Boiardo, Matteo Maria
Matteo Maria Boiardo (Scandiano 1441-1494), di famiglia feudataria degli Estensi, visse tra Scandiano, Ferrara, Modena (di cui fu governatore tra il 1480 e il 1482) e Reggio (di cui fu capitano nel 1487). Dotato di una seria educazione umanistica, le sue prime opere sono latine: i Pastoralia e gli Epigrammata. Per assecondare gli interessi del duca Ercole volgarizzò la Ciropedia di Senofonte e le Storie di Erodoto (da versioni latine), l’Asino d’oro di Apuleio e il dialogo Timone di Luciano. Della fine degli anni Sessanta è la composizione degli Amorum libri. Nel 1483 uscì a Reggio la prima edizione in due libri dell’Inamoramento de Orlando e nel 1487 a Venezia la seconda, con l’aggiunta di un terzo libro incompiuto.
Boiardo sperimentò vari generi letterari in un ambiente, quello estense, propulsore di cultura volgare in contiguità con quella umanistica (Tissoni Benvenuti 1972: 49-53). Costituisce dunque un caso esemplare di quei germi di unificazione linguistica che nel corso del Quattrocento favorirono il processo di convergenza dei diversi volgari verso formazioni scritte sovramunicipali, le cosiddette ➔ koinè, che portò alla crescita del volgare nella letteratura. Gli esperimenti dell’ambiente letterario fiorentino, aperti al volgare contemporaneo e alle forme popolari, furono di stimolo per gli altri centri italiani a prendere coscienza delle possibilità espressive delle proprie formazioni linguistiche, provandole in opere connotate più o meno localmente a seconda dei generi. Partito da un’esperienza pienamente latino-umanistica (i Pastoralia), Boiardo approdò al poema cavalleresco, attraversando la lirica con il canzoniere, la bucolica volgare, il teatro con il Timone: tutte opere in versi, in cui il volgare poteva contare su consolidate tradizioni, diversamente dalla prosa, che nei volgarizzamenti stentava a trovare i corrispettivi rapportabili con la lingua antica (Matarrese 1998: 627 segg.). Dunque una produzione in versi linguisticamente e stilisticamente diversificata: verso l’alto le egloghe volgari, con gli arditi latinismi; verso il basso il poema, più vicino al parlato e più connotato da tratti municipali; nel mezzo gli Amorum libri, la cui medietà di lingua è favorita dall’adesione al modello petrarchesco.
La poesia lirica era il genere letterario più elevato e pertanto tendente a un ideale di lingua aulica restia a tratti municipali (Tavoni 1992: 85 segg.). E il canzoniere di Boiardo, gli Amorum libri, narrazione della sua vicenda amorosa, è il maggior esempio di avvicinamento al toscano letterario: una lingua raffinata, in cui l’elemento municipale entra soprattutto nella fonetica, e in parte nella morfologia, mentre il lessico, più compiutamente soggetto ad autocontrollo, ne è totalmente indenne.
Qualche esempio: nel vocalismo tonico è in genere accolta l’anafonesi, salvo qualche gionto, ponto, losenghe, benegno. Quanto alla dittongazione, problematica nei dialetti settentrionali, troviamo il dittongo fiorentino in schiera, lumiera e per estensione ipercorrettiva in spiero, mieco, tieco; il monottongo nelle forme della tradizione lirica (foco, loco, novo, ecc.) e per contagio in dole, sòle; fanno inoltre sporadica comparsa i dialettali toi e soi. Nel vocalismo atono, dialettale è la chiusura e > i in mimoria, ligera, e con l’appoggio del latino in nimbo, cinni. Nel consonantismo non mancano forme come giazo «ghiaccio», braza «braccia», ziglio, zelosia e ipercorrettismi settentrionali come zoglia «gioia» e noglia «noia». Nei verbi si nota il tipo locale in -i della seconda pers. plur. (levasti, lasiati). Sono fenomeni per lo più condivisi dalle altre koinè letterarie e già con un notevole grado di toscanizzazione.
Se per il canzoniere il modello è quello petrarchesco, per il poema il modello, per lo meno alla superficie, è quello dei popolareschi cantari in ottava rima, che Boiardo innesta su una fitta rete di riferimenti sia medievali romanzi sia classici, e innova nella tematica con l’introdurre l’amore, eredità dei racconti arturiani, in un contesto epico.
La narrativa cavalleresca carolingia e arturiana godeva a Ferrara di una lunga affezione, e sull’onda del rilancio del volgare vede adesso la sua elevazione, che arriverà al suo massimo esito con ➔ Ludovico Ariosto, e che con Boiardo si svolge ancora in un ambito municipale e cortigiano. Del genere canterino Boiardo riprende le modalità discorsive, legate alla finzione della recita connaturata al genere e che hanno nella ➔ ottava rima la forma elettiva di espressione. La finzione dell’oralità è da Boiardo portata al massimo di consapevolezza funzionale e stilistica: un raccontare in ‘presa diretta’ in cui il narratore prende uno spazio nuovo e anzi sovrano, che gli consente di passare da un filo all’altro delle storie con la tecnica dell’entrelacement («lascio questo e prendo quello»). Inoltre tale finzione permette al narratore quel tono libero e sbrigliato, quella sprezzatura stilistica che è caratteristica speciale del poema boiardesco. Dai modi canterini deriva la tecnica formulare, il ricorrere di epiteti, locuzioni, serie di rime, facilmente intercambiabili (Praloran 1998: 862), che fanno come da basso continuo del discorso, costituendone il fondamento della stilizzazione epico-cortese (fiorito ziglio, matutina stella, cavaliere adorno, baron franco, alto e soprano, prodo e cortese, ardito e baldo, ecc.), e che Boiardo arricchisce inserendovi elementi della tradizione lirica alta (sbigottito e smorto, dispietata e dura, aspri e crudi, altera e disdignosa, ecc.).
Ci sono poi i ricorrenti termini del linguaggio guerresco, usati in una pluralità di accezioni come sbaratare «sbaragliare, conciare male», martellare «colpire ripetutamente, sferrare (un colpo), tormentare», trabuccare «inciampare, disarcionare», flagello «colpo violento, furia», e le locuzioni a gran fracasso, menare a fracasso, menar tempesta, dare o avere travaglia, ecc. Il lessico è arricchito dall’uso di termini specifici e tecnici, come, per es., quelli relativi al cavallo: ringere «nitrire», borfare le nare «sbruffare», broccare e calcagnare «spronare»; e le locuzioni a tutta briglia, a briglia tratta, a spron battuti, d’un chiuso trotto, ecc.; oppure i termini del duello: scontro di lanza, roversone, manroverso e mandreto, menar di taglio, di ponta, di piattone, a l’asta bassa, combater a ritreto, cioè «in difesa», ecc.: un lessico di tradizione cavalleresca, a volte di provenienza francese e in alcuni casi di prima attestazione (Trolli 2003; Matarrese 2004: 159 segg.).
L’opera con la sua dimensione pluridiscorsiva sperimenta tutti i registri, dal nobile al triviale, dall’aulico al colloquiale e al popolare. Per quest’ultima componente sono da segnalare i settentrionalismi più o meno necessari in quanto legati all’ambito quotidiano: ancoi «oggi» (II, xii, 2), beccaro «macellaio» (I, viii, 41), bisson «serpente» (II, xi, 28), brena «briglia», nell’espressione idiomatica se rodea la brena «mordeva il freno» (II, xxiii, 39), giocularo «buffone» (II, xii, 40), gorga «gola» (I, xiii, 17), strope «ritorte delle fascine» (I, xii, 9), ecc. E anche dialettalismi più accusati e di forte risonanza fonica: barbotare «borbottare» (III, iv, 57), insprocare «infilzare» (II, xxix, 61), screcienire «scricchiolare dei denti» (I, xv, 33), sparpagnare «sparpagliare» (II, xvi, 19), ecc. (Trolli 2003; Matarrese 2004: 167 segg.).
Siamo nell’ambito del realismo espressivo, su cui agisce la memoria di ➔ Dante in forza anche di una «affinità elettiva» (Mengaldo 1963) con la natura di quel linguaggio, capace di tutti gli stili e in grado di stimolare le risorse del volgare, e di dar voce alle diverse tonalità del discorso, ora liriche, ora grottesche, ora drammatiche, ora tecniche. Della Commedia dunque, oltre a citazioni centonarie, lacerti di versi diventati locuzioni comuni (selva oscura, infernal tempesta, fuoco eterno, alto romore, e altro), compaiono riprese più specifiche, quali anima prava (I, xviii, 24), gente dolorose (I, xvii, 38), occhi griffagni (I, i, 10), ecc., e legate a parole di forte impatto fonico-semantico. Qualche esempio: «Orlando se lasciò cader a terra, / tra l’erbe come cieco brancolando» (II, iv, 54) richiama «ond’io mi diedi / già cieco a brancolar» di Inf. XXXIII, 72; oppure il gigante Balisardo quando prende le sembianze di un demonio: «E’ l’ale grande avea de papastrelo / e le man agrifate come uncino / […] / soffiando il foco e degrignando e denti» (II, xi, 29), che richiama le «grand’ali» di «vipistrello» di Lucifero e il suo «graffiar» i dannati di Inf. XXXIV, 46-59 e il «digrignare li denti» dei diavoli di Inf. XXI, 131.
Il rapporto confidenziale che il narratore ha stabilito con il suo uditorio gli consente di far ricorso a frasi idiomatiche e proverbiali, che lo sintonizzano con il proprio pubblico, conferendo sapidità e leggerezza al racconto, come nel caso seguente: Agricane e Sacripante, che nel darsi colpi all’ultimo sangue, «ciascun di vendicarsi ben procaza, / e rendossi pan fresco per fogaza» (I, xi, 10). Proprie del genere le colorite ingiurie che si scambiano i cavalieri e che Boiardo incrementa: dai comuni bastardone, can renegato, bruta canaglia ai più ricercati gente da trincare «capace solo di bere all’osteria» (I, ii, 63), schiuma da cucina «immondizia, rifiuto» (II, xvii, 44), sacconaccio di letame pieno (I, iii, 13), ecc.
La natura ‘bassa’ del genere fa accogliere con larghezza i tratti municipali, testimoniati dalle stampe più antiche dell’opera, quella del 1487 in due libri e quella del 1506, che conservano una veste linguistica vicina a quella in cui i contemporanei lessero l’opera e più in linea con quella dell’originale nel tessuto linguistico. Tessuto molto più permeato di elementi municipali rispetto al canzoniere, come si è detto, più nei primi due libri che nel terzo, il cui testimone più tardo risente forse già di interventi modernizzanti.
Qualche dato esemplificativo: nel vocalismo tonico è frequente la chiusura e > i (sira, friza, schirzo); è frequente la mancanza di anafonesi (strengere, lengua ma anche lingua; ongie, ongiva), come pure la metafonesi nelle uscite verbali (aviti, potriti, vedriti, ecc.) e in qualche sporadico quisti. Si segnalano gli iperdittongamenti ambeduoi, anguoscia, remuote e vari casi di tuor «togliere» nel dialogo, quali «Baron, tuòteme davante» («toglimiti dai piedi»: I xx 46) e «tuòtila, per Macone, e vane via» («prenditela»: I xxv 20), a garantire con il suo registro basso il tono parlato della battuta. Nel vocalismo atono frequenti il passaggio e > i (mità, mischino, tinore, ecc.) e forme come soperbia, robare, foria, folminare, ecc. Notevole è l’esito ol da au in oldir «udire», fin dalla prima ottava del poema («Signori e cavalier che ve adunati / per oldir cose dilettose e nove», Inamoramento de Orlando I, i, 1-2). E ancora, se nei temi del futuro e del condizionale della prima coniugazione -ar- oscilla con -er-, come negli Amorum, nel poema lo si trova anche al di fuori dei temi verbali (camarier, cavalaria). Nel consonantismo se l’esito settentrionale del nesso -gl- in giazo «ghiaccio», singiottendo «singhiozzando», ingiotirsi «inghiottirsi», è condiviso dal canzoniere, solo del poema è la semivocale i rispetto alla laterale palatale toscana, in maia «maglia», fioli e fio «figlio», come pure l’esito del nesso -gl- in svegiava «svegliava» e vigiar «vegliare». Per le assibilate o affricate in corrispondenza delle palatali toscane, con zoir e zolioso, anche del canzoniere, troviamo zergo, zurma, lanza, arzone, ecc. Indicativa nei pronomi la frequenza della forma tonica dialettale mi in sintagmi preposizionali (a mi, per mi), assolutamente assente negli Amorum; e l’uso di mi come soggetto, che compare solo in questo luogo: «“E mi”, diceva, “qua non ho che fare”» (II, xxiv, 53), dove la forma spiccatamente dialettale conferisce forza illocutiva alla battuta del personaggio. Un esempio della energia narrativa del Boiardo nel mettere a frutto le possibilità del suo volgare.
L’Inamoramento de Orlando è espressione di una stagione linguistica e letteraria che stava per concludersi. La diversa strada presa dal volgare letterario avrebbe portato a riformarne la lingua secondo il gusto classicistico del ➔ Bembo, snaturandone la fisionomia originaria. È quanto accade con l’edizione del 1545 a cura di Lodovico Domenichi, in cui si fissa anche un mutamento del titolo, Orlando innamorato, che lo adegua al suo più fortunato successore Orlando furioso (Matarrese 2004: 201-212).
Boiardo, Matteo Maria (1999), L’inamoramento de Orlando, edizione critica a cura di A. Tissoni Benvenuti & C. Montagnani, Milano - Napoli, Ricciardi.
Boiardo, Matteo Maria (2002), Amorum libri tres, edizione critica a cura di T. Zanato, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura.
Boiardo, Matteo Maria (2009), Timone. Orphei tragoedia, a cura di M. Acocella & A. Tissoni Benvenuti, Scandiano, Centro studi Matteo Maria Boiardo; Novara, Interlinea.
Anceschi, Giuseppe & Matarrese, Tina (a cura di) (1998), Il Boiardo e il mondo estense nel Quattrocento. Atti del Convegno internazionale di studi (Scandiano - Modena - Reggio Emilia - Ferrara 13-17 settembre 1994), Padova, Antenore, 2 voll.
Matarrese, Tina (1998), Il volgare a Ferrara all’epoca del Boiardo: dall’emiliano ‘illustre’ all’italiano ‘cortigiano’, in Anceschi & Matarrese 1998, vol. 2º, pp. 611-645.
Matarrese, Tina (2004), Parole e forme dei cavalieri boiardeschi, Novara, Interlinea.
Mengaldo, Pier Vincenzo (1963), La lingua del Boiardo lirico, Firenze, Olschki.
Praloran, Marco (1998), «Lingua di ferro e voce di bombarda». La rima nell’“Inamoramento de Orlando”, in Anceschi & Matarrese 1998, vol. 2º, pp. 861-907 (rist. in Id., Le lingue del racconto. Studi su Boiardo e Ariosto, Roma, Bulzoni, 2009, pp. 15-52).
Tavoni, Mirko (1992), Il Quattrocento, in Storia della lingua italiana, a cura di F. Bruni, Bologna, il Mulino.
Tissoni Benvenuti, Antonia (1972), Matteo Maria Boiardo, in Ead., Il Quattrocento settentrionale, in Letteratura italiana Laterza, Roma-Bari, Laterza, vol. 15º, pp. 47-120.
Trolli, Domizia (2003), Il lessico dell’“Inamoramento de Orlando”, Milano, Unicopli.