MATTEO ROSSO ORSINI
Nacque, forse figlio primogenito, dall'unione di Giangaetano di Orso di Bobone con la seconda moglie, Stefania "Rubea", probabilmente intorno al 1180.
Il padre "Johannes Gaitanus" discendeva dal casato dei Boboni o Boveschi, una delle stirpi cittadine cresciute a fianco dal Papato riformato, testimoniati dai primi decenni del sec. XII come mercatores, mercanti non specializzati, cioè prestatori e cambiatori di denaro, legati alla Curia papale da una fitta rete di prestiti e attività finanziarie. Già economicamente potente a Roma, la famiglia aveva consolidato la propria fortuna e i propri legami con la Curia durante il lunghissimo cardinalato di Giacinto di Pietro di Bobone (1144-1191). Giacinto era stato affiancato nel Sacro Collegio da due suoi familiari, Bobone, cardinale di S. Angelo dal 1181 al 1185, e Bobone, cardinale di S. Giorgio al Velabro nel 1188. Il Collegio contava allora meno di trenta membri e la presenza di almeno tre 'Boboni' ‒ maggiore precisione circa i rapporti di parentela tra i cardinali citati è impossibile ‒ appare come segno tangibile della partecipazione del gruppo familiare alle vicende curiali e pontificie in ruoli influenti. Il cardinale Giacinto, divenuto poi papa con il nome di Celestino III (1191-1198), aveva aperto nuove possibilità di affermazione alla famiglia concedendo a propri consanguinei, a titolo di pegno su prestito, numerosi beni fondiari, situati nella valle dell'Aniene. Quella concessione si presentava perfettamente in linea con la politica praticata dai pontefici già da alcuni decenni nella zona, oggetto dei tentativi di espansione del comune di Tivoli e caratterizzata dalla presenza di numerosi possessi monastici ‒ i monasteri di Subiaco, Farfa e Vicovaro estendevano i propri domini nella valle dell'Aniene e in quelle dei suoi affluenti. Con le concessioni sub nomine pignoris il papa desiderava probabilmente porre una più solida ipoteca pontificia su quel lembo di territorio utilizzando parenti laici allo scopo. Tra i destinatari dei beni concessi vi furono il nipote Orso di Bobone di Pietro e i suoi figli, che si videro assegnati i castelli di Vicovaro, Cantalupo e Burdella nella valle dell'Aniene.
La forte dipendenza della possibilità di affermazione territoriale delle famiglie romane dalla politica curiale viene confermata dagli scontri che funestarono Roma durante i primi anni del pontificato del nuovo papa, Innocenzo III. I filii Ursi, timorosi di essere esclusi dal godimento dei beni ricevuti in pegno dalla Chiesa, si sarebbero opposti nel 1203 a Innocenzo, assalendo e danneggiando le case della famiglia materna del pontefice, gli "Scotti", senza peraltro perdere quanto già ricevuto. Nell'episodio, riportato dall'autore dei Gesta Innocentii, è tràdita per la prima volta l'attestazione dei filii Ursi, i figli di Orso, che agiscono in piena autonomia rispetto alla famiglia d'origine. Perché il distacco dai Boboni fosse avvertito dovevano però ancora passare alcuni decenni. Nel testamento del 1232 Giangaetano si qualificava come "Johannes Gaitanus filius quondam Ursi Bobonis de Petro" (Thumser, 1988, p. 95): il solo nome "Matheus Rubeus" sarebbe bastato a suo figlio per designarsi un quindicennio dopo nel proprio testamento.
Dopo i primi lustri del Duecento la situazione politica romana stava entrando in una fase di rapida trasformazione. Il pontificato di Innocenzo III era riuscito a cogliere e fare a sua volta maturare rapporti positivi tra papa, comune cittadino e aristocrazia romana e laziale. La tendenza ad attribuire a un senatore unico, anziché al senato collegiale, il governo della città ‒ una tendenza che si manifestò per le prime volte tra la fine del sec. XII e gli inizi del successivo ‒ rafforzò il valore e il ruolo sociale dell'esercizio della carica senatoria. I Boboni erano stati alcune volte membri del senato tra la fine del sec. XII e gli inizi del XIII e per un'unica volta, nel 1222, lo era stato il figlio di Orso, Matteo. Fino agli anni Trenta del secolo la famiglia de filiis Ursi aveva basato la propria influenza sulle fondamenta più tradizionali del primato aristocratico in Roma: possessi castrensi e legami curiali. Nei decenni successivi a questi elementi se ne era aggiunto un terzo, l'inizio di una lunga stagione ai vertici del comune. Fra 1240 e 1244 i de filiis Ursi, ormai identificati sulla base del nuovo eponimo, indossarono per quattro volte il manto senatorio, conseguenza della buona rappresentatività raggiunta dai suoi membri. Tra questi un ruolo di rilievo ebbe proprio Matteo Rosso.
M. è ricordato per la prima volta nelle fonti pontificie il 1o settembre 1232. Gregorio IX detta le condizioni di pace tra il vescovo, il clero tiburtino e "Matheus Rubeus comes et populus Tiburtinus" (Les Registres, 1896, nr. 860): ai beni concessi da Celestino III nella valle dell'Aniene, e ormai divenuti di pieno dominio dei figli di Orso, si accompagnavano possessi in Tivoli e il probabile esercizio di funzioni pubbliche da parte di Matteo Rosso.
Nello stesso anno 1232 egli è citato nel testamento dettato il 13 aprile dal padre. M. era allora coniugato in terze nozze con Giovanna, figlia del conte di Fondi Ruggero de l'Aquila. Con le precedenti unioni, contratte rispettivamente con Perna Caetani e con Gemma di Oddone signore di Montecelio, aveva intrecciato legami con famiglie della nobiltà laziale, più o meno gravitante su Roma; il figlio Gentile aveva poi sposato Costanza di Pietro "de Cardinale"; la sorella Margherita era promessa in sposa a Oddone di Giordano Colonna: anche i legami matrimoniali contratti dai de filiis Ursi tra gli inizi e i primi decenni del Duecento, come la partecipazione alla vita pubblica romana, dimostrano che la famiglia faceva parte dell'aristocrazia urbana.
Il patrimonio che Giangaetano, scomparso tra il 1234 e il 1237, lasciava ai suoi figli laici M. e Napoleone venne diviso soltanto, e parzialmente, nel 1242. L'atto di divisione non è pervenuto, ma da documenti successivi è possibile stabilire che, mentre a Napoleone erano stati assegnati tutti i castelli situati nell'area dell'antico radicamento fondiario della famiglia, il medio corso dell'Aniene, M. aveva ricevuto i castelli esterni e ai confini con l'Abruzzo, Nettuno, Montaliano e parte di quello di Palmarolo. In comune restavano i diritti sugli immobili urbani, divisi tra gli eredi soltanto nel 1262.
Nella primavera del 1234 M. ricopriva la carica di podestà a Viterbo e nell'anno successivo, tra il 16 e il 28 maggio, presenziava, nelle vesti di ufficiale del senato e insieme con altri cittadini influenti, al giuramento di pace che riconciliava papa Gregorio IX e i cittadini romani.
Finalmente, nel luglio 1241, M. venne coinvolto dal pontefice nella sua politica duramente antimperiale. Gregorio IX infatti, dopo aver destituito dalla loro carica i senatori Annibaldo Annibaldi e Oddone Colonna, per rappresaglia contro il cardinale Giovanni Colonna con cui da tempo era in aperto contrasto circa i rapporti con Federico II, creò M. senatore unico. L'intento era forse quello di sfruttare l'antagonismo che pare opponesse in quegli anni gli Annibaldi e i Colonna agli Orsini; certo è che il primo atto del nuovo senatore ricordato dalle fonti fu l'assedio posto alla fortezza Augustea ‒ "Lagusta" secondo l'accezione medievale ‒, roccaforte tenuta dai Colonna e fatta munire dal cardinale Giovanni prima di trasferirsi a Palestrina nel gennaio 1241. La roccaforte sarebbe caduta nelle mani del senatore alla fine dell'estate, mentre le truppe imperiali si stanziavano nei pressi di Grottaferrata.
Dopo la morte di Gregorio IX (22 agosto 1241) M., approfittando della sede vacante e del disordine della situazione ‒ il tentativo del papa di convocare in maggio un concilio a Roma era stato vanificato dalla caduta di due cardinali e numerosi vescovi nelle mani di Federico II (v. Giglio, battaglia del) ‒, si fece interprete del comune desiderio di giungere rapidamente all'elezione di un nuovo pontefice. La Curia era divisa tra sostenitori della prosecuzione della dura politica antifedericiana di Gregorio e 'moderati' disposti a negoziare per porre fine al conflitto. Secondo le testimonianze coeve il senatore rinchiuse gli elettori nel Septizonium ‒ un edificio d'età severiana situato alle estreme pendici meridionali del Palatino ‒ sottoponendoli a numerose umiliazioni e angherie per affrettare la scelta di un nuovo pontefice. I rinchiusi si accordarono soltanto alla fine di ottobre, eleggendo il cardinale diacono di S. Sabina Goffredo Castiglioni, che prese il nome di Celestino IV. Le discutibili iniziative prese da M. durante il conclave furono condannate dal papa, che gli avrebbe comminato la scomunica. Poche settimane dopo, però, Celestino moriva. La Sede pontificia era di nuovo vacante, mentre le truppe di Federico II si mantenevano a poche miglia da Roma.
In questa difficile situazione politica M. seguitò a promuovere la resistenza antimperiale. All'estate del 1242 risale la testimonianza dell'esistenza di un trattato di alleanza con il comune di Alatri: il 14 giugno il senatore invitava il podestà e il consiglio di Alatri ad accorrere in aiuto del comune alla notizia dell'invio dell'esercito romano contro le milizie imperiali, ancora radunate tra Tivoli e ponte Lucano. Nella missiva M. ricordava esplicitamente come alleato di Roma anche il comune di Narni: dal marzo 1242 Narni si era unita con Roma in una lega contro l'Impero che comprendeva anche Perugia. M. provvide a consolidare i rapporti con i comuni guelfi dell'Umbria, intuendo l'importanza che per la città, circondata da oriente e da settentrione, mal difesa a mezzogiorno dalla Campagna ‒ zona di rispetto limitrofa al Regno di Sicilia ‒, potevano avere i collegamenti lungo la Via Flaminia. L'esercito romano non avrebbe comunque osato affrontare gli imperiali in campo aperto, limitandosi a compiere azioni di disturbo, anche grazie all'aiuto degli alleati, come quella recata nel territorio di Tivoli. Federico II accoglieva alla fine le sollecitazioni a togliere l'assedio e ritirava le truppe, probabilmente condizionato dalla generale disapprovazione nei confronti della sua politica, più che dalle azioni militari dei romani.
La strategia messa in atto da M., che è stata interpretata spesso dalla storiografia come dettata da una scelta di parte 'guelfa', rispose più probabilmente alla salvaguardia degli interessi del comune di Roma, ormai nelle mani della nobiltà baronale di cui la famiglia Orsini faceva parte, piuttosto che di quelli della Santa Sede. I rapporti di M. con la Curia rimasero comunque molto solidi anche negli anni seguenti: nella prima promozione cardinalizia, effettuata da Innocenzo IV nel maggio 1244, il figlio Giangaetano, già suddiacono e cappellano pontificio, veniva elevato al cardinalato. Quella promozione, grazie alla quale entrarono in Curia dodici nuovi cardinali, e tra questi due romani e un nipote del papa, rappresentava la pregiudiziale al programma di Innocenzo IV e la scelta del giovane Orsini si inseriva nel suo disegno di politica antifedericiana.
M. sarebbe mancato due anni dopo, il 13 ottobre 1246: il 4 ottobre, eger corpore, aveva dettato testamento, lasciando ai figli, eredi in capite, e ai nipoti, eredi in stirpe, un cospicuo patrimonio in case, torri, palazzi a Roma nei rioni dell'ansa del Tevere ‒ Ponte, Parione, Arenula, S. Lorenzo in Damaso ‒ e beni castrensi ai confini tra l'Abruzzo e la Sabina. Nei lustri successivi i suoi figli avrebbero decisamente abbracciato la causa papale e sostenuto anche militarmente l'inserimento angioino nel Regno di Sicilia.
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