NORIS, Matteo
NORIS, Matteo. – Nacque probabilmente a Venezia intorno al 1640.
Tassini (1886, p. 452) riporta notizie sui Noris residenti a Venezia in «Birri, a San Canciano» e li descrive come un’agiata famiglia di commercianti, eredi di un Matteo Noris da Bergamo, cittadino veneziano dal 1581. Alcuni componenti della famiglia risultano proprietari di assicurazioni marittime sul finire del Cinquecento e locatari della loro attività in Rialto, nel pieno centro commerciale di Venezia (Tenenti, 1959, pp. 466, 508, 550); la dimora acquistata in contrada Birri risulta di proprietà della famiglia fino al 1740. Tuttavia né i libri dei battesimi né gli ‘squarzi di contrada’ (registri dei proprietari di case e affittuari compilati a fini fiscali) dell’Archivio parrocchiale di S. Canciano (Venezia, Archivio storico del Patriarcato) attestano il nome di Matteo; inoltre la Redecima del 1661 riporta solo tre Noris residenti in città, nessuno in condizioni economiche particolarmente agiate. Alcuni esponenti della famiglia, perduto l’antico prestigio, tornarono forse a risiedere fuori Venezia. Sembra peraltro che la famiglia non abbia mai reciso i legami con la città d’origine; nacque a Verona, ma da padre bergamasco, il cardinale Enrico Noris (1631-1704), custode della Biblioteca Vaticana, teologo alla corte di Cosimo III di Toscana e istruttore del giovane Ferdinando de’ Medici (1663-1713); costui risedette a Venezia e si interessò marginalmente di teatro (Spinelli, 2010, pp. 117, 171). Se si ipotizza una parentela tra Enrico e Matteo, questa potrebbe aver costituito un tramite con la corte medicea, da cui il librettista ebbe le uniche commissioni non veneziane oltre al Marc’Antonio per Genova (1692).
Il nome «dell’incomparabile Matteo Noris» è citato nei Gedancken von der Opera (1708) del librettista amburghese Barthold Feind (1687-1721) tra i drammaturghi di spicco nel panorama europeo del secondo Seicento (Bianconi, 1991, p. 334).
Fu impiegato come ‘scontro’ (controllore) alle ‘Razon nove’, organo di magistratura della Repubblica preposto alla riscossione delle imposte e alla revisione e chiusura contabile dei registri di cassa degli uffici e delle magistrature in Rialto (Glixon - Glixon, 2005, p. 111). Il suo nome ricorre in un elenco di illustri scrittori veneziani compilato da Giulio Bernardino Tomitano e citato nelle Iscrizioni veneziane di Emmanuele Cicogna (1824-53, pp. 563 s.). Un suo sonetto è nei Fiori d’ingegno … in lode dell’effigie della Primavera dipinta da Carlo Marati raccolti da Giovanni Battista Magnavini (1685, p. 60), silloge che figura tra le opere della veneziana Accademia dei Dodonei, fondata da Jacopo Grandi e Antonio Ottoboni (nipote del futuro papa Alessandro VIII) e patrocinata dal procuratore Angelo Morosini (Maylender, II, 1927, p. 217 s.): Noris potrebbe averne fatto parte.
La paternità dei drammi di Noris è quasi sempre dichiarata nelle dediche (spesso rivolte a potentati stranieri che frequentavano il carnevale veneziano) o nei frontespizi; fanno eccezione LaSemiramide (Ivanovich, 1688), Il demone amante e Licurgo (Bonlini, 1730; Groppo, 1745), Attilio Regolo (Weaver - Weaver, 1978, p. 174). Debuttò come drammaturgo nel teatro di S. Cassiano di Venezia con LaZenobia(1666, musica di Giovanni Antonio Boretti). Il clamoroso flop dell’opera gli procurò una disputa legale con lo stampatore Camillo Bortoli, cui aveva ceduto i diritti sui proventi della vendita dei libretti in cambio di una liquidazione corrisposta in gioielli (Glixon - Glixon, 2005).
Negli anni Settanta e Ottanta lavorò continuativamente nei teatri dei Grimani, il Ss. Giovanni e Paolo e il S. Giovanni Grisostomo. Per il primo scrisse Marcello in Siracusa (carnevale 1670, musica di Boretti), Attila (carnevale 1672, Pietro Andrea Ziani), Domiziano (carnevale 1673, Boretti), Numa Pompilio (carnevale 1674, Giovanni Maria Pagliardi), Diocleziano (autunno 1674, Carlo Pallavicino), Galieno (carnevale 1676, Pallavicino), Totila (carnevale 1677, Giovanni Legrenzi), Dionisio overo la Virtù trionfante del Vizio (carnevale 1681, Petronio Franceschini, completata da Giovanni Domenico Partenio), Bassiano overo Il maggior impossibile (autunno 1681, Pallavicino) e Traiano (carnevale 1684, Giuseppe Felice Tosi); presentò inoltre due rifacimenti di drammi altrui: LaSemiramide di Giovanni Andrea Moniglia (autunno 1670, Pietro Antonio Ziani) e l’Astiage, tratto dall’Alcasta di Giovanni Filippo Apolloni(autunno 1676, Giovanni Bonaventura Viviani).
Ricorre in questi lavori il tema del tiranno, di solito incarnato in un imperatore romano malizioso e vizioso (Galieno, Domiziano, Diocleziano) o in un condottiero barbaro (Attila, Totila), che insidia una o più coppie d’amanti. L’ambientazione antica è suffragata dal ricorso alle fonti classiche (Tito Livio per Numa Pompilio, l’Historia Augusta per Galieno e Domiziano).
Esordì al S. Giovanni Grisostomo col Flavio Cuniberto (autunno 1681, musica di Giovanni Domenico Partenio) e continuò a comporvi libretti per i compositori Carlo Pallavicino e Carlo Francesco Pollarolo: per l’uno scrisse Carlo re d’Italia (carnevale 1682), Licinio imperatore (autunno 1683), Il re infante (inverno 1683), Ricimero re de’ Vandali (inverno 1684), Penelope la casta (inverno 1685) e Amore inamorato (inverno 1686); per l’altro creò Tito Manlio (carnevale 1697, ma data per la prima volta a Pratolino nel settembre 1696; l’attribuzione è confermata dalle ristampe di Ferrara e Napoli 1698), Marzio Coriolano (carnevale 1698), Il ripudio d’Ottavia, (carnevale 1699), Il colore fa la regina (carnevale 1700), Il delirio comune per l’incostanza dei genii (inverno 1700), Catone uticense (carnevale 1701), L’odio e l’amor (inverno 1702), Il giorno di notte (inverno 1703).
Questi lavori si distinguono per i frequenti e fastosi cambi di scena (11 nel Re infante, 14 nell’Amore inamorato, 18 in Carlo re d’Italia) e l’abbondanza di personaggi (24 in Carlo re d’Italia, 28 in Penelope la casta). Gli intrecci si dipanano in due diversi fili tra loro interconnessi: in Licinio imperatore, per esempio, la vicenda pubblica della detronizzazione dell’imperatore s’interseca con quella privata fornita dalle curiose vicende amorose di Quintilio, Eusonia e Getide. La caratterizzazione dei tiranni è sovente virata al comico, la loro dissolutezza si muta in ‘effeminatezza’, la descrizione delle loro malefatte punta al grottesco e al paradossale: Domiziano, nel dramma omonimo, esce in scena dapprima camuffato da statua di Marte per insidiare una giovane di cui s’è invaghito (I,5), poi in abito da Nettuno per prender parte a una naumachia (II, 11), infine «da pastore» (III,19) per eleggere, novello Paride, la più bella tra le sue concupite (tra cui un paggio a sua volta travestito). Similmente si comporta l’eroe eponimo del Galieno, che compare «in abito di donna» in I, 16 e II, 5-10.
Lavorò anche per i teatri di S. Salvatore (I duo tiranni al soglio, inverno 1679, Antonio Sartorio; Furio Camillo, carnevale 1692 e Nerone fatto Cesare, inverno 1692, entrambi musicati da Giacomo Antonio Perti; Alfonso primo, carnevale 1694, Pollarolo; Laodicea e Berenice, inverno 1694, Perti; La finta pazzia d’Ulisse, inverno 1696, Marc’Antonio Ziani) e di S. Angelo (Il demone amante overo Giugurta, inverno 1685, Pollarolo; Il Licurgo overo il cieco d’acuta vista, carnevale 1686, Pollarolo; L’Amore figlio del merito, carnevale 1694, M.A. Ziani; I regi equivoci, carnevale 1697, Pollarolo; Virginio consolo, autunno 1704, Antonio Giannettini; La regina creduta re, inverno 1706, Giovanni Bononcini; Berengario re d’Italia, carnevale 1710, Girolamo Polani; Le passioni per troppo amore, carnevale 1713, Johann David Heinichen). L’inganno trionfante in amore, dato al S. Angelo nel 1725 con musica di Antonio Vivaldi, è un lavoro postumo forse rivisto da Giovanni Maria Ruggieri (Strohm, 2008, pp. 347-350).
Il demone amante del 1785 fu censurato perché ritenuto offensivo contro la religione: l’intreccio, basato sugli inganni d’uno scaltro pretendente – il re berbero Giugurta – ai danni di due ingenue fanciulle, tocca il tema della possessione diabolica (I, 3; I, 10; II, 3). Una seconda edizione del dramma preparata per la medesima stagione, assai rimaneggiata e col titolo ridotto a Giugurta, reca nell’ultimo foglio l’imprimatur e l’indicazione della registrazione presso la magistratura degli esecutori contro la bestemmia. Nei cinque anni successivi a questo scandalo Noris non scrisse drammi per le scene veneziane.
Nel 1688 ricevette una commissione per le nozze del principe Ferdinando di Toscana con Beatrice di Baviera: scrisse Il greco in Troia, ‘festa teatrale’ data in quello stesso anno a Firenze nel teatro della Pergola con musica di Giovanni Maria Pagliardi. Per il teatro della villa del principe a Pratolino scrisse poi il già citato Attilio Regolo (1693) e Tito Manlio (1696, Pollarolo).
Nella prefazione del Greco in Troia descrive l’«invenzione» come «il primo scopo di chi compone». Se altrove tale concetto è introdotto a mo’ di giustificazione per il mancato rispetto delle regole aristoteliche, qui rivendica piuttosto la piena libertà di manipolare miti e fatti storici antichi («la favola è il primo elemento della poesia: questa è del poeta, l’istoria dell’istorico»).
Al principe Ferdinando dedicò inoltre il voluminoso trattato L’animo eroe (Venezia 1689), un compendio di «attioni istoriche de’ più famosi antichi» greci e latini. Nella prefazione cita i propri drammi musicali, la cui stesura appare strettamente intrecciata con quella dell’epitome: «Come può una sola penna in un sol tempo spiegar due voli? Un solo arciero a due segni vibrar il dardo? Un solo viandante caminare per due sentieri? Io in un tempo stesso ho scritto prose, ho composto rime. Nel tempo che ho composti gli ultimi miei drami, rappresentati nei teatri di Venezia […] ho distese le prose che ora tu leggi. Ho avute le due applicazioni». Sei dei personaggi trattati nell’Animo eroe sono eponimi di altrettanti drammi: Marcello (Marcello in Siracusa), Furio Camillo, Attilio Regolo, Marc’Antonio, Catone l’uticense e Virginio (Virginio consolo).
Nel 1692 scrisse il Marc’Antonio per il teatro del Falcone di Genova, dove nel 1676 era andato in scena il Marcello in Siracusa (sono questi gli unici due suoi drammi visti a Genova). Soprattutto negli anni Novanta mostrò un interesse sempre più evidente per le fonti storiche, che non forniscono più il mero sfondo alla vicenda ma informano di sé l’intero dramma, pur sistematicamente alterato con l’inserimento degli accidenti necessari all’obbligatorio lieto fine.
Il Marc’Antonio affronta il tema del regicidio: il dramma si apre col rogo del cadavere di Cesare, da poco assassinato, mentre Bruto e i congiurati inneggiano alla libertà ottenuta. Sebbene l’azione di questi ultimi venga tacciata d’empietà, essi tuttavia non vengono puniti e anzi si riconciliano col fantasma di Cesare. Sul regicidio Noris si esprime, nell’Animo eroe, in termini ambivalenti: da un lato «il re è sempre sacro ancorché tiranno»; dall’altro, «se l’uomo talvolta uccide il tiranno re, il Cielo è che l’uccide colla destra dell’uomo».
Vari drammi di Noris furono apprezzati anche fuori Venezia: Flavio Cuniberto fu dato a Modena (1688, musica di Domenico Gabrielli), Livorno (1690), Palermo (1692), Napoli (1693), Firenze (1697, Partenio) Genova (1702), Pratolino (1702, Alessandro Scarlatti) e Lucca (1706). Laodicea e Berenice fu ripresa a Firenze nel teatro del Cocomero nel 1698 (Perti). È degna di nota la fortuna romana di alcuni lavori: Nerone fatto Cesare comparve nel 1695 al teatro Capranica (un rifacimento dello stesso dramma fatto da Pietro d’Averara per la musica di Paolo Magni, col titolo mutato in Agrippina, giunse a Milano nel 1703), dove l’anno successivo fu dato anche Il Flavio Cuniberto con musica di Luigi Mancia (da questa versione Nicola Francesco Haym trasse il Flavio, re de’ Longobardi per Georg Friedrich Händel, Londra 1723; edizione moderna in Bianconi - La Face, 1992 pp. 301-323). Penelope la casta, notevolmente rimaneggiata (forse da Silvio Stampiglia), fu allestita nel teatro Tordinona (1696, musica di Perti); e ancora Il Furio Camillo al Tordinona e Il re infante al Capranica nel 1696 (Mancia). Un infelice rifacimento del Traiano per mano del cardinal Pietro Ottoboni (Franchi, 1988, p. 715), col titolo L’Eusonia overo La dama stravagante, comparve nel teatro Capranica (1697). Il Bassiano fu dato a Livorno nel 1690 (Carlo Pallavicino); Tito Manlio fu ripreso a Mantova nel 1719 (Vivaldi) e poi a Firenze nel 1721 (Luca Antonio Predieri) e nel 1742 (Michele Fini). L’odio e l’amor, rifatto da Paolo Antonio Rolli, giunse a Londra al King’s Theatre (1721) con musica di Bononcini, e fu ripreso a Brunswick (1724 e 1731) e a Wolfenbüttel (1724) col titolo di Cyrus - Ciro. L’amore figlio del merito fu rifatto a Vienna nel 1739 (M.A. Ziani). Almeno sei drammi suoi furono tradotti in tedesco e musicati ex novo per il teatro del Gänsemarkt di Amburgo, tra il 1682 e il 1737 (Marx - Schröder, 1995).
Morì a Treviso il 6 ottobre 1714.
Il necrologio pubblicato nel Giornale de’ letterati d’Italia (tomo XX, 1715, p. 459) reca la data di morte di Noris e la colloca «in età molto avanzata», dichiarandolo «autore di cento e più drammi musicali ne’ quali egli si è esercitato più con le regole della sua fantasia che con quelle dell’arte». Fu seppellito nella chiesa di S. Leonardo a Treviso. L’unico ritratto noto è la caricatura di Anton Maria Zanetti (Bettagno, 1970, p. 227).
Tra le tecniche peculiari della scrittura di Noris, emerge lo scialo delle didascalie sceniche e in generale delle prescrizioni che rivolge agli artefici dello spettacolo (scenografi, compositori, cantanti, coreografi; Maeder, 1993, pp. 186-193). I drammi per il S. Salvatore manifestano un più evidente sforzo d’integrare l’elemento scenico nell’azione. Vi compare sovente almeno una scena che, pur funzionale allo svolgimento dell’azione, rappresenta una sorta di emblema spettacolare del dramma stesso. Nel Marcello in Siracusa spicca in apertura la scena dello specchio di Archimede, evocata anche nella dedica («l’eroica impresa d’un vetro che con luminosi baleni abbagliò le pupille dell’augello del Tebro»); nel Greco in Troia lo spettatore ritrova elementi tradizionali dell’iconografia classica nella «campagna dove stava attendato l’esercito greco, nel mezzo vi è il cavallo». Numerose le situazioni metateatrali: il terz’atto dell’Attila si svolge in un «regio anfiteatro»; in Diocleziano una sequenza di scene è ambientata in un «loco di spettacolo con popolo d’intorno» (I, 14-20); Nerone e Ate nel Nerone fatto Cesare compaiono mascherati (da Amore e da Psiche) in atto di recitare (III, 1). Ricorrono alcuni dei topoi più frequenti nella librettistica secentesca: la scena del sonno (Numa Pompilio III, 22; Amore inamorato II, 10; Marzio Coriolano III, 10); la musica in scena (I duo tiranni al soglio I, 10; Traiano I, 4); travestimenti e identità celate. Abbondano, nei paratesti, i cenni di poetica: nella prefazione al Numa Pompilio il poeta dichiara d’«aver obliati ad arte tutti gl’ordini e le regole, appigliandosi solo a quella del dilettare»; nell’«argomento» del Bassiano definisce il «mondo» come «un albergo de’ pazzi, una scena de’ personaggi redicoli, un dilettevole spettacolo della derisione»; il Demone amante è «un allegro capriccio della dramatica fantasia, un pensiero giocondo dell’idea scenica e un riso bizzarro dell’estro poetico»; nella dedica al lettore dell’Odio e l’amor, designa la liaison des scènes – il precetto, tipico della drammaturgia classica francese (e non solo), che vieta di lasciar vuota la scena nell’andirivieni dei personaggi – con la locuzione «inanellatura delle scene» e lo addita come uno dei principi cardine nella buona tessitura d’un dramma.
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