Matteo Palmieri
Matteo Palmieri occupa un posto di rilievo tra gli autori dell’Umanesimo civile del Quattrocento, insieme con Poggio Bracciolini, Benedetto Cotrugli e Leonardo Bruni. Sostenitore dei Medici, servì in molte occasioni come ambasciatore di Cosimo il Vecchio. Prolifico scrittore in lingua latina, decise però, significativamente, di compilare in volgare due libri che trattavano della vita della città – la Vita civile e La città di vita – e un terzo in tema fiscale. Scandagliò ogni argomento della nuova etica umanistica, preoccupato soprattutto di formare cittadini in grado di operare coniugando utile e onesto, traendo così vantaggi individuali e collettivi. Individuò questi operatori nella nascente borghesia, nella bassa nobiltà e nei mercanti.
Nato a Firenze il 13 gennaio 1406 da Marco Antonio e Tommasa di Antonio di Marignano Sassolini, intraprese studi letterari. Studiò grammatica, retorica e latino da maestri tra i più illustri del Rinascimento toscano: Sozomeno da Pistoia (1387-1458), Carlo Marsuppini (1398-1453) e Ambrogio Traversari (1386-1439). Lavorò inizialmente nella bottega di spezie di proprietà della famiglia; alla morte del padre nel 1428, si trovò a dover sostenere improvvisamente sia l’attività sia la famiglia.
Fu un convinto mediceo e ricoprì importanti cariche pubbliche: venne nominato tra gli otto sindaci del Potestà (1432); poi fu tra i sette ufficiali della Torre (1433), fece parte della Balìa che riportò dall’esilio Cosimo de’ Medici il Vecchio.
Svolse inoltre importanti e delicati compiti di ambasciatore a Bologna, Perugia, Roma, Siena, Milano. Fu uno dei sedici gonfalonieri di compagnia (1437-40), quindi uno dei priori (1445), uno dei dodici ‘buonomini’ (1442) e gonfaloniere di giustizia, la massima carica dello Stato (settembre e ottobre 1453). Divenne infine capitano della repubblica di Volterra. Morì a Firenze il 13 aprile 1475.
Palmieri fu autore di opere soprattutto di storia, scritte in lingua latina: Liber de temporibus (concisa storia dalla nascita di Cristo in poi), Annales (la storia di Firenze dal 1429 al 1434), De captivitate Pisarum e Vita Nicolai Acciaioli. Scrisse in lingua volgare le due opere cui più è legata la sua fama: i quattro libri che compongono il giovanile trattato sulla Vita civile (1438-1439) e La città di vita (1464), poema di ispirazione dantesca scritto in età matura quando l’orizzonte politico fiorentino era profondamente cambiato con l’avvento di Piero de’ Medici. Quest’ultima opera ricevette consensi e plausi in ambienti ristretti ed egli stesso non desiderò che venisse divulgata; la considerava, infatti, per certi aspetti eretica per la sua radice nel pensiero di Origene e soprattutto per la concezione, di origine platonica, degli esseri umani, arbitri/succubi di un destino che si gioca tra salvezza e dannazione; quest’opera subì la condanna ecclesiastica. La sua Historia florentina rimase inedita; compilò anche i Ricordi fiscali. Questo scritto, che costituisce una fonte utile per lo studio della storia economica fiorentina del 15° sec., è una memoria dei provvedimenti fiscali adottati dalla repubblica a partire dal catasto del 1427 e contiene il resoconto degli investimenti da Palmieri stesso effettuati nel debito pubblico di Firenze fino a pochi mesi prima della morte.
La Vita civile, opera in quattro libri pubblicata postuma nel 1529, sviluppa i temi della nuova etica umanistica. La trattazione è inquadrata in un incontro nella casa dell’autore in Mugello. Sono presenti, oltre all’autore stesso, alcuni altri giovani intellettuali tra cui Piero di Luigi Guicciardini (1370-1441) e Agnolo Pandolfini (1360-1446).
La sua Vita civile vuole proprio essere un’opera di educazione politica. Il primo libro tratta dell’educazione dei fanciulli: la fragilità e l’imperfezione umana hanno come unico rimedio la volontà e la capacità di apprendere, tanto che la politica non può essere disgiunta dall’educazione. Il secondo e il terzo libro trattano del cittadino in situazione di pace e di guerra, e delle virtù cardinali (temperanza, fortezza, prudenza, giustizia) che – in scala e sul piano secolare – generano virtù «civili», «purgatorie» (che redimono dalle deficienze civili), «già purgate» (redente) e «veramente divine».
Il quarto volume tratta dell’utile e «delle ricchezze di tutto il popolo civile». Qui troviamo le considerazioni più interessanti sotto il profilo del comportamento economico degli uomini. Questi non sono perfetti ma possono mirare alla perfettibilità, perché tendono al bene vivere, l’unico vero fine dell’esistenza, al cui centro sta lo ius, la giustizia terrena, il rispetto dei diritti dei cittadini. Lo ius occupa un posto centrale nella vita del civis, l’uomo nelle sue attività politiche, ma anche religiose ed economiche. In questa concezione laica della convivenza umana come entità politica, la società stessa persegue gli scopi che le sono propri. È esplicito il richiamo al De monarchia di Dante, ma anche ad Aristotele per il quale lo Stato è il prodotto, il fine della storia della società umana, e a Cicerone; è evidente invece l’opposizione alla concezione platonica di città, tutta proiettata nell’ideale e perciò non umana.
Palmieri, come anche gli altri umanisti civili del suo tempo, considera l’individuo un soggetto privato che persegue fini particolari e contemporaneamente un soggetto pubblico che realizza fini sociali attraverso la sua vita attiva, animata dall’uso della ragione: in tutto questo consiste la felicità e la pienezza della vita umana che sono l’obiettivo di ogni civis. Questa concezione rispecchia le novità della vita cittadina e mercantile che legittima la vita «negociosa», il travaglio nel «facere» di ogni giorno, le ricchezze e l’utile, mentre rifiuta il valore della vita contemplativa di coloro che sono indifferenti all’utilità del comune vivere degli altri mortali: «La semplice santità solo a sé pro fa». Fondamentale è in sostanza vivere all’interno della trama dei rapporti umani dove si possono applicare le virtù civili: qui nascono le amicizie, le parentele, le «conversazioni» con le quali si può andare incontro alle necessità e ai desideri della vita. Le virtù civili da cui origina una convivenza politica laboriosa indicano che lì vivono uomini prudenti, temperati e forti, i quali dall’esercizio delle virtù traggono essi stessi beneficio. Gli uomini «civili», insomma, operano secondo natura perché sono «virtuosi», sono buoni e onesti e il loro operare nel senso dell’«utile» è degno di approvazione. Questo è il nocciolo del suo pensiero.
Nel quarto libro dalla Vita civile Palmieri sviluppa l’argomento dell’azione economica che deve operarsi nella città in modo che utile e onesto si coniughino saldamente in un unico profilo umano. Egli non nega che i «vulgari» operatori economici della città in genere cerchino l’utile anche separato dall’onesto, ma indirizza il suo insegnamento agli onesti, quella gran parte della popolazione che vuole perseguire il proprio utile unitamente a quello comune. Palmieri ha davanti ai propri occhi la vita di una città in cui circola ricchezza e in cui non ci sono le restrizioni tipiche della società feudale e si rivolge, come si è già detto, alla parte della popolazione costituita dalla borghesia, dalla bassa nobiltà e dai mercanti, sempre più partecipi della vita cittadina; esattamente per questo egli scelse di scrivere in volgare e non in latino, lingua quest’ultima che dal Duecento, progressivamente, veniva usata solo dalla Chiesa e dalle classi dominanti.
I cives descritti da Palmieri non separano onesto e utile, qualità dell’azione che – non disgiunte – formano una «virtù esemplare»; anche se alle volte può capitare, come Cicerone scrisse nel De officiis (Baron 1989, 1° vol., p. 125), che sia utile ciò che non è onesto, e – viceversa – sia onesto ciò che non è utile. Questo nesso tra utile e onesto era già stato indagato da Leonardo Bruni e Albertano da Brescia (m. 1270 ca.), ma Palmieri si spinge più in là rispetto a loro: elimina la distinzione tra necessario e superfluo, in base al fatto concreto che ogni bene – senza differenze di sorta – ha un’utilità in quanto è desiderabile.
Egli opera una propria distinzione, quella fra tre tipi di beni. Definisce beni «immateriali» quelli che sono desiderati non necessariamente perché utili ma perché attraggono per la loro «eccellenzia e bontà», come si vede in qualunque scienza e arte; ci sono inoltre le parentele, le amicizie, la buona fama, la sanità. Si tratta di beni da cui deriva la gloria, la dignità e una vita onorata.
Egli passa quindi al campo dei beni e dei servizi che sono cercati propriamente non per la sola utilità ma desiderati anche per la loro onestà: il denaro, le proprietà, l’allevamento di animali, i servi e gli artigiani. E infine, la categoria di beni che si cercano perché danno dignità e comodità: le case magnifiche, gli edifici, le masserizie preziose e qualunque segno di una vita vissuta nell’abbondanza. A prima vista sembra che siano origine di spesa piuttosto che di utilità, ma l’esperienza dimostra che simili cose sono cercate dai saggi perché accompagnate alla reputazione, alla stima popolare, all’ammirazione verso chi li possiede.
In sostanza: l’uomo vuole entrare in possesso di beni per soddisfare i propri bisogni, ma non deve andare al di là della quantità di beni necessari a soddisfare i bisogni e deve procurarseli in modo lecito, perché altrimenti si danneggiano altri e sorgono perturbazioni sociali. Tutti i beni che recano utilità e non recano danno – di per sé o soggettivamente – sono strumenti con cui gli uomini saggi e industriosi aumentano la propria virtù, perché le virtù individuali e civili hanno bisogno anche di beni materiali per essere alimentate.
Con quest’affermazione si passa a un altro elemento che caratterizza l’opera di Palmieri, come anche di altri umanisti: la sottolineatura dell’importanza, della validità, del valore del lavoro, di quegli «esercizi e opere umane» che aumentano il patrimonio e i beni posseduti da ogni cittadino e al contempo portano sviluppo alla società. Senza il lavoro la vita umana è «vagante, rozza, inculta e simile alla vita bestiale». Molto spazio è dedicato nella Vita civile all’elenco delle attività che contribuiscono a questo fine personale e collettivo: si va dalla raccolta dei frutti, alla navigazione, alla cura della salute, alle arti collegate all’uso del ferro, della pietra, del legno, alla costruzione delle case, all’allevamento degli animali, alla conservazione dei beni fabbricati. Tutte queste attività non sono sottoposte a giudizio in base a una norma metafisica, ma alla sola norma naturale dell’utilità per una buona e ordinata convivenza civile: le cose utili realizzano, compongono, assicurano il concreto ben vivere. L’uomo ha quindi un grande potere nel costruire la propria vita e nel concorrere a tessere la storia dell’umanità, seguendo norme naturali (e quindi autonome) e usando tutti i beni disponibili e ottenibili, riattivandosi in continuazione.
Questo è il nucleo della concezione antropologica dell’Umanesimo civile italiano, che accentua il ruolo dell’homo faber in grado di individuare i problemi e di studiare la via per risolverli con l’industria e l’acume, usando anche l’inventiva. Ogni uomo deve sapere che tutto ciò che c’è in Terra è stato creato da Dio e serve all’uso comune degli uomini, i quali, a loro volta, sono generati per essere di utilità e di aiuto agli altri, per il «bene essere» e per generare e diffondere amicizia; questa, infatti, è il «presidio, la difesa et fermo stabilimento d’ogni regno».
La città non è quindi una realtà statica, bensì un complesso insieme di attività in continuo mutamento. Il mutamento incessante della convivenza umana riguarda le attività svolte dai cittadini, le loro consuetudini, gli usi e le mode. Scegliere un’arte, impararla e usarla per produrre e per vendere un bene è sì di utilità a chi lo fabbrica e a chi lo vende; però scema l’utilità di quel bene se non si è in grado di cambiare per migliorare il metodo di lavorazione e la qualità del prodotto e per aumentare e diversificare i prodotti offerti: non bisogna mai porre un limite alle proprie capacità; bisogna guardare verso il nuovo perché solo così si amplificano e si accrescono i propri averi, stando attenti però a che le spese non siano superiori all’utile derivato dalla propria attività produttiva.
Alcuni aspetti dell’antropologia dell’uomo nuovo del Quattrocento emergono dalle opere di Palmieri e rimarranno nella riflessione economica che porterà alla definizione di una scienza economica: il rapporto tra utile e onesto e la classificazione dei bisogni. Si tenga ben presente però che non si può parlare di scienza economica a proposito dell’economia italiana del Quattrocento: si tratta di prodromi, prolegomeni del discorso scientifico; una scienza definita consapevolmente presuppone un’organizzazione metodologicamente fondata della materia all’interno di un sistema, caratteristica che è assente negli scritti umanistici del 15° secolo. Semmai sarebbe interessante procedere nella conoscenza delle mutue influenze tra pensiero economico in Italia e teorizzazione dello sviluppo operata fin dal 14° sec. da Ibn Khaldūn nella sua storia universale.
De temporibus, a cura di G. Scaramella, in Rerum italicarum scriptores, n. s., 26° vol., parte I, Città di Castello 1905-1916.
Vita Nicolai Acciaioli, a cura di G. Scaramella, in Rerum italicarum scriptores, n. s., 13° vol., parte II, Bologna 1918-1934.
Libro del poema chiamato “Città di vita” composto da Matteo Palmieri Florentino, ed. M. Rooke, 2 voll., Northampton 1927-1928.
Protesto fatto per Matteo Palmieri gonfaloniere di compagnia innanzi a’ Signori e Collegi e altri Uffici, in G. Belloni, Il protesto di Matteo Palmieri, «Studi e problemi di critica testuale», 1978, 16, pp. 41-48.
Vita civile, ed. critica a cura di G. Belloni, Firenze 1982.
Libro di Ricordi di portate et altre memorie diverse di messere Matteo di Marco Palmieri, in gran parte edito e a cura di E. Conti, in Ricordi fiscali (1427-1474), Roma 1983.
De captivitate Pisarum liber, a cura di G. Scaramella, in Rerum italicarum scriptores, n. s., 19° vol., parte II, Città di Castello 1984.
A. Messeri, Matteo Palmieri cittadino di Firenze del secolo XV, in «Archivio storico italiano», 1894, 194, pp. 257-340 (contiene lettere di Palmieri).
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