NALDI, Mattia
NALDI, Mattia (Matteo). – Nacque a Siena tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo da un’illustre famiglia cittadina.
Si laureò nella sua città natale in medicina e arti ed entrò a far parte dell’Accademia dei Rozzi. A Siena pubblicò nel 1623 la sua dissertazione dottorale, Sapientis vitale filum, quod philosophiae, ac medicae facultatis ambages publice ingressurus heroicis numeris sibi conglomeravit, dedicata a Giulio Mancini. Si tratta di un’elegante opera in esametri divisa in sei libri corrispondenti alle diverse età della vita alle quali erano rispettivamente associate le seguenti discipline: logica, matematica, fisica, metafisica, morale e infine medicina. Della sua attività di medico pratico testimonia invece la rarissima opera De peste libellus (Bologna 1631) dedicata a Fabio Chigi – futuro papa Alessandro VII e all’epoca legato a Ferrara – e riguardante l’epidemia pestilenziale del 1629-30.
Divenne ben presto una personalità di spicco dell’ambiente intellettuale cittadino, ricordato per la sua conoscenza delle lingue greca, latina, araba e caldaica (Ugurgieri-Azzolini, 1649). Attento osservatore dei dibattiti che attraversavano il mondo scientifico del tempo, nel luglio 1633 assistette in casa dell’arcivescovo Ascanio Piccolomini a un’aspra controversia sull’esistenza del vuoto tra Francesco Pelagi e Galileo Galilei, rifugiatosi a Siena dopo la condanna del giugno precedente.
Dell’episodio riferì dettagliatamente in una lettera a Fabio Chigi (Bibl. apost. Vaticana, Chigi, A. II. 51, c. 451). In una seconda lettera a Chigi del settembre dello stesso anno, ritornò a parlare di Galileo. Da un lato, osservò che egli «non affermando cosa alcuna, ma passandosela per dubitationi, non pare che venga a ferire alcuna determination sacra, ma inferma solamente le ragioni d’Aristotele e scuopre i paralogismi del medesimo, circa l’eternità del cielo e la corruptibilità della terra assai concludentemente». Dall’altro lato, si mostrò scettico rispetto alle concezioni galileiane sul moto della terra giudicando i suoi discorsi fondati più sull’«acutezza» che sulla «dottrina» e concludendo in maniera lapidaria che «da’ suoi discorsi si cava più ignoranza che scienza». Anche in questo caso però Naldi diede a Galileo piena assoluzione sul piano teologico affermando che «pur di là non escono se non sante determinationi, e bisogna che egli habbia patientia» (ibid., c. 456).
Negli anni in cui esercitò la professione a Siena, la sua fama di medico crebbe considerevolmente. Secondo alcuni fu inviato dal granduca di Toscana Ferdinando II a curare il principe di Damasco affetto da un grave morbo (Mandosio, 1696, pp. 161 s.). In quel viaggio ebbe probabilmente occasione di visitare il Monte Libano sul quale anni dopo compose un poema (Bibl. apost. Vaticana, Chigi, R. I. 18, cc. 340-341).
Nel 1641 fece ritorno in patria e iniziò la sua attività didattica presso lo Studio senese occupando prima la cattedra di logica e poi quella di filosofia naturale. Insegnò a Siena fino al 1647 quando gli fu offerto l’insegnamento ordinario di filosofia presso l’Università di Pisa. Qui trascorse otto anni e, secondo un iter abbastanza consueto al tempo, passò poi alla cattedra di medicina teorica e quindi a quella di pratica. Legata al suo insegnamento filosofico è l’opera Pamphilia. Mundi universi amicitia, cui dissidentes philosophorum opiniones conciliantur (Siena 1647), dedicata al granduca Ferdinando II, dove espose le opinioni delle principali scuole filosofiche tentandone un’armonizzazione in stile scolastico.
La carriera del medico e filosofo subì una svolta sostanziale nel 1655 quando fu chiamato a Roma dal pontefice Alessandro VII per sostituire il medico Giacomo Baldini.
Al momento di formare la sua nuova familia, il papa, che ben conosceva le sue doti professionali e intellettuali, si rivolse all’«amico antico» (Sforza Pallavicini, 1839, I, p. 260). Della relazione di amicizia e della stima reciproca che legava i due testimoniano i loro scambi epistolari. Durante la sua permanenza in terra tedesca, il futuro papa scrisse a Naldi una lunga lettera in latino per avere consigli circa i calcoli che lo affliggevano (Siena, Biblioteca comunale degli Intronati, D.V.7, c. 31r). Dopo l’elezione di Alessandro VII, Naldi venne dunque nominato medicus secretus e cubicularius intimus, come egli stesso ricorda nei frontespizi delle sue opere del periodo romano. Delle funzioni che svolse presso il palazzo apostolico testimoniano alcune regole per il mantenimento della salute scritte per un illustre signore, probabilmente il pontefice (Bibl. apost. Vaticana, Chigi, M. VI. XXI, cc. 9r-12r) e un consulto sul mal della pietra che continuava ad affliggere Alessandro VII (ibid., Chigi, E. VII. 205, cc. 538r-546v).
Con il sostegno del pontefice, divenne ben presto una personalità chiave del sistema medico cittadino, entrando a far parte del collegio dei medici e del corpo dei docenti della Sapienza, dove rimase fino alla morte.
In qualità di membro del collegio fu tra i firmatari della nuova versione degli Statuti che nel 1676 ridisegnò la fisionomia e le funzioni dell’istituzione e ricoprì ben quattro volte la carica di protomedico nel 1660, nel 1661, nel 1666 e nel 1667 (Archivio di Stato di Roma, Statuti 322, p. 115). Anche la sua attività di insegnante fu molto intensa. La sua docenza ebbe inizio nel 1655, quando venne affiancato a Gabriele Fonseca e a Giovanni Benedetto Sinibaldo nell’insegnamento della medicina pratica. In virtù della sua fama e soprattutto della posizione di archiatra pontificio gli fu accordato un salario di 600 scudi, considerevolmente più alto di quello dei suoi colleghi che di scudi ne ricevevano rispettivamente 500 e 370 (E. Conte, I maestri della Sapienza di Roma dal 1514 al 1787: i rotuli e altre fonti, Roma 1991, I, p. 325). Insegnò la medicina pratica per 27 anni, diventando così uno dei pilastri dello Studium del secondo Seicento. Le sue lezioni riguardarono i temi classici della disciplina e in particolare i morbi della testa, le malattie del torace e le febbri.
Parallelamente alla sua attività didattico-istituzionale, esercitò attivamente la professione, non solo presso il palazzo apostolico, ma anche a beneficio di altre illustri personalità. Da una fonte fiorentina risulterebbe che nei primi anni Sessanta, fu anche medico di casa dei Colonna, che lo inviarono a Macerata a curare Maria Mancini Colonna nel 1661 (Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del Principato 4027, c. 806), mentre a Roma curò Cristina di Svezia nel giugno 1658 (ibid., 3384, c. 6).
A Roma si prodigò anche in perizie e consulti, come è evidente dai documenti conservati nel fondo Chigi della Biblioteca apostolica Vaticana. Particolarmente interessante lo studio che fece sul caso di una donna affetta da una «mola». Scrisse un breve trattato sull’argomento (historia morbi) e lo inviò a celebri medici romani e forestieri per avere i loro pareri, realizzando in questo modo un vero e proprio dossier (Mulier a XXV mensibus tumida foetu flatu mola monstro grave morbum incertum), che era probabilmente destinato a una personalità dell’entourage di Alessandro VII e forse allo stesso pontefice (Bibl. apost. Vaticana, Chigi, F. VII, 162).
Gli anni romani furono poi quelli della redazione delle sue tre opere principali. Le Regole per la cura del contagio (Roma 1656) furono composte in occasione del diffondersi dell’epidemia nel 1656 e vennero dedicate a Mario Chigi, fratello del pontefice. Nel corso dell’opera Naldi si rivela un deciso oppositore delle teorie contagioniste. Malgrado il fatto che le sue convinzioni fossero messe a dura prova dagli eventi, infatti affermava che il contagio era presunto e non reale. Questa convinzione si ripercuoteva anche sulle misure suggerite. La miglior prevenzione e la miglior cura erano a suo avviso un regimen vitae regolato e adattato alla situazione di emergenza. Il ricorso alla quarantena era preso in considerazione solo in casi estremi. La composizione di un’opera sulla peste fornì inoltre a Naldi l’occasione per ribadire la supremazia dei medici ‘ufficiali’, sugli ‘empirici’ e in particolare sui ciarlatani contro i quali lanciò pesanti invettive.
La seconda opera romana fu un’edizione con commentario originale di 25 aforismi di Ippocrate (Aphorismorum Hippocratis explanatio, Roma 1657), dedicata a Fabio Chigi. Di ogni aforisma è riportato il testo originale in greco e la traduzione latina. A esso segue un dettagliato commento attraverso il quale l’autore intendeva rendere accessibile il pensiero ippocratico, appianandone le asperità. Infatti, come sottolinea nell’epistola al lettore che apre il volume, l’opera non fu scritta per erudire ulteriormente i medici, ma per istruire coloro che ne dovevano fare le veci (cc. V-VI s.n.). Per Naldi gli aforismi costituivano il miglior compendio dell’ars medica e soprattutto della sua branca principale, la fisiologia (p. 2). Per facilitare un uso pratico della sua opera, la corredò di un indice per materie che permetteva di ritrovare le informazioni riguardanti diversi soggetti medici attraverso la frammentata opera ippocratica.
L’ultima e più ambiziosa opera di Naldi è il Rei medicae prodromi praecipuorum physiologia problematum tractatis quibus peripateticae doctrinae nova traditur etymologia (Roma 1682), un trattato di stampo scolastico nel quale sono affrontati i temi classici della filosofia naturale la cui conoscenza era considerata imprescindibile per il buon medico (p. 142). L’opera è apertamente diretta contro i medici anti-aristotelici contemporanei di Naldi e costituisce una sorta di esposizione del suo credo intellettuale. Questo trattato costituiva forse il preludio a un compendio «che doveva abbracciare tutta la filosofia e la medicina di quei tempi» (Fabroni, 1795B, pp. 76 s.). Che nelle intenzioni di Naldi vi fosse la pubblicazione di altre opere sembra confermato da Mandosio, secondo il quale alcuni testi inediti erano conservati dagli eredi (Mandosio, 1696, p. 163).
Morì a Roma nel 1682.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, 3384, c. 6; 4027, c. 806; Archivio di Stato di Roma, Università, 26, c. 22; Ibid., Statuti 322, p. 115; Siena, Biblioteca comunale degli Intronati, D.V.7, c. 31r; Bibl. apost. Vaticana, Chigi, B. I. 12; A. II. 51, cc. 451-456; R. I. 18, cc. 340r-341v; F. VII, 162; M. VI. XXI, cc. 9r-12r; E. VII. 205, cc. 538r-546v; I. Ugurgieri-Azzolini, Le pompe sanesi, o’vero Relazione delli huomini, e donne illustri di Siena, e suo Stato, Pistoia 1649, p. 541; P. Mandosio, Theatron, in quo Maximorum Christiani Orbis Pontificum archiatros [...] spectandos exhibet, Roma 1696, pp. 161-164; G. Targioni Tozzetti, Notizie degli aggrandimenti delle scienze fisiche, I, Firenze 1780, pp. 359 s.; A. Fabroni, Historia Academiae Pisanae, III, Pisa 1795A, pp. 390-392, 572; estratto in Giornale de’ letterati, XCIX (1795B), pp. 72-108; F.M. Renazzi, Storia dell’Università degli studi di Roma detta comunemente La Sapienza, III, Roma 1805, p. 189; G. de Novaes, Elementi di storia, X, Roma 1822, p. 176; P. Sforza Pallavicini, Della vita di Alessandro VII libri V, I, Prato 1839, pp. 109 s., 266; G. Gigli, Diario sanese, Siena 1854, p. 244; L. Moriani, Notizie sull’Università di Siena, Siena 1873, p. 42; Di alcuni istituti d’istruzione e di beneficienza in Siena, Siena 1891, p. 19; Le opere di Galileo Galilei: edizione nazionale sotto gli auspici di sua maestà il re d’Italia, a cura di A. Favaro et al., XV, Firenze 1904, ad ind.; J.J. Walsh, The popes and the science, Fordham 1915, pp. 462 s.; L. Thorndike, A history of magic and experimental science: the seventeenth century, New York-London 1958, pp. 277 s.; P. Savio, Ricerche sulla peste di Roma degli anni 1656-1657, in Archivio della Società romana di storia patria, XCV (1972), pp. 113-142; A. Angelini - M. Butzek - B. Sani, Alessandro VII Chigi(1599-1667): il papa senese di Roma moderna, Siena 2000, pp. 28, 97, 99, 112, 132, 139, 161; G. Rita, Il Barocco in Sapienza. Università e cultura nella Roma del secolo XVII, in Luoghi della cultura nella Roma di Borromini, Roma 2004, pp. 50 s.; Id., Dalla Controriforma ai Lumi. Ideologia e didattica nella Sapienza romana del ’600, in Annali di storia delle università italiane, IX (2005), www.cisui.unibo.it/ annali/09/testi/17Rita_frameset.htm; M. Conforti, Peste a stampa. Trattati, relazioni e cronache a Roma nel 1656, in Roma moderna e contemporanea, XIV (2006), pp. 138, 156; P. Rietbergen, Power and religion in Baroque Rome. Barberini cultural policies, Brill 2006, p. 307; M. Conforti, ‘Affirmare quid intus sit divinare est’: mole, mostri e vermi in un caso di falsa gravidanza di fine Seicento, in Quaderni storici, XLIV (2009), 130, pp. 125-152.