STROZZI, Matteo
– Nacque a Firenze il 21 o il 22 settembre 1397 da Simone di Filippo Strozzi e da Andreuola di Vieri Rondinelli. sdf
Nel 1422, all’età di venticinque anni, si unì in matrimonio con l’allora sedicenne Alessandra, figlia di Filippo di Niccolò Macinghi, dalla quale ricevette la cospicua dote di 1600 fiorini. Nei successivi dodici anni Alessandra gli avrebbe dato otto figli: Andreuola (nata nel 1424 e deceduta l’anno successivo), una seconda Andreuola (1425), Simone (1427), Filippo (1428), Piero (1429), Caterina (1431), Lorenzo (1432) e Alessandra (1434). Un nono figlio venne alla luce nel 1436, poco dopo la scomparsa di Matteo Strozzi, del quale ereditò il nome.
Sette anni prima di sposarsi, il 30 aprile 1415, si era iscritto all’arte della lana, seguendo la tradizione familiare. Tuttavia divenne socio della bottega di famiglia solo nel 1424, alla morte del padre, di cui fu unico erede. Nel 1427, al rinnovo della società con i suoi zii, vi mantenne la quota che gli era stata trasmessa, cioè 1650 fiorini su un capitale complessivo di 4800. Ma nel 1432 non vi era più traccia della bottega, i cui termini erano scaduti quello stesso anno. Il disinvestimento dall’unica attività affaristica in cui era coinvolto, così come il fatto che anche in precedenza egli si fosse limitato a mantenere la titolarità della partecipazione paterna senza mai incrementarla, testimoniano della scarsa propensione di Strozzi all’attività mercantile.
La parte più sostanziosa del suo patrimonio, anch’essa interamente proveniente dall’eredità paterna, era costituita da beni immobiliari: la dimora familiare in corso degli Strozzi, comprata dal padre Simone nel 1416, una seconda casa in città e una serie di terre nella campagna circostante, per un valore totale, all’epoca del catasto del 1427, superiore a 2500 fiorini. A ciò si aggiungevano circa 1000 fiorini in titoli di Stato e altri crediti che, al netto delle detrazioni, generavano un imponibile di quasi 4500 fiorini: una cifra che se poneva Matteo Strozzi a distanza abissale dagli uomini più facoltosi di Firenze (primo fra tutti il suo parente Palla di Nofri Strozzi con oltre 100.000 fiorini) lo faceva comunque rientrare nel 2,5% più ricco della popolazione cittadina. Era insomma un membro della classe agiata della città, la cui solida fortuna derivava in toto dalla famiglia di origine senza essere sorretta né da intraprendenza nel campo degli affari né da una chiara volontà di ascesa sociale. Con le spalle coperte dal suo status socio-economico egli poté dedicarsi ai suoi autentici interessi: le sorti politiche di Firenze e gli studi letterari.
Per due anni consecutivi, a partire dal 24 novembre 1424, Strozzi fu il provveditore dei Dieci di Balìa. L’ufficio, oltre ad assicurargli un considerevole stipendio di 120 fiorini all’anno, lo pose al centro di un fitto scambio di informazioni, relative in modo particolare alle operazioni militari in cui era implicata la Repubblica, che da alcuni mesi era entrata in guerra con il duca di Milano Filippo Maria Visconti. I Dieci di Balìa erano il fulcro della politica estera fiorentina, con competenze sulla guerra, l’azione diplomatica, le politiche di alleanza e la condotta dei mercenari. Le lettere ricevute da Matteo Strozzi in quel biennio, ancor oggi conservate in buon numero fra le Carte strozziane, attestano l’importanza del suo ruolo come trait d’union fra la capitale e le aree operative, ossia i fronti bellici e i presìdi ai confini dello Stato. Gli argomenti trattati sono per lo più legati alle mansioni del provveditore: forniture di munizioni, riattamento di fortificazioni, vettovagliamento di truppe, solleciti di pagamento da parte di condottieri o di comandanti fiorentini e così via.
Non mancano tuttavia temi di più ampio respiro, giacché fra i suoi interlocutori figurano leader politici, come Niccolò da Uzzano, Piero Guicciardini o Neri Capponi, con i quali la discussione tocca i grandi temi dello Stato: un riconoscimento di fatto dell’inclusione del giovane provveditore nei ranghi del ceto dirigente fiorentino.
In verità, la sua partecipazione agli uffici della Repubblica fu piuttosto modesta. Non risulta che abbia mai ottenuto incarichi nel territorio, limitando il suo cursus honorum ai cosiddetti uffici intrinseci: ufficiale della condotta nel 1425-26; per due volte ufficiale della grascia, nel 1427 e nel 1430; ‘veduto’ (ovvero estratto) gonfaloniere di Compagnia il 28 aprile 1433, senza tuttavia poter assumere l’ufficio a causa dei debiti con il fisco; infine, nel 1434, eletto fra i Conservatori delle leggi.
Tuttavia, il suo spessore politico si misura più correttamente con le missioni diplomatiche, dove egli mise a frutto le conoscenze di politica estera maturate al servizio dei Dieci di Balìa. L’ambasceria più prestigiosa gli fu affidata nel settembre del 1433 quando si recò in Emilia per conferire con il condottiero Francesco I Sforza in merito alle sue spettanze relative alla guerra di Lucca, anche se è ipotizzabile che l’incontro servisse soprattutto a verificarne la disponibilità a nuovi impegni con Firenze. L’anno successivo Strozzi partì per nuove delicate ambascerie presso i signori di Faenza e di Piombino.
Di rilievo anche la partecipazione alle ‘pratiche’, le riunioni del gruppo dirigente cui erano ammessi non solo gli ufficiali in carica, ma anche altri membri del patriziato. Dal 1429 al 1434 Strozzi partecipò a un buon numero di discussioni, dando il suo parere con una certa risolutezza su questioni di interesse prevalentemente bellico. Il 25 novembre 1429, ad esempio, prese la parola per stigmatizzare l’incursione del condottiero fiorentino Niccolò della Stella (Fortebraccio) in territorio lucchese, premessa della disastrosa guerra di Lucca. E il 30 luglio 1434 fu il fautore più esplicito dell’ingaggio di Sforza per guidare le armate della Lega con Venezia, un’operazione costosa ma capace di spostare gli equilibri nel conflitto con i Visconti: segno evidente che l’incontro dell’anno precedente lo aveva persuaso dell’affidabilità di Sforza, malgrado la diffidenza di molti fiorentini.
Strozzi ebbe incarichi anche all’interno dell’arte della lana. Fu console agli inizi del 1434 e successivamente fece parte del gruppo di ufficiali delegati a vigilare sull’osservanza degli ordinamenti della corporazione. Fu molto attivo nell’amministrazione di luoghi di culto affidati alla corporazione, come il complesso francescano della Verna, del quale, nel 1432, fu tra i primi conservatori, e, soprattutto, la cattedrale di S. Maria del Fiore, gestita attraverso l’Opera del duomo che il Comune aveva posto sotto la protezione dell’arte fin dal 1331. Strozzi fu non soltanto uno degli operai del quadrimestre gennaio-aprile 1432, ma fu anche chiamato a far parte di una commissione speciale per la decorazione dell’area sottostante alla cupola, incarico che mantenne per quasi tre anni consecutivi, finché non fu costretto a lasciare Firenze. Ciò gli consentì di lavorare a stretto contatto con artisti del calibro di Filippo Brunelleschi, Lorenzo Ghiberti, Luca della Robbia e Donatello, dando un importante contributo alla realizzazione di alcuni dei loro capolavori.
Come molti altri patrizi fiorentini della sua generazione, Strozzi coltivò fin da giovanissimo lo studio delle lettere classiche e della filosofia, potendo peraltro contare sulla guida del suo parente Palla di Nofri Strozzi, figura di primissimo piano della vita politica e culturale di Firenze fino a tutto il primo terzo del XV secolo. Benché il loro grado di parentela fosse piuttosto debole (il comune antenato, Lapo, era bisnonno di Palla e bisarcavolo di Matteo), essi mantenevano forti relazioni, favorite dalla contiguità residenziale e dall’acuto senso di appartenenza al lignaggio. Fu certamente Palla a introdurre Matteo Strozzi nei circoli umanistici fiorentini e, più in generale, ad assumersi la responsabilità della sua formazione intellettuale e politica.
Non molto sappiamo della sua prima istruzione. Studiò latino e filosofia, mentre non risulta che avesse imparato il greco (la notizia di un suo tentativo di tradurre l’Etica nicomachea nasce dall’errata interpretazione di un passo epistolare). Certo è che all’età di vent’anni, quando compaiono le sue prime lettere in latino, egli dimostra una notevole padronanza linguistica, una mano educatissima alla scrittura umanistica, una solida conoscenza di autori greci e latini. Ben presto la sua biblioteca si arricchì di preziosi manoscritti, che volentieri concedeva in prestito ad altri eruditi. Nel 1420 Strozzi decise di aprire sul colle di Fiesole un luogo di studio e di meditazione cristiana per i giovani: una sorta di cenacolo umanistico polarizzato su temi teologici e di spiritualità, sui cui sviluppi non si hanno notizie certe.
Tre furono le principali personalità del mondo umanistico cui Strozzi fece riferimento per la sua formazione: Leonardo Bruni, Giannozzo Manetti e Francesco Filelfo. Il cancelliere aretino aveva un legame organico con la casa Strozzi, in particolare con Palla di Nofri, Marcello di Strozza, Benedetto di Pieraccione e lo stesso Matteo di Simone.
La manifestazione più evidente di tale legame è costituita dall’Oratio in funere Iohannis Strozze, in cui la celebrazione del defunto Nanni Strozzi, comandante della Lega antimilanese, sfocia in un’esaltazione dell’intera casata. Poiché Nanni era stato per lunghi anni al servizio degli Estensi, Strozzi inviò una copia dell’orazione al marchese Niccolò d’Este, unendovi una sua lettera in latino. I dubbi intorno alla paternità di questa epistola, dapprima assegnata allo stesso Bruni, poi giustamente restituita al suo firmatario, sono la dimostrazione di quanto profondamente Matteo Strozzi avesse assorbito il magistero bruniano al punto da emularne efficacemente la prosa.
Il legame con Giannozzo Manetti era originariamente di natura familiare, essendo suo fratello Bernardo sposato con una cugina di primo grado di Strozzi. Ben presto però si trasformò in un rapporto di discepolato. Grazie alla testimonianza di Vespasiano da Bisticci e di alcune lettere strozziane abbiamo notizia di un ciclo di lezioni sull’Etica nicomachea di Aristotele che Manetti impartì a Matteo Strozzi e alla sua ristretta cerchia di amici. Giannozzo è citato spesso nel carteggio fra Strozzi e i suoi amici umanisti, e sono forse da assegnare a lui due lettere firmate «Iannozius», che lo stesso Strozzi ricevette nel 1431 o nel 1432. In una di esse lo scrivente chiede al suo interlocutore di intervenire in favore di un eruditissimus vir, loro comune amico, che si trovava in grave pericolo. È probabile che alludesse a Francesco Filelfo, che in quegli anni di soggiorno fiorentino, a causa soprattutto della sua ostilità a Cosimo de’ Medici, si trovò esposto a non poche avversità, dall’allontanamento dallo Studio a una condanna all’esilio, poi rientrata, fino, addirittura, a un fallito tentativo di omicidio. Di Filelfo Matteo Strozzi divenne un fedelissimo allievo, contraccambiato dalla stima del maestro. L’amicizia fra i due è esplicitata a chiare lettere in una Satyra filelfiana, composta il 13 dicembre 1431, in cui Strozzi è ringraziato dall’autore per averlo sollecitato a completare la traduzione in latino della Rhetorica ad Alexandrum, allora attribuita ad Aristotele.
Si nota una certa osmosi fra gli allievi di Bruni, di Manetti e di Filelfo, il cui collante era costituito proprio dalla consorteria Strozzi, presente con vari membri nei circoli frequentati dai tre maestri. A legarli era anche l’orientamento politico, pendente, sia pur in modo non univoco, verso la fazione albizzesca e antimedicea. Una propensione che, se appare molto sfumata e ambigua in Manetti, assume contorni più netti con Filelfo. Strozzi si schierò dunque in modo inequivocabile all’interno del conflitto che, riflettendo la situazione politica, agitava il movimento umanistico, operando una scelta di campo che, in negativo, è confermata dalle relazioni assai più flebili con intellettuali del fronte opposto, quali Niccolò Niccoli, Carlo Marsuppini o Poggio Bracciolini, strettamente legati a Cosimo de’ Medici.
L’innocenza politica che fin dalle prime biografie di Vespasiano da Bisticci e di Lorenzo di Filippo Strozzi è stata spesso attribuita a Matteo Strozzi, il quale sarebbe caduto vittima delle epurazioni medicee del 1434 solo per il suo legame con Palla Strozzi, pur essendo uomo dedito agli studi e alieno dalle lotte di fazione, è già sufficientemente smentita proprio dal suo posizionamento in campo umanistico. Un campo non certo estraneo alle divisioni che dall’inizio della guerra di Lucca avevano scisso il ceto dirigente fiorentino. Del resto, le missioni diplomatiche e la partecipazione alle discussioni di governo non lasciano dubbi sulla sua natura di uomo politico, destinato probabilmente a ruoli di primo piano.
Il radicalizzarsi della lotta per il potere fra il 1433 e il 1434, culminato nell’esilio di Cosimo de’ Medici e, un anno più tardi, nel suo richiamo, finì tuttavia per travolgerlo. Nell’agosto del 1434, quando ormai si profilava il ritorno trionfale dei Medici, egli si unì a Rinaldo degli Albizzi e ad altri nella pianificazione di un colpo di mano, poi non attuato, che avrebbe dovuto impedire l’insediarsi della nuova signoria filomedicea. La partecipazione di Matteo Strozzi al complotto, rivelata in seguito dall’interrogatorio del gonfaloniere di Giustizia Donato Velluti, lascia pochi dubbi sulla sua finale adesione alla parte albizzesca.
Il 9 novembre 1434 la Balìa filomedicea, che nei giorni precedenti aveva già avviato l’estromissione da Firenze di tutta la parte albizzesca, inflisse a Matteo Strozzi cinque anni di esilio a Pesaro. Il 18 dello stesso mese egli si installò nel luogo di confino, dove dopo alcuni mesi fu raggiunto dalla moglie e dai figli. Accolto benevolmente dai Malatesta, signori di Pesaro, che gli misero a disposizione una residenza, Strozzi trovò un ambiente culturale vivace, assai promettente per la continuazione dei suoi studi.
Nell’estate del 1435, tuttavia, un’epidemia di peste pose fine ai suoi giorni e alla speranza di rivedere la patria. Il suo estremo segno di vita risale al 5 luglio, quando lasciò un’ultima annotazione sul suo libro di ricordi. La moglie Alessandra, incinta del nuovo Matteo, ma privata dalla stessa pestilenza di tre dei suoi figli, ritornò presto a Firenze con quel che restava della famiglia. Appena le fu possibile fece rientrare la salma del marito per darle sepoltura nella tomba gentilizia in S. Maria Novella.
Con l’ultima lettera, scritta in latino dall’esilio pesarese, Matteo Strozzi consegnò ai posteri il suo congedo dal mondo, esprimendo in modo toccante la più profonda afflizione per la patria perduta, bilanciata però da una fede incrollabile nella forza salvifica degli studi filosofici.
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