni, infedeltà e ripulse, quando il poeta, nel marzo del 1471, si allontanò per seguire Borso diretto a Roma a ricevere l'investitura di Ferrara dal papa Paolo II. Altre indicazioni certe intorno a questo amore e alla sua fine non è possibile ricavare né dagli scritti del poeta - salvo l'ipotetica interpretazione allegorica della egloga VI - né da altre fonti. Certo è, però, che il B. fece parte dell'altra grandiosa cavalcata disposta da Ercole nella primavera del 1473 per accompagnare a Ferrara da Napoli la sua novella sposa, Eleonora d'Aragona: ciò lo tenne lontano da Reggio più mesi e quando tornò a Scandiano il conte dovette cominciare a occuparsi seriamente delle cose del feudo.
I Reggiani erano da tempo in lite coi Carpigiani, i quali, per irrigare i loro campi, rompevano sotto Casalgrande gli argini del canale che portava l'acqua del Secchia a Reggio; il B., conte di Casalgrande e utente del canale, era coinvolto nella questione. Nell'estate del 1473 la rottura dovette esser più grave se il B. si presentò agli Anziani di Reggio per essere autorizzato ad usare le armi anche in loro nome contro i violatori, e i Reggiani acconsentirono, essendo giunta loro notizia che i signori di Carpi "gli Magnifici di Pij... fanno adunazione... di gente per tornare a rompere la chiusa" (Arch. di Stato di Reggio, Cart. Anziani, lett. 18 sett. 1473). Il contrasto poneva il B. di fronte ai potenti congiunti della zia Taddea, la vedova di Giulio Ascanio, sorella di Marco Pio da Carpi, già in attrito col nipote per gli interessi dei propri figli. In tale situazione già i contemporanei videro il movente del tentato veneficio che il B. ebbe a subire e sventò romanzescamente nell'anno 1474.
Simon Boioni, cancelliere del giovane cugino del poeta Giovanni Boiardo (fu però al servizio anche del B.: lett. 20), organizzò il delitto; ma un famiglio del conte invitato a partecipare all'esecuzione svelò la trama al padrone, il quale lo indusse a secondare il disegno, e quando ebbe in mano tutte le prove, compreso il veleno procurato all'uopo da Carpi, imprigionò il cancelliere denunciando la congiura al duca Ercole. Ma questi non poteva sacrificare un vassallo del rango di Marco Pio; la colpa, dunque, fu rovesciata tutta sul Boioni, che dichiarò di avere agito "credendo de piacere ali figliuoli che furono del Magnifico Iulio Boiardo" (Cronica Caleffini, Bibl. Vaticana, Fondo Chigiano, I, 1, 4, sub die 25 luglio 1476) e, condannato all'esilio, fu graziato l'anno appresso.
È possibile che il B. non fosse esente da qualche torto nell'amministrazione dell'eredità lasciata indivisa da Feltrino: certo, nelle liti giudiziarie con la zia e i cugini, le sentenze dei tribunali non gli furono favorevoli; del che il poeta forse si ricordò quando scrisse alcuni amari versi dell'Innamorato (II, 23, 51). Il fatto, comunque, rese indispensabile la divisione dell'asse ereditario di Feltrino. Si lasciò al B. la distinzione delle terre in due parti equivalenti, e a Giovanni la scelta; questi preferì la orientale con Arceto, che poggiava verso Carpi; e così al B. rimasero Scandiano e le sue pertinenze. Ma il conte non restò a lungo nel feudo e il primo gennaio del 1476 assunse stabile servizio alla corte, con stipendio e dimora in Ferrara. Come attesta la cronaca del Caleffini (sub die 22 gennaio 1476), il conte godeva della qualifica piuttosto vaga di "compagno", che doveva lasciargli una certa libertà. Della partecipazione alla vita di corte, fra il '76 e il '79, ci portano un'eco travestita, ma certa, le egloghe amorose volgari, anche se composte più tardi (Ponte), insieme con le politiche, le quali riflettono avvenimenti del 1482-83; e forse per la corte egli compose in canzoniere quelle rime che aveva scritte durante l'amore per la Caprara: infatti il più antico codice degli Amorum libri a noi pervenuto (cod. Egerton 1999 del British Museum) porta la data del 4 genn. 1477. Ma il gusto che la corte estense portava per i racconti cavallereschi favorì l'incontro del B. con la materia a lui più congeniale: son questi gli anni in cui nasce e cresce il capolavoro; il 1º marzo 1479 il copista ducale Andrea delle Vieze scrive ad Ercole d'Este: "Io non ho exemplo per quello de Orlando se non per X o XV dì; sicché vostra Ducal Signoria me ne porà far mandare al conte ad ciò se possa continuare a scrivere" (Bertoni). La composizione doveva dunque essere avanzatissima, e del resto vari avvenimenti che sopraggiunsero negli anni seguenti tolsero al poeta la quiete necessaria per attendere al poema, che pure dovette essere consegnato allo stampatore entro il 1482, se il 23 febbraio del 1483 le prime copie poterono essere offerte solennemente in dono al duca Ercole.
Certo poco dopo il marzo 1479 Matteo Maria si accasò (Reichenbach). Il matrimonio, come era naturale per un importante feudatario, fu forse suggerito dal duca che, di ritorno dal campo, l'11 dic. 1478, convocò pressantemente a corte il B. (Arch. di Stato di Modena, Reg. lett. di Ercole, I, c. 112v). Di fatto dieci giorni dopo il B. nominava il cugino Niccolò da Correggio procuratore speciale a richiedere come sua sposa Taddea, figlia di Giorgio Gonzaga. Di lei - che i contemporanei dicono bella e virtuosa - il B. non parlò mai nella sua opera poetica, ma per la donna che gli fu devota compagna per quindici anni, non certo scevri di difficoltà, egli usò espressioni affettuose nelle lettere e adottò larghe e fiduciose disposizioni nel testamento. Ai doveri familiari - Taddea gli dette presto un erede, quel Camillo nato nel 1480 e destinato a morir di veleno non ancora ventenne - si aggiunsero poi nuovi compiti civili. Correvano tempi difficili per il ducato estense: nel 1478 il papa e il re di Napoli erano scesi in guerra contro la lega di Venezia, Firenze e Milano, ed Ercole d'Este era stato nominato capitano dell'esercito dei collegati. La corte di Ercole, dunque, si disperse; quei dignitari che, come il B., da qualche tempo malandato in salute (lett. 46), non erano in grado di seguire il signore alla guerra, furono impiegati in uffici civili.
Al B. nel luglio del 1480 venne affidato il capitanato di Modena. La reggenza della seconda città dello Stato dopo due anni di guerra non era certo una sinecura: l'ordine pubblico era insidiato dalla violenza privata, favorita dall'uso generale e tollerato delle armi. Alla violenza dei privati rispondeva la crudeltà delle repressioni: e il B. fu più di una volta esortato dal duca ad adottare provvedimenti crudeli e impiccare senza esitazione chi gli cadeva nelle mani (Arch. di Stato di Modena, Reg. lett. di Ercole, I, c. 23 e c. 30). Certo l'ufficio richiedeva prontezza di interventi personali che non sempre il B. era in grado di compiere, impacciato com'era dalla gotta, come apprendiamo dalle lettere di Ercole, che nel maggio 1481 dovette affidare per due mesi i compiti del capitano al podestà e al massaro di Modena. La situazione del B. si fece ancor più difficile nell'anno seguente, allorché, insorta la disastrosa guerra del Polesine, Ferrara rischiò di cadere in mano delle milizie di Venezia. Allora Modena, dove vennero a rifugiarsi i figli del duca, divenne il più saldo punto d'appoggio dello Stato, e al B. giunsero pressanti richieste di derrate e d'uomini da parte di Eleonora d'Aragona, che assunse animosamente la reggenza per Ercole infermo (Ibid., Reg. lett. di Leonora 1482, cc. 31, 63, 89). Ma il capitano doveva far i conti con le difficoltà di Modena stessa, dove i cittadini affamati assalivano le case dei ricchi e dove calavano per saccheggio gli abitanti del contado. Intanto i Veneziani e i loro collegati attaccavano gli Stati estensi da occidente: Reggio e Scandiano erano minacciate; il B. chiese ripetutamente di poter lasciare il governo di Modena per provvedere ai pericoli del feudo, e alla fine fu ascoltato da Eleonora (Ibid., Cart. dei Rettori, busta 2).
Il distacco di Sisto IV dall'alleanza coi Veneziani, e il suo riavvicinamento a Ferdinando di Napoli, consentì a quest'ultimo di inviare un esercito in aiuto del genero Ercole, e di scongiurare il peggio, anche se il Polesine fu perduto dagli Estensi. Il B. poté così portare a compimento la seconda parte dell'Innamorato e dare alle stampe i primi due libri, di sessanta canti complessivi, nel 1483 a Reggio, in una stamperia rimasta ignota, per cura di Pietro Giovanni di S. Lorenzo (Arch. di Stato di Modena, Rettori di Reggio, busta I), edizione che purtroppo non è giunta fino a noi. La pace con Venezia fu suggellata nel 1485 da una visita solenne di Ercole alla città lagunare, e del grande corteggio fece parte il B., il quale ebbe così occasione di conoscere le famose stamperie locali: appunto una di esse, quella di Piero de' Piasi cremonese, detto Veronese, ristampava due anni dopo (1486 stile veneto) le due prime parti del poema (unico esemplare noto alla Marciana).
La pace riportò il B. alla corte, ma la libertà non doveva durare a lungo: con decreto del gennaio 1487 il Boiardo venne chiamato al capitanato di Reggio, che il poeta tenne fino alla fine dei suoi giorni. Erano tempi quieti per lo Stato estense e il B., fino alla calata di Carlo VIII, non ebbe da affrontare questioni diplomatiche di rilievo: una contesa confinaria fra Reggio e Guastalla, risolta da lui con avvedutezza che meritò le lodi del duca (Arch. di Stato di Reggio, Cart. del Reggimento, lett. del 3 marzo 1489) e un tentativo di porre Fivizzano sotto il dominio di Reggio, che andò a vuoto per l'indecisione di Ercole (lett. 183-187). Siffatta quiete favoriva lo svolgersi sfarzoso della vita cortese degli Estensi: nell'agosto del 1488 Ercole, Ludovico il Moro, il cardinale Ascanio Sforza sono in visita a Reggio, e il capitano commenta al signore il De architectura di L. B. Alberti (lett. 50); nella primavera del 1491 sostano a Reggio Eleonora e la figlia Isabella Gonzaga, e il B. legge alle due principesse l'iniziata terza parte dell'Orlando (lett. 86). Di frequente Ferrara richiama il governatore di Reggio, come nel 1491 quando Alfonso d'Este celebra le sue nozze con Anna Sforza. In tali circostanze la corte soleva assistere a spettacoli teatrali, generalmente versioni da Plauto e Terenzio come quelle di Battista Guarini, ma anche favole originali come il Cefalo di Niccolò da Correggio; così, a "compiacenza" del duca Ercole, il B. volgarizzò il Timone di Luciano, completandolo di fantasia. Le occupazioni culturali attirano sempre il colto governatore che provvede all'acquisto di monete antiche ritrovate a San Paolo (lett. 87), al recupero di tre arche romane nel contado di Reggio, al rassetto delle commedie da rappresentare alla corte di Ludovico il Moro, dove si recava il duca Ercole. Purtroppo il capitanato di Reggio non consisteva solo in queste cose: anzi imponeva tutt'altri minuti doveri, ai quali il B. doveva attendere anche se la sua salute era a tal punto minata dalla gotta che il duca dovette concedergli l'autorizzazione a farsi sostituire anche in compiti sedentari (Ibid., Lett. di Ercole, I, 7 marzo 1491).
Dolori e amarezze gli riserbava la vita familiare: nel settembre dell'88 la moglie Taddea fu in pericolo per il parto del secondo maschio, Francesco, che morì nel '91, e il B. se ne afflisse al punto che volle lasciar la casa dove era avvenuta la disgrazia. Interminabili erano poi le liti d'interessi col cugino Giovanni, giunte a un tal segno che il conte di Arceto accusò il poeta di attentare alla sua vita.
Ma più ancora angustiavano il B. le piccole questioni del reggimento. Ercole decise di porre un freno alle violenze che con la licenza dei lunghi anni di guerra si erano moltiplicate, e creò commissario straordinario di Modena e di Reggio (1489) Beltramino Cusatro, uomo famoso per il suo rigore. Ciò doveva creare inevitabili conflitti di competenza e di procedura col B., non tanto perché questi fosse "nimia benignitate repreliendendus et plus componendis carminibus quam vindicandis facinoribus aptus" come ebbe a dire di lui un cronista del sec. XVI, Guido Panciroli, ma perché nell'amministrazione più organica ed accentrata che lo Stato estense tendeva ad assumere il conte di Scandiano continuava a seguire metodi ancora feudali (lett. del Cusatro del 17 marzo 1491 in Arch. di Stato di Modena, Rett. di Reggio b. 1).
Quando il Cusatro scriveva del conte "mi pare avere uno animo de non punire" non alludeva, come fu creduto, a morbidezza di carattere, ma si riferiva ad atteggiamenti dispotici del capitano, il quale, a sentire il giudice, non esitava a sottrarre un assassino alla giustizia, come quel "todesco" della "famiglia" del conte accusato di aver ucciso uno di casa Bebbi, e tollerava, o addirittura provocava, zuffe sanguinose fra i suoi uomini e quelli del commissario, che si dice più volte minacciato dal B. e bada a non aver contrasti con lui "perché l'è periculoso e segue molto le passioni e voglie sua, sia de che sorta se vogliano". Altre accuse, invece, dileguano alla prova dei fatti: quando nell'89-90 una banda di falsari della moneta di Venezia si istallò fra Scandiano e Albinea, si insinuò che fosse coperta dal B.; questi invece fu a fianco del Cusatro nella caccia e nella punizione dei falsari (lett. del Cusatro del 16 apr. 1489 e 3 ott. 1490, in Arch. di Stato di Modena, Rett. di Reggio b. 1); così quando, nell'ottobre del 1493, quattro giovani di notabili famiglie reggiane violentano la figlia del pittore Baldassarre d'Este, il B., pur cercando di alleviare le responsabilità dei rei, non esitò a punire (lett. 105-106). Perciò quando, alla fine di quell'anno, il conte chiede al signore di confermarlo nell'incarico, giacché le sue precarie condizioni (è da credere condizioni di salute, non economiche, sia pur considerando le quattro figlie che si erano aggiunte a Camillo e stavano per toccare l'età da marito) gli sconsigliano i mutamenti, Ercole conferma il fedele servitore, passando sopra alle sue frequenti indisponibilità e al suo carattere impetuoso che anche fuori della materia criminale aveva modo di palesarsi. Lo provano le lettere dell'altro ufficiale ducale col quale ebbe a scontrarsi, i massaro Ludovico Orsini, incaricato della riscossione delle imposte. Anche in questo campo il B. non appare per nulla sollecito a piegarsi al fiscalismo del burocrate: nel marzo del 1494 il capitano, non avendo ancora ricevuti gli emolumenti del mese, non esita a sequestrare il dazio della gabella (lett. dell'Orsini del 3 apr. 1494, Ibid., Rett. di Reggio b. 151). Passano per Reggio principi forestieri e i gabellieri sequestrano vasi d'argento non denunciati: allora il B. fa arrestare i gabellieri, intima al massaro la restituzione delle robe sequestrate ed ospita signorilmente quei nobiluomini (lett. 116). Era naturale che l'Orsini, intralciato nel suo ufficio, protestasse contro le "prepotenze di questo Faraone" (lett. del 5 ag. 1494, Ibid., Rett. di Reggio, b. 151), sospettasse favoritismi anche quando non ce n'erano (lett. 143, 145, 147, 149), come nel processo per la uccisione di Francesco da Sesso, in cui era implicato un cognato del B., e porgesse orecchio a chi accusava il conte di ricettar banditi (lett. 135).
A queste noie, alle preoccupazioni familiari, si sovrapposero eventi assai più gravi: nel luglio 1494 fu chiaro che le milizie di Carlo VIII e dei suoi alleati avrebbero attraversato il territorio di Reggio (lett. 146, 151): al capitano spettava di limitare per il possibile i danni di quel rovinoso passaggio (lett. 156, 161). Vennero infatti i Francesi, talvolta ridicoli, come quel don Giuliano dall'abito sbrodolato e dal mantello costellato di perle false (lett. 165), più spesso "danosi e increscevelli" per ruberie e violenze. Gli invasori, convinti, come il signore di Mompinsero, che "la roba de inimici se potea tore per tuto" (lett. 182), derubavano i mercanti, saccheggiavano i fondachi degli ebrei (lett. 167, 189). Il B. invocava provvedimenti severi contro i soldati (lett. 176) e anche contro i sudditi che si ribellavano creando pericolosi incidenti (lett. 166).
Le lettere provano che il conte si adoprò con energia, sebbene la sua salute declinasse rapidamente: il 28 ottobre egli non può scrivere di suo pugno al duca (lett. 184) eppure conduce importanti pratiche diplomatiche in favore del suo signore (lett. 184); il 20 novembre fa testamento (Documenti, in Studi su M. M. Boiardo, pp. 472 ss.) e la morte lo coglie il 19 dic. 1494. Gli Anziani di Reggio, nel richiedere al duca un nuovo capitano, uscirono in un elogio schietto, che esulava dallo stile cancelleresco, affermando: "pochi suoi pari se trovano hogidì et la cità ne era molto honorata... degno gentilhuomo come era et proprio la gloria reggiana" (Archivio di Stato di Reggio, Provvigioni, 1494).
Poesie latine. I più antichi versi del B. sono latini, riflesso dell'umanesimo ferrarese e dell'esempio dello zio Tito Strozzi. Sono i Carmina de laudibus Estensium, indirizzati a Ercole d'Este, composti fra il cadere del 1462, data del ritorno del fratello di Borso dal regno meridionale, e il maggio del 1474, quando fu presentata al duca l'Erculeide del Filelfo, cui il B. accenna come opera che è ancora in composizione (VI, 49-50). Si tratta di quindici componimenti di vario metro, con prevalenza del distico elegiaco. Dopo un rapido esordio, il giovane dichiara, in una breve saffica, la sua inettitudine a cantar la gloria guerriera di Ercole (I); tenta invece uno scorcio di storia della casa d'Este dalle origini mitiche a Niccolò III (II). Accennata la gloria di Borso, canta l'adolescenza di Ercole alla corte di Alfonso il Magnanimo (IV), poi la sua giovinezza e le sue gesta durante la guerra degli Angioni contro Ferdinando (VI), e da ultimo il suo ritorno in patria (VIII). Esalta poi la lungimirante generosità di Borso, che affida ad Ercole e Sigismondo Modena e Reggio, le grandi città dello Stato (X), e le virtù che fanno di Ercole un perfetto principe (XII). Fra questi componimenti si inseriscono brevissimi intermezzi (III, V, VII, IX, XI); infine due distesi cantica laudatoria (XIV, XV) chiudono il polimetro. La schietta ammirazione per Ercole non riesce a sollevare questi versi dal tono dell'encomio cortigianesco; lo sfoggio di conoscenze mitologiche, la ricercatezza metrica, gli ostentati richiami virgiliani, oraziani, ovidiani, tibulliani, insieme con alcune incertezze linguistiche e prosodiche, danno ai Carmina il carattere di esercitazione scolastica (Ponte).
I Pastoralia, dieci egloghe di aperta imitazione virgiliana (Campani), ciascuna di cento versi esatti, seguono immediatamente nel tempo i Carmina, cui si riconnettono anche tematicamente. Cinque di esse (I, IV, VI, IX, X) sono, infatti, di argomento civile e celebrano Ercole d'Este. Nella prima (Syringa) Pandora leva un inno ad Ercole, poi dona la sua zampogna a Poeman e lo invita a recarsi a Modena per onorare il nuovo signore. Poeman è il giovane B., che si avvia a frequentare la corte modenese. Nella quarta (Vasilicomantia), come nella corrispondente virgiliana, si esalta la nuova età dell'oro portata da Borso, Ercole e Sigismondo agli Stati estensi; nella sesta (Herodia) il poeta riferisce un canto del pastore Bargo, sulle rive del Secchia, in cui la gloria degli Este è congiunta alla gloria degli eroi di Roma; nella nona (Hercules) Coridone, mentre reca in dono ad Ercole una gazza, incontra Titiro, e in carme amebeo canta con lui le lodi del signore; la decima (Orpheus) introduce il mitico cantore tracio a lenire ad Alcide la pena del rapito Ila con la profezia della nascita di un nuovo Alcide, Ercole d'Este, cui il poeta alla fine chiede venia per l'acerbità del suo canto giovanile: "da veniam: primis tibi talia lusimus annis". Tutto ciò ci riconduce al '63, quando il poeta aveva poco più di vent'anni. Agli stessi tempi ci riporta la seconda egloga Philiroe, dove Titiro è senza dubbio Tito Vespasiano Strozzi, che piange la sua donna morta di peste il 24 apr. 1463; il B. infatti ricalca il noto epicedio strozziano (Eroticon, VI). Non altrettanto chiari, nonostante lo sforzo degli interpreti, riescono i riferimenti allegorici delle altre egloghe: la terza (Eripaemenon) dove Silvano e Poeman, come nella corrispondente virgiliana, esaltano a gara amore ispiratore di canti, innanzi ad Ercole, che li premia con due cani gemelli; la quinta (Silva) in cui Licanore e Menalca cantano la bellezza crudele delle loro amate; la settima (Barcula), ancora echeggiante la III di Virgilio, in cui Poeman deride ferocemente l'amore di Coridone, e questi i canti di Poeman; nell'ottava (Philicodiae) Meri canta felice la sua Citeride e Bargo effonde il suo lamento per Filotide tanto bella quanto volubile. Per comune consenso i tratti più felici si ritrovano nei canti amorosi: nell'egloga V, quando Licanore rievoca la sua bella che si immerge nella acque, inserendo con grazia nel suo latino qualche accento petrarchesco (V, 67-74), e nell'ottava, allorché Meri attende impaziente l'alba (VIII, 47-53) e Bargo ricorda il dono dell'amata (VIII, 87-93). Simili tratti, che preannunciano luoghi famosi del canzoniere, suggerirono il troppo benevolo giudizio del Carducci: "si riattaccano [le egloghe] a quelle del Petrarca e del Boccaccio e splendono a luoghi di forse più elegante imitazione virgiliana".
Certamente allegorismo ed encomio nocquero assai più agli Epigrammata in distici, gli ultimi versi latini del B., scritti in occasione della congiura ordita nell'anno 1476 da Niccolò d'Este, figlio di Leonello, per impadronirsi di Ferrara. Il B. mostrò sempre una particolare devozione per la linea legittima di Este, tacendo di Leonello nelle sue glorificazioni degli Estensi e accennando all'invio d'Ercole a Napoli da parte di Borso come a una spoliazione (Orlando Innamorato, II, XXV, 54): certo si compiacque sinceramente che il disegno fosse fallito; tuttavia le fredde arguzie allegoriche sui seguaci del "diamante" e della "vela", imprese rispettivamente di Ercole e di Niccolò, non valgono a distinguere la sua voce nel coro cortigiano che salutò la vittoria del duca.
Le versioni. Al tempo degli Epigrammata la vena poetica del B. aveva già trovato il suo naturale sfogo nel volgare; l'attività più strettamente umanistica dello scandianese si prolunga, però, con le cinque versioni: le Vite di Cornelio, la Ciropedia, l'Asino d'oro, le Storie di Erodoto e quelle di Ricobaldo. I frequenti abbagli mostrano un rapido distacco del B. dalla lingua latina (per i testi greci lo scandianese si rifece a versioni umanistiche); d'altra parte la rarità di soluzioni d'arte conferma che tali versioni rientrano nel quadro dei volgarizzamenti cortesi sollecitati dagli Estensi. Del resto, nel prologo alla più antica di quelle versioni, quella delle Vite di Cornelio - allora attribuite ad Emilio Probo, - il B. dichiara di essersi studiato "più de essere fidele interprete che eloquente". Indirizzava infatti la sua traduzione ad Ercole, al quale con ogni probabilità erano destinate anche le glosse marginali che si leggono nel codice giunto fino a noi (ms. 2616 della Bibl. Univ. di Bologna), le quali mostrano lo scopo divulgativo se non addirittura didattico dell'opera. Le Vite e la Ciropedia vennero composte dal B. prima dell'agosto del 1471, perché nelle dedicatorie Ercole non è ancora chiamato duca di Ferrara: par certo che le Vite precedessero la Ciropedia, alla quale, nel prologo, il B. accenna dicendo "questa mia nova traduzione". In essa il B., sebbene dichiari di conoscere anche quella del Filelfo, si sforza di ricalcare con passiva fedeltà la versione del Poggio (Tincani), in una lingua infarcita di crudi latinismi. La traduzione delle Storie di Erodoto è condotta sulla versione del Valla, in una redazione manoscritta che dovette essere assai più scorretta della stampa (Venezia, 1474): nulla di preciso si può dire sulla data se non che l'unico manoscritto a noi noto è datato 1491.
Più gravi problemi filologici propongono le altre due versioni. Le Storie di Ricobaldo insospettirono il primo editore, il Muratori (Rerum Italic. Script., IX, Mediolani 1726, pp. 291-420), il quale pensò a un raffazzonamento, se non a un falso: alcuni indizi venuti in luce più tardi inducono a credere all'effettiva esistenza del perduto originale latino. Quanto al volgarizzamento dell'Asinus aureus, che fu più volte stampato nel corso del sec. XVI, si pensa che il B. si valesse della traduzione o perifrasi già composta dall'avo Feltrino, tanto più che il poeta nella prefazione non se ne attribuisce la paternità. Alla conclusione del libro X, quando il racconto di Apuleio volge alla fine, il B. innesta nel volgarizzamento un sunto assai libero del (ύκιος di Luciano - ricavato, al solito, da una versione latina -, che resta la cosa più curiosa di questa traduzione forse più sciolta delle altre.
Poesie. Delle tre raccolte di liriche volgari del B., gli Amorum libri, le Pastorali, i Capitolidel giuoco dei tarocchi, la prima è di gran lunga la più importante, ed è comunemente ritenuta il più bel canzoniere del secolo. Consta di centottanta rime, distinte in tre libri di sessanta componimenti, distribuiti in modo che ogni libro abbia cinquanta sonetti e dieci liriche di altro genere. A tale corrispondenza metrica fa riscontro un'intenzionale diversità tematica (61, 122): nel primo libro prevalgono le gioie, nel secondo le pene, nel terzo i rimpianti di un amore di cui il canzoniere tesse la storia poetica.
Il nome dell'ispiratrice è rivelato nelle forme indirette care alla poesia del tempo: in sonetti acrostici (14, 34, 127), e attraverso le iniziali dei primi quattordici componimenti, che formano il nome di Antonia Caprara. Anche il tempo della passione s'induce con certezza da un sonetto scritto dal B. nella primavera del 1471, durante il viaggio a Roma per l'investitura di Borso: il poeta confessa di sospirar d'amore ormai da quasi due anni (154), che poco dopo dichiara compiuti (176). L'innamoramento avvenne, dunque, nella primavera del 1469; il luogo fu Reggio (16) e l'occasione, forse, una festa e un giuoco (147) alla piccola corte reggiana di Sigismondo. Nel sonetto proemiale il poeta stacca il tempo delle rime e dell'amore da quello della raccolta (I, 1-4): il più antico codice giunto fino a noi, che porta la data del 4 genn. 1477, probabilmente ci conduce assai vicino al tempo della composizione, compiuta, comunque, entro il 1476. Il poeta canta le bionde trecce (12), i neri occhi (31, 42) di Antonia e cerca invano paragoni in tutto il creato (15, 21, 39, 41). Arde a guardarla (17), ma preferisce ardere a non amare (18); sopporta volentieri la vampa del Sole per raggiungerla (23), e Reggio gli par deserta senza lei (27). Un giorno d'aprile la donna mostra di gradire quell'amore (71) e una volta accosta dolcemente il viso a quello del poeta (27). Un dono (38) suggella la pace dopo un breve turbamento (33, 34); tuttavia un sogno predice al poeta prossime pene (43). Viene l'inverno: il poeta sfida il gelo per vedere l'amata (47), ma la rosa rivela le sue spine (56) anche se l'innamorato non può cessare d'amare (57, 59).
Nel secondo libro con "cangiato accento" (61) il poeta piange il perduto amore (65, 71); il tormento gli toglie il sonno (90), brucia di gelosia (92) vedendo l'amata donare ad un altro il sorriso e i segni d'amore che furono suoi (93), maledice la crudeltà (94) e più ancora la falsa pietà di Antonia (98). Fugge allora dalla corte (99) in solitudine montana (100, 101), ma non può dimenticare appresso all'albero su cui egli stesso incise il nome amato (104). Si compie così un anno da che sbocciò, con la primavera, l'infelice passione (116, 117): il poeta si ammonisce a convertirsi a ciò che è eterno (118) e chiude il libro con un saluto alle donne gentili Ginevra e Marietta - forse le cugine Strozzi - testimoni del suo soffrire (120).
Nel terzo libro, tornata l'estate (133), Antonia si allontana dalla città (134, 136): il suo verone deserto immalinconisce (138) e i suoi fiori avvizziscono (142). Poi, nella sua crudeltà, Antonia fa balenare al poeta una speranza (144), ma ormai egli ben conosce il mutare della donna volubile (145-147): non sono trascorsi ancora due anni ed egli sta compiendo un terzo libro di sospiri (154). Ma il poeta deve seguire il suo signore a Roma (159); si pasce allora di vane fantasie: ella forse sospira per lui lontano (161, 162); ma egli trema al sospetto che altri colga quel fiore (166); si rifugia dunque nel ricordo delle lacrime che la donna versò alla sua partenza (167); né Roma può distrarlo dal pensiero di lei (169, 170). Si compiono ormai due anni da che il poeta fu preso (176). Egli ora sta per varcare il limite della giovinezza (177): il senso della vita che fugge lo induce a chiedere a Dio il sollievo dalle umane passioni (178-180).
Questa linea, per altro, si smarrisce fra la varietà dei richiami letterari e il decorativismo cortese, onde la questione della unità psicologica ed estetica del canzoniere boiardesco. Alcuni componimenti come il notissimo Ocio amoroso e cura giovenile (44), variazione del vecchio motivo del plazer, paiono svincolati dalla vicenda; altri echeggiano modi stilnovistici, trobadorici e popolari: di qui la definizione di poesia "tardogotica" recentemente proposta (Wiese), che, in fondo, traduce in termini stilistici la precedente definizione sociologica e psicologica di "poesia cortigiana" (Zottoli) Il canzoniere del B., però, non sarebbe concepibile senza il precedente petrarchesco (Mengaldo), che non solamente ne condiziona il disegno, con evidenti zeppe strutturali (1, 61, 118, 121, 177, 178, 179, 180), ma offre alle liriche un comune medio psicologico e letterario. Il petrarchismo del B. non è ancora quello canonico del Cinquecento: ciò insidia la compattezza formale e l'approfondimento morale della sua lirica, ma consente al poeta di esprimere, con originale colorita rapidità visiva, il suo "invito al mondo a partecipare i suoi sentimenti" (Contini).
L'intensità con cui agì sul B. il modello petrarchesco si può cogliere bene quando il poeta si volge ad altre forme dove quel modello non agì, come nelle Pastorali, le dieci egloghe volgari, cinque di argomento civile (I, II, IV, VIII, X) e cinque di argomento amoroso (III, V, VI, VII, IX), come le latine. I riferimenti alla guerra del Polesine ci inducono a dare alle egloghe civili come termine post quem l'estate dell'82; meno certa appare la datazione delle amorose, ma l'eco avvertibile delle Bucoliche dell'Arsochi, del Benivieni, del Boninsegni, apparse a stampa a Firenze nel 1481, induce a ritenerle scritte poco dopo, quando le vicende della guerra non erano ancora pressanti (Carrara).
Nella prima Tito Vespasiano Strozzi, sotto le vesti di Titiro, lamenta che il "suo fiorito almo paese", la sua villa di Ostellato, sia preda del leon nemico, cioè del leone di S. Marco; Mopso però predice l'avvento di un salvatore da Napoli e i due fatti ci portano, il primo al 23 luglio 1482, il secondo al 14 genn. 1483. Nella seconda egloga infatti Galatea sorge dal Po a piangere sulle rive devastate dalla guerra ed esalta Alfonso di Calabria atteso come liberatore in Padania. La terza egloga invece è amorosa: Aristeo e Dafnide cantano Clorida e Cyteride, le loro amate lontane. Con la quarta egloga si ritorna alla guerra: Dameta piange la prigionia di Niccolò da Correggio, catturato dai Veneziani ad Argenta (1º nov. 1482). Nella quinta Gorgo conforta Menalca delle sue pene d'amore, ricordandole antichi versi tolti dagli Amores (I, 1-2). Nella sesta un cacciatore che ha inseguito a lungo e invano un capro è condotto da un pastore a dissetarsi ad una fresca fonte: molti si sono affaticati a ritrovare qui la traccia dell'amore del B. per la Caprara (Piemontese); la settima rappresenta Damone e Gorgo in gara poetica davanti a Corinna; nell'ottava il profugo Menalca invidia virgilianamente Melibeo e si duole della morte di Nisa; nella nona Coridone dipinge con tratti satirici il vecchio Mopso cui è andata sposa la sua Nisa. La decima conclude il ciclo con un panegirico di Alfonso di Calabria. Nella impossibilità di decifrare con certezza le allusioni delle egloghe amorose, l'interesse maggiore di questi versi risiede nel prontissimo sfruttamento di particolari forme stilistiche toscane, prova della ricerca, protratta dal B. oltre le mature prove degli Amores e delle prime parti del poema, di un linguaggio che, risalendo alla terzina dantesca, consentisse di unire raffinatezza ed energia (Ponte).
Strettamente vincolati alla corte, anche se non è possibile stabilirne con certezza la data, appaiono anche i Capitoli del giuoco dei tarocchi, scritti per illustrare poeticamente le ottanta carte di un mazzo dipinto (Renier) in cui i semi principali si ispiravano alle "quattro passioni dell'anima signore", cioè dardi (amore), vasi (speranza), occhi (gelosia), scudisci (timore), e le altre carte portavano figurazioni simboliche. Il B. fece corrispondere una terzina ad ogni carta, salvo la prima e l'ultima, cui era destinato un sonetto. I capitoli boiardeschi ebbero notevole incontro: meritarono numerose ristampe e ne fu ritrovata una minuziosa spiegazione composta dal dotto medico urbinate Pier Antonio Viti (Solerti), ma essi riguardano la storia del costume, non quella della poesia.
Alle egloghe si ricollega sotto l'aspetto linguistico e metrico il Timone, riduzione scenica in terza rima dell'omonimo dialogo di Luciano. Il B., come di consueto, lavorò su una versione latina, con maggiore probabilità non quella dell'Aurispa, ma quella di Niccolò da Lonigo (Rossi), ricavandone un "dramma mescidato", cioè una di quelle composizioni sceniche in cui compaiono mischiati elementi mitici e allegorici, mimici e coreografici. La storia lucianea del prodigo Timone che, ridotto in povertà e abbandonato dagli antichi amici e riportato alla ricchezza da Giove, si vede rifiorire intorno la folla dei parassiti, ma, fattosi "misantropo", li scaccia, è ampliata con un prologo posto in bocca allo stesso Luciano e complicata con una vicenda di tipo plautino, che occupa le prime due scene del quarto e tutto il quinto atto. Un'aggiunta che disorienta l'azione e indebolisce il carattere del protagonista; del resto anche nelle parti precedenti l'arguzia del testo greco si stempera in moralismo. Il pregio dell'opera, salvo qualche rapido tratto macchiettistico, risiede principalmente nella testimonianza che essa ci offre della elegante letteratura di intrattenimento promossa dalla corte estense.
Il poema. Anche per il capolavoro il B. dové ricevere più d'una suggestione dalla vita di corte: Borso affermò che gli dava maggior contento l'acquisto di una storia cavalleresca che quello di una città; Ercole, che fra l'altro nel 1478 chiedeva il Morgante, affiancò al suo amore per le storie quello per i romanzi, come attestano gli inventari della sua biblioteca, ed era largo di prestiti ai suoi cortigiani; si sa anche che gli Estensi non sdegnavano di far salire a palazzo dalla piazza gli umili canterini (Bertoni). Ciò spiega, da un lato, l'elegante finzione degli esordi alla canterina sparsi nell'Innamorato (steso invece continuamente, come prova la già ricordata testimonianza del copista Dalle Vieze), e, dall'altro, i tanti riflessi di costumanze cortesi che si notano nel poema, dal gioco di società di Tisbina (I, 12) alla danza del bacio nel giardino delle Naiadi (III, 7). Certo le prime due parti del poema (la I di 29, la II di 31 canti) furono scritte quando il poeta era alla corte "compagno" del duca, dopo il '76 e nei primi tempi del governatorato di Modena, prima della fase più grave della guerra del Polesine (II, 31, st. 49); alla fine dell'81 il poema era già giunto di certo al canto XXVII del libro II; probabilmente erano già stesi tutti i sessanta canti compresi nella perduta edizione reggiana del 1483. Comunque è certo che il lavoro del poeta subì un'interruzione prolungata - l'edizione del 1487 (1486 stile veneto) comprende lo stesso numero di canti -, e riprese con lentezza e con discontinuità, come prova la risposta del B. alle richieste di Isabella d'Este nel 1491 (lett. 86). La terza parte, rimasta interrotta alla ottava 26 del canto IX, vide la luce solo dopo la morte del poeta, nel 1495 a Venezia (Campana) e nello stesso anno a Reggio apparve la prima edizione completa, ora perduta, a cura della vedova e del figlio Camillo. Nonostante l'interruzione e le molte incongruenze e divagazioni, che hanno fatto supporre a qualcuno (Zottoli) l'assenza di un disegno preciso, è quasi certo che il poema doveva concludersi con la morte di Ruggero, il capostipite degli Estensi, per mano di Gano di Maganza, in modo da sfatare la calunniosa voce che faceva gli Este discendenti da Gano (Euganeus). Spogliata di tutte le inflorescenze, l'azione si svolge nella maniera seguente, attraverso i sessantanove canti effettivamente scritti dal poeta. Alla corte bandita che re Carlo tiene a Parigi per Pasqua rosata giunge improvvisa una bellissima fanciulla, scortata da quattro giganti e un cavaliere, che promette la sua mano a chi saprà vincere il suo campione. Tutti si invaghiscono di lei e il mago Malagise scopre che essa è Angelica, figlia del re del Catai: con un anello che protegge da ogni incantesimo e rende invisibile chi lo porta in bocca, e con la lancia fatata del fratello Argalia, ella vuol distrarre dalla guerra i cavalieri cristiani. Mentre le armi fatate non salvano Argalia, che è ucciso da Ferragù, la bellezza di Angelica conquista Orlando e Ranaldo, che la inseguono verso levante (I, 1-3). Ma nella selva d'Ardena Ranaldo si disseta alla fonte dell'odio e si disamora, proprio quando Angelica beve alla fonte dell'amore e arde per lui. Intanto re Gradasso, che vuole la spada d'Orlando e il cavallo di Ranaldo, fa prigioniero re Carlo, ma è vinto inaspettatamente in duello, mercé la lancia fatata di Argalia, da Astolfo l'inglese, il quale parte poi in traccia di Orlando e di Ranaldo (I, 4-13). Dietro ad Astolfo l'azione si sposta ad Albracà, dove Angelica è assediata da re Agricane, e dove giunge, dopo molte avventure, Orlando, che in un epico duello uccide Agricane (I, 14-19). Mosso dalla gelosia ucciderebbe anche Ranaldo, se Angelica non lo allontanasse per un'impresa disperata nell'isola della maga Fallerina. A questo punto i cavalieri, cui si sono aggiunti nuovi personaggi, - Sacripante, Marfisa, Brandimarte, Fiordelisa -, si disperdono in un seguito di avventure meravigliose (I, 20-29). L'azione si ricompone soltanto all'inizio del II libro, quando una nuova minaccia incombe su re Carlo e richiama i cavalieri in Francia: re Agramante vuol vendicare la morte del padre Troiano ucciso da Orlando; all'impresa è necessario Ruggero, segregato dal mago Atlante in un castello incantato. Riuscirà a liberarlo Brunello, ladro sovrano, mercé l'anello di Angelica (II, 1-9). Ma nel frattempo Rodamonte, re d'Algeri, ha rotto gli indugi e ha invaso la Francia; a lui si è unito re Marsilio: al pericolo gravissimo cerca di far fronte Ranaldo (II, 6-14). Per amore di lui Angelica induce Orlando ad accompagnarla di nuovo in occidente; ma le fontane d'Ardena invertono ancora una volta i sentimenti: Ranaldo torna ad ardere per Angelica che ora lo odia. I due cugini si azzuffano per la bella pagana, che viene affidata dal re Carlo al vecchio duca Namo e promessa a quello dei due che si mostrerà più valoroso nell'imminente scontro con gli infedeli (II, 15-20). Ma i cristiani sono sconfitti perché Orlando si ritira dalla battaglia per rendere più evidente e decisivo il suo intervento, e Ranaldo si distrae dietro al suo cavallo. Intanto l'esercito di Agramante con Ruggero passa in Francia (II, 21-31). Nel terzo libro un nuovo nemico dei cristiani, Mandricardo, figlio di Agricane, raggiunge i luoghi della guerra (II, 1-3): ivi fa prodigi Ruggero, il futuro capostipite di casa d'Este, che non esita a battersi con Rodamonte per consentire ad un cavaliere cristiano di accorrere in aiuto di Carlo. L'ignoto cavaliere si rivela poi una bellissima fanciulla, Bradiamante, sorella di Ranaldo, e fra i due sorge irresistibile l'amore (III, 4-5). La guerra li divide ed essi si cercano quando il poema si interrompe con un'ottava famosa, che accenna alla calata di Carlo VIII in Italia (III, 6-9).
La struttura del poema, in cui si inseriscono numerose novelle, come la patetica vicenda di Iroldo e Tisbina (I, 12), l'inganno della scaltra Origille (I, 29), il racconto boccaccesco di Leodilla (I, 21-22), la storia feroce di Stella e di Marchino (I, 8) e quella comica di Doristella (II, 26), mostra in atto quella "fusione" fra materia di Francia e materia di Bretagna di cui un tempo si soleva attribuire al B. il merito originario.
Oggi è noto che la trasformazione romanzesca e cortese della epopea carolingia era già avviata nella narrativa francese del sec. XIII attraverso canzoni come l'Huon de Bordeaux, che ebbero larga fortuna anche in Italia ed è addirittura caratteristica saliente del poema franco-veneto Entrée d'Espagne (Cesati) e del cantare toscano che ne derivò, la celebre Spagna in rima, testi tutti ben noti alla corte estense. Tuttavia se la contaminazione della materia carolingia con quella romanzesca è un aspetto generale della tradizione canterina, però il B. fece di questo motivo, con chiara consapevolezza, il centro del poema, come indica il titolo Innamoramento di Orlando (lett. 86), e lo sviluppò con coerenza, stabilendo il principio che "Amore è quel che dona vittoria e dona ardire al cavaliere armato"; proclamando, così, il primato della corte di Artù su quella di Carlo (II, XVIII, st. 1-2), e sovrapponendo infine il suo Orlando "perfezionato" dall'amore (II, IV, st. 3) a Lancillotto e Tristano (II, 8, st. 1-3). In tal senso va risolto il dubbio sollevato dai romantici intorno alla serietà del mondo cavalleresco del B. (De Sanctis): il poeta può sorridere delle inverosimili gesta attribuite ai cavalieri, ma non già dei sentimenti di prodezza e di cortesia dei suoi eroi (Rajna): lo mostrano pagine solenni, come quelle del duello fra Orlando e Agricane. Con l'Innamorato, anzi, la poesia cavalleresca torna dalla piazza, dove l'avevano portata i canterini, alla sua sede naturale: la corte. Il B. poté così mettere a frutto il suo tirocinio umanistico: Virgilio ed Erodoto, Cornelio e Senofonte, Apuleio e Luciano, assimilati direttamente, fuori dello schermo deformante dei vari "romanzi" dell'antichità, tornano nel poema, frammisti agli echi dei romanzi cortesi. Pare perciò ambiguo definire l'arte boiardesca "tardogotica" (Wiese) quando, pur nei limiti imposti dal genere, nel poema confluirono, in una convivenza ormai ben rinascimentale, l'eredità classica e quella romanza. Ciò è indirettamente comprovato dalle numerose, anche se non compiute ricerche sulle fonti, le quali hanno confermato, sia pure con un accento diverso, l'opinione del Rajna sulla "trapotente" immaginazione boiardesca, capace di intrecciare e di assimilare senza subirle le tradizioni più disparate. Lo mostra l'episodio di Leodilla, che deriva la premessa da Ovidio, il corpo dal Libro dei Sette Savi, alcuni particolari dal Miles Gloriosus, altri dal Lancelot: e tutte queste fonti sono rifuse in modo da far cosa nuova, intonata al poema (Searles).
D'altra parte all'idealizzamento cortese di situazioni e personaggi fa riscontro la frequente irruzione nel poema di elementi e tratti realistici e la comicità serena rispondente alla "passione per l'energico e il primitivo" (Croce) che è alla radice della personalità del poeta. A questa disposizione, certo, si accompagna un facile gusto dell'avventura e del meraviglioso, (Reichenbach) che dà moto e colore, ma insidia la compattezza dell'insieme con deviazioni capricciose, e una elementarità psicologica non di rado felice, ma frammentaria e spesso totalmente esaurita nella immediatezza di un tratto fugace senza approfondimento né sviluppo: a tanto movimento esteriore par corrispondere una sorta di staticità interiore, a meno che la fantasia del poeta non insegua creature, come Brunello, in cui predomini la vitalità spontanea, che sono fra le più spiccate e continue del poema (Bigi). Non bisogna però sottovalutare il fatto che l'Ariosto potè ereditare il mondo boiardesco come cosa che la sua fantasia trovò già disposta alla vita poetica. Tale innegabile vitalità poetica ha fatto riemergere il poema dall'oblio plurisecolare a cui il trionfo delle teorie linguistiche e del gusto del Bembo lo aveva condannato attraverso i rifacimenti del Berni e del Domenichi, ed ha portato a riconoscere nel linguaggio boiardesco, ibrido dal punto di vista toscano, una validissima creazione d'arte.
Opere. Di mano del B. possediamo solo qualche lettera: l'opera sua ci è giunta attraverso apografi e talvolta ci è stata conservata solo da antiche stampe. I Carmina de laudibus Estensium, i Pastoralia, e gli Epigrammata furono pubblicati in edizione critica da Angelo Solerti nel volume Le poesie volgari e latine di M. M. B.riscontrate su i codici e le prime stampe, Bologna, 1894: ivi sono indicati i manoscritti (il ms. 318 della Biblioteca Comunale di Ferrara per i Carmina; l'Estense o. 728 e i Barberiniani latini 42 e 1879 per i Pastoralia; l'Estense IV F. 24 e i codd. 70 e 234 della Biblioteca Comunale di Ferrara per gli Epigrammata) e le stampe antiche (fondamentale Bartholomei Crotti Epigrammatum elegiarumque libellus Mattei Mariae Boiardi bucolicon carmen, Regii 1500), su cui è fondato il testo. Altre notizie sulla tradizione manoscritta e a stampa delle poesie latine del B. sono fornite da Ermete Rossi e si trovano nelle note finali di Tutte le opere di M. M. B., a cura di Angelandrea Zottoli, Milano 1937 (vedi II pp. 740-748), dove i testi del Solerti sono sottoposti a qualche motivato ritocco.
Le versioni del B. non possono dirsi completamente edite: Le vite degli eccellenticapitanidi Probo Emilio (Cornelio Nepote) furono pubblicate integralmente da C. Ricci e O. Guerrini (Bologna 1908) dal ms. 2616 della Bibl. Univ. di Bologna, ma in modo arbitrario, come si può vedere confrontando il prologo alle Vite in questa stampa e nel testo di Tutte le opere (II, pp. 721-722). Della traduzione della Ciropedia, contenuta nel ms. G. 5.1. della Bibl. Estense, è accessibile a stampa solo il prologo nella citata biografia del Reichenbach (pp. 69-72), riprodotto anche nell'edizione Zottoli (II, pp. 717-718). La versione del Chronicon Imperatorum di Ricobaldo, tratta dal codice 424 della Classense di Ravenna, è solo parzialmente accolta nel tomo IX dei Rerum Italicarum Scriptores di L. A. Muratori (Mediolani 1726, pp. 291-420). La traduzione dell'Asinus aureus di Apuleio fu stampata a Venezia nel 1516 da Niccolò d'Aristotele detto Zopino sotto il titolo Apulegio volgare tradotto per el conte M.M.B. La versione di Erodoto, condotta sulla traduzione latina di Lorenzo Valla e contenuta nel ms. della Estense H.3.22., fu stampata più volte nel sec. XVI e primamente in Herodoto Alicarnaseo Historico delle guerre de' Greci e de' Persi, tradotto di greco in lingua italiana per il conte M.M.B., non più stampato ma nuovamente venuto in luce (Venezia, G. A. Nicolini di Sabbio, 1533).
Le Pastorali furono pubblicate nella già citata edizione critica di Angelo Solerti sul fondamento del codice Braidense AG.11.9; ora sono accolte nell'edizione delle Opere volgari di M.M.B. a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Bari 1962, dove il testo è stabilito sulla scorta di un nuovo esame della tradizione (vedi pp. 425-443). Il testo degli Amorum libri è stato costituito dal Mengaldo (v. pp. 325-424) tenendo debito conto oltre che del cod. Egerton, su cui soprattutto si fondò il Solerti, anche del codice 10293 della Marciana di Venezia, già studiato dal Reichenbach, e dell'antica stampa Sonetti e canzone del poeta clarissimo Matteo Maria Boiardo, per Francesco Mazolo, Reggio 1499, riprodotta poi da Giovan Battista Sessa (Venezia 1501). I Tarocchi furono stampati dal Solerti secondo il testo della più antica stampa nota: Amore de Hieronimo Benivieni Fiorentino. Allo illustrissimo S. Nicolò da Correggio. Et una Caccia de Amore bellissima et cinque Capituli sopra el Timore, Zelosia, Speranza, Amore et uno Triompho del Mondo composti per il conte M. M. B. et altre cose diverse, Venezia, Nicolò Zopino, 1523.
Dell'Orlando Innamorato non possediamo l'edizione originale dei due primi libri (Reggio, per Pietro Giovanni di San Lorenzo, 1483), ma solo la seconda stampa apparsa nel 1487 (stile veneto 1486) da Pietro de' Piasi, il cui unico esemplare è ora alla Marciana di Venezia. Il terzo libro apparve a stampa a parte (El fin del inamoramento de' Orlando, Venezia, per Simone Bevilacqua, 1495). L'unico esemplare giunto fino a noi e conservato a Monaco fu riconosciuto autentico da Augusto Campana e lo Zottoli se ne giovò per il testo della sua edizione nel 1937 (v. bibliogr., Appendice II, II, pp. 767-774). Nello stesso 1495 apparve a Scandiano un'edizione completa del poema promossa da Camillo Boiardo, ma è andata completamente perduta; così la più antica stampa completa a noi giunta (pure in esemplare unico alla Marciana) è quella di Venezia, per Giorgio de' Rusconi, 1506. Dopo il 1544 l'Orlando Innamorato non fu più ristampato, sopraffatto dai due rifacimenti del Berni e del Domenichi, e riapparve soltanto tre secoli dopo a Londra (Orlando Innamorato di M. M. B. e Orlando Furioso di L. Ariosto, a cura di Antonio Panizzi, London, W. Pickering, 1830-1831). Sulle due stampe venete del 1486 e del 1506 e sul codice Trivulziano 1094, un apografo della fine del sec. XVI che contiene tutto il poema, fondò la sua edizione critica Francesco Foffano, Orlando innamorato di M. M. B. riscontrato sul codice Trivulziano e sulle prime stampe, Bologna 1906-1907. Angelandrea Zottoli in Tutte le opere di M. M. B. ritoccò il testo del Foffano servendosi, oltre che della stampa su ricordata del III libro, anche delle stampe posteriori e specialmente della milanese Vegio del 1513.
Commenti. Dopo la già ricordata edizione, con introduzione ed annotazioni di Antonio Panizzi (London 1830-1831), il poema fu commentato da Giacinto Stiavelli (Roma, Perino, s.a.), da Francesco Foffano (Torino 1926), da Aldo Scaglione (Boiardo, Orlando innamorato,sonetti e canzoni, Torino 1951). Gli Amorum libri, dopo la parziale edizione Poesie di M. M. B. conte di Scandiano scelte e illustrate dal cav. Giambatista Venturi nobile di Reggio (Modena 1820), furono commentati da Carlo Steiner in M. M. B. Il Canzoniere (Torino 1927) e da Aldo Scaglione nella citata raccolta delle opere del B. del 1951.
Biografia e iconografia. La vita del B. è stata ricostruita organicamente su saldo fondamento documentario da Giulio Reichenbach nel suo M. M. B., Bologna 1929 (nei primi tre capitoli di questo libro è rifuso il precedente saggio dello stesso autore Un gentiluomo poeta del quattrocento,M. M. B., parte 1, Ferrara 1923); ivi è riprodotta fotograficamente la medaglia cinquecentesca del Civico Museo Correr di Venezia, col ritratto del poeta e la data 1490, di cui si conoscono quattro esemplari, la sola immagine del B. che si può fondatamente ritenere derivata dal ritratto di un contemporaneo. Per l'ambiente in cui visse e operò il B. sono fondamentali, oltre al libro di Edmund Gardner, Dukes and poets in Ferrara, New York 1904, gli studi di G. Bertoni, La Biblioteca Estense e la cultura ferrarese ai tempi del duca Ercole I, Torino 1903; Nuovi studi su M. M. B., Bologna 1904, e Guarino da Verona fra letterati e cortigiani a Ferrara, Ginevra 1921. Vedi anche G. Panciroli, Raccolta d'alcune cose più segnalate ch'ebbero gli Antichi..., Venezia 1612, p. 181; R. Bacchelli, La congiura di don Giulio d'Este, Milano 1931; A. Piromalli, La cultura a Ferrara al tempo di L. Ariosto, Firenze 1953; e G. Getto, La corte estense di Ferrara come luogo d'incontro di una civiltà letteraria, in Letter. e critica nel tempo, Milano 1954.
Critica. Una buona storia della critica boiardesca ha dato Giovanni Ponte nei Classici italiani nella storia della critica, a cura di W. Binni, Firenze 1960, I, pp. 267-298. Mentre l'interesse per il lirico non era mai venuto meno del tutto, nonostante il titolo del saggio di E. Thovez, Il Boiardo lirico sconosciuto, in Gazzetta letteraria, 4 marzo 1893, l'attenzione al poema del B. si riaccese solo in età romantica: vedi U. Foscolo, Epoche della lingua italiana e Poemi narrativi e romanzeschi in Opere, ed. naz., a cura di C. Foligno, XI, Firenze 1958 (parte I, p. 212; parte 2, pp. 111 ss.); A. Panizzi, Orlando innamorato di M. M. B...(e vedi anche G. Ponte, La versione carducciana della Life of Boiardo di A. Panizzi, in Rass. della lett. it., LIX [1955], pp. 56-63); F. De Sanctis, Scritti inediti e rari, a cura di B. Croce, Napoli 1898, I, pp. 289 ss.; e Storia della letteratura italiana, a cura di N. Sapegno e N. Gallo, Torino 1958, I, pp. 427-430; G. Carducci, Dello svolgimento della lett. naz., in Opere, ed. naz., VII, Bologna 1937, pp. 121 ss.
Bibl.: Fra gli studi complessivi sul B. va posto l'organico volume miscellaneo apparso in occasione del quarto centenario della morte del poeta, Studi su M. M. B., Bologna 1894, comprendente: G. Ferrari, Notizie sulla vita di M. M. B., pp. 1-65; N. Campanini, M. M. B. al governo di Reggio, pp. 67-116; P. Rajna, L'O. di M. M. B., pp. 117-146; A. Luzio, Isabella d'Este e l'O. I., pp. 147-154; P. Giorgi, Sonetti e canzoni di M. M. B., pp. 155-184; A. Campani, Le egloghe latine di M. M. B., pp. 185-227; R. Renier, I Tarocchi di M. M. B., pp. 229-259; C. Tincani, M. M. B. traduttore, pp. 261-307; C. Antolini, M. M.B. storico, pp. 309-320; G. Mazzoni, Le egloghe volgari e il Timone di M. M. B., pp. 323-355; Lettere inedite di M. M. B., pp. 357-463; Documenti pertinenti alle notizie sulla vita del B., pp. 465-478.
Da questi studi discesero alcuni profili del poeta: Ph. Monnier, M. M. B., in Bibliothèque univer. et Revue suisse, n. 198 (1895); E. Santini, M. M. B., Livorno 1912; A. Panzini, M. M. B., Messina 1918, superati e assorbiti per altro dal M. M. B. del Reichenbach (1929) già citato, al quale si rifanno gli scritti posteriori, fra cui degni di nota sono V. Procacci, La vita e l'opera di M. M. B., Firenze 1931, e più ancora A. Zottoli, Di M. M. B., Firenze 1937. Recentemente il Reichenbach ha compendiato il suo lavoro in M. M. B. per la raccolta La letteratura italiana,I Minori dell'editore Marzorati, I, Milano 1960, pp. 663-688.
Dopo il fondamentale lavoro di P. Rajna, Le fonti dell'Orlando Furioso, Firenze 1875, si sono applicati alle ricerche sulle fonti del poema del B.: V. Crescini, Orlando nella Chanson de Rolande nei Poemi del Boiardo e dell'Ariosto, in Propugnatore, XIII (1880), pp. 228 ss.; C. Searles, Boiardo's Orlando Innamorato und seine Beziehungen zur altfranzösischen erzählenden Dichtung, Lucka 1901; Id., The Leodilla episode, in Modern Languages Notes, XVII (1902), coll. 329 ss.; G. Razzoli, Per le fonti dell'Orlando innamorato, parte 1, Milano 1901; L. Cesati, Contatti e interferenze tra il ciclo brettone e il carolingio prima del Boiardo, in Archivum romanicum, XI (1927), pp. 108 ss.; A. Sorrentino, La leggenda troiana nell'Orlando innamorato, in Bulletin italien, XVII (1917), pp. 22 ss.; E. H. Gardner, The Arthurian legend in Italian literature, London-New York 1930, pp. 175 ss.; F. Foffano, Echi danteschi nel poema del B., in Giorn. storico della lett. ital., XCIX (1932), pp. 271-274. Fra gli studi sul poema del B., vedi F. Foffano, Il poema cavalleresco, Milano 1905, pp. 3-53; O. Salvadori, Scorci e profili boiardeschi, in Nuova Antol., 1º maggio 1907, pp. 10-19; L. Pirandello, L'umorismo, Lanciano 1908, pp. 85 ss.; L. Azzolina, Il mondo cavall. in B., Ariosto, Berni, Palermo 1912, passim; A. Panzini, Le sventure di un capolavoro, in Marzocco, 9 febbr. 1913; B. Croce, Ariosto, Shakespeare e Corneille, Bari 1920, pp. 67 ss.; H. Hauvette, L'Arioste et la poésie chevaleresque à Ferrare au début du XVI siècle, Paris 1927, pp. 53-83; E. Rho, Un romanziere del quattrocento, in Riv. d'Italia, XXXI (1928), I, pp. 213-227; A. Panzini, La bella storia di Orlando innamorato e poi furioso, Milano 1933; A. Zottoli, Dal B. all'Ariosto, Milano 1934; E. Carrara, I due Orlandi, Torino 1935; G. Reichenbach, L'Orlando innamorato, Firenze 1936; E. Allodoli, Grandezza e novità del B., in Rinascita, III (1940), pp. 3-70; E. Bigi, La poesia del B., Firenze 1941; L. Russo, M. M. B., in Belfagor, X (1955), pp. 365-392; A. Scaglione, Chivalry and idyllic Poetry in the Italian Renaissance, in Italica, XXXIII (1956), pp. 41 ss. Vedi inoltre: A. Albertazzi, La novella di Fiordiligi, in Parvenze e sembianze, Bologna 1892, pp. 201 ss.; P. Micheli, Dal B. all'Ariosto, Conegliano 1898; P. Savi-Lopez, L'episodio di Iroldo e Tisbina, in Racc. di studi dedicati ad A. D'Ancona, Firenze 1901, pp. 53-57; M. Belsani, I rifacimenti dell'Innamorato, in Studi di lett. ital., IV, Napoli 1902, pp. 311 ss.; V, ibid. 1903, pp. 1 ss.; P. Nediani, Dal B. al Berni, Catania 1905; D. Rosa, Agricane, in Studi in on. di F. Torraca, Napoli 1922, pp. 307 ss.; S. Caramella, L'Asia nell'Orlando innamorato, in Boll. della soc.geog. ital., s. 5, XII (1923), pp. 44 ss.; C. Landi, Demogorgone nell'Orlando innamorato, Palermo 1930; S. Chimenz, La rappresentazione dell'amore nel poema del B., Roma 1931; J. Wyss, Virtù und Fortuna bei B. und Ariost, in Beiträge zur Kultur des Mittelalters, Leipzig-Berlin 1931, pp. 1-94; A. Capasso, L'apparizione di Angelica, in Tre saggi sul Rinascimento, Genova 1939, pp. 9-78; G. Buzzi, B. novelliere, in Saggi di Umanismocristiano, III (1948), pp. 73 ss.; A. Bonfatti, Il fiabesco dell'Innamorato, in Humanitas III (1948), pp. 469 ss.; G. Ponte, Le fontane d'Ardenna nell'Orlando Innamorato, in Giorn. stor. della lett. ital., CXXIX (1952), pp. 382 ss.; M. Spaziani, Traduzioni e riduzioni francesi dell'Orlando Innamorato, in Rivista di lett. mod., V (1954), pp. 281 ss.; G. Wiese, Elem. tardogotici nella lett. it. del Quattrocento, in Riv. di lett. mod.e comparata, X (1967), pp. 190 ss. Studi sugli Amorum libri: oltre a quelli citati ad altro proposito, G. Albini, M. M. B., in Nuova Antologia, il sett. 1895, pp. 39 ss.; M. Ruta, L'amore nella lirica del B., Caserta 1902; O. Salvadori, Sul Canzoniere di M. M. B., Spezia 1903; G. Neppi, La pluralità degli amori cantati dal B. nel suo canzoniere, in Giorn. stor. della lett. ital., XLII (1903), pp. 360 ss.; E. Fernandez, Le fonti del canzoniere del B., in Archivumromanicum, VI (1922), pp. 386 ss.; O. Salvadori, M. M. B. a Roma e le ultime righe del suo Canzoniere, in Nuova Antologia, 1º genn. 1926, pp. 49-56; G. Fatini, Le rime di L. Ariosto, in Giorn. stor. della lett. it., suppl. 25, 1934, capp. I e V; G. Contini, Breve allegato al Canzoniere del B., in Circoli, V (1935), pp. 10-12, ora in Esercizi di lettura, Firenze 1946, pp. 291-308; A. Buda, La fine di un "gioco". Nota agli Amorum libri del B., in Convivium, VII (1935), pp. 27-30; C. Altucci, B. lirico, in Giorn. stor. d. lett. ital., CVI (1936), pp. 39-80; A. Simone, Il canzoniere di M. M. B., Biella 1939; A. Scaglione, Contributo alla quistione del "Rodundelus" del B., in Giorn. stor. della lett. ital., CXXVIII (1951), pp. 313 ss.; F. Piemontese, La formaz. del canzoniere boiardesco, Milano 1953; G. Gostoli, Dell'unità dell'ispirazione lirica nella poesia di M. M. B., in Lettere Moderne, IX (1959), pp. 437-456; A. Benvenuti, Tradizioni letterarie e gusto tardogotico nel canzoniere di M. M. B., in Giorn. stor. della lett. ital., CXXXVII (1960), pp. 533-592; P. V. Mengaldo, La lingua del B. lirico, Firenze 1963. Sugli altri versi italiani: E. Carrara, La poesia pastorale, Milano s.a., pp. 180-187 e 251-255; E. Giorgi, Le più antiche bucoliche volgari, in Giorn. stor. della lett. ital., LXIV (1915), pp. 140-152; F. Piemontese, Allegoria e poesia nell'egloga VI del B., in Lettere italiane, VI (1954), pp. 165-181; G. Ponte, Esigenze politiche e aspirazioni poetiche nelle egloghe volgari del B., in La rass. della lett. ital., LXIV (1962), pp. 22-38; G. Reichenbach, Saggi di poesia popolare fra le carte del B., in Giorn. stor. della lett. ital., LXXVIII (1921), pp. 29-53; E. W. Bond, Lucian and B.in Timon of Athens, in Modern Languages Review, XXVI (1931), pp. 73 ss.; G. Ponte, M. M. B. scrittore di teatro, in Rass. della lett. it., LXVI (1962), pp. 286-302. Sui versi latini oltre a quelli già citati: G. Carducci, La gioventù di L. Ariosto e la poesia latina in Ferrara, in Opere, ed. naz. XIII, 1936, pp. 55-114; O. Coppoler Orlando, Le poesie latine di M. M. B., Palermo 1903; O. Salvadori, Le egloghe latine di M. M. B., in Riv. d'Italia, VIII (1905), pp. 951-934; G. Ponte, Imitazione e originalità nei carmina e nei pastoralia, in Rass. della lett. ital., LXV (1961), pp. 83-96. Sulle versioni, oltre ai citati studi del Tincani e del Reichenbach, G. Albini, I versi nell'Erodoto del B.; in Giorn. stor. della lett. ital., LXIX (1892), pp. 307 ss.; D. Fava, Muratori e Canneti, in Atti e Mem. della Dep. di storia patria per le province mod., s. 7, VIII (1933), pp. 159-191; E. Rossi, Nota bibliografica circa il B. traduttore, in La Bibliofilia, XXXIX (1937), pp. 360-369; Id., Un plagio del B. traduttore?, in Giorn. stor. della lett. ital., CXIV (1939), pp. 1-25. Sulle lettere vedi nella citata edizione delle Opere volgari di M. M. B., a cura di P. V. Mengaldo, Bari 1962, le pp. 444-455.