MAURI
(Mauro). – Famiglia di scenografi veneziani la cui attività è stata praticamente ininterrotta per più di due secoli: dalla seconda metà del Seicento fino alla prima metà dell’Ottocento. I M., infatti, possono a ragione essere considerati un caso esemplarmente tradizionale di «officina familiare», oltre che essere annoverati tra i fondatori della scuola scenografica veneziana (Zorzi, p. 21).
Durante il XVII secolo l’apparato scenico assunse un’importanza maggiore rispetto al passato e la costruzione di fondali mobili, macchine sempre più complesse, e l’arricchimento delle infrastrutture teatrali portò inevitabilmente a una organizzazione più articolata del lavoro in cui era fondamentale la sinergia fra le diverse specializzazioni, così come era necessario un sistema standardizzato in grado di garantire lo stesso livello di qualità e la stessa facilità di montaggio in ogni teatro, italiano ed europeo (Cruciani, p. 30). Una tale organizzazione della rappresentazione barocca richiedeva l’utilizzo di maestranze specializzate e preparate che fossero in grado di far fronte a qualsiasi richiesta dei committenti. In Italia, dove nel XVII secolo si assiste a una grande diffusione di teatri sia pubblici sia privati, la risposta a questo tipo di esigenze fu la nascita di vere e proprie cooperative familiari i cui membri lavoravano insieme «spesso gestendo l’intera impresa dello spettacolo» (Zorzi, p. 22).
Sebbene meno celebri rispetto ai Galli Bibiena, i M. riuscirono comunque a imporsi sul mercato italiano ed europeo contribuendo a esportare, insieme con altre famiglie come quelle dei Burnacini, dei Clerici o dei Galliari, il modello del cosiddetto «teatro all’italiana». Di almeno sedici componenti della famiglia M. si conosce l’attività; ma le notizie biografiche sono ancora oggi assai scarse, sia per la mancanza di documentazione sia perché i frequenti casi di omonimia hanno spesso reso difficile il lavoro di ricostruzione della stirpe e delle relazioni familiari. Un possibile albero genealogico è stato proposto da Elena Povoledo: il suo è a tutt’oggi l’unico studio sistematico sulla famiglia.
Francesco sembra essere il capostipite della casata; tracce della sua attività sono state rilevate non tanto a Venezia quanto a Monaco di Baviera dal 1662 al 1692. Chiamato probabilmente da Francesco Santurini, attivo già presso la corte, Francesco collaborò, non si sa se alle sue dipendenze (Lipowsky, I) o piuttosto come socio, alla realizzazione degli apparati scenici delle feste volute dall’elettore Ferdinando Maria di Baviera e dalla consorte Adelaide di Savoia.
Appositamente per Adelaide, alla quale forse si deve la presenza a corte di Santurini e di Francesco, fu progettata e realizzata la tipica imbarcazione di gala veneziana, il bucintoro, varata nelle acque del lago di Starnberg. I compiti dei due ingegneri non si limitavano infatti all’organizzazione delle feste e degli spettacoli effimeri. Sicuramente Santurini fu impegnato nella progettazione del teatro della Salvatorplatz, terminato nel 1657; è dunque plausibile ipotizzare anche in questo caso una collaborazione con Francesco tanto più se si considera che sempre alla famiglia M. spettò il compito di restaurare e rimodernare lo stesso teatro nel 1685 (Damerini, p. 236; Povoledo, col. 311).
Forse figlio di Francesco (ma non esistono documenti che lo provino) fu Gaspare, «machinista», fratello di Domenico (I) e di Pietro, così come si può ricavare dai frontespizi di diversi libretti d’opera (ibid., coll. 312 s.). A Gaspare si deve il principio dell’atelier familiare e sicuramente fu grazie a lui che il nome dei M. si affermò sia a Venezia, sia presso le maggiori corti principesche. Compare una prima volta nel 1657 insieme con Francesco Santurini (presso il quale si è ipotizzato un discepolato) per la messa in scena delle Fortune di Rodope e Damira di Pietro Andrea Ziani, rappresentato nei teatri veneziani di S. Apollinare e di S. Cassiano.
Sia Gaspare sia Santurini operavano nelle vesti di «direttori delle scene e macchine» come anche in quella di «ingegneri»; e ciò non stupisce poiché entrambi provenivano, più che da un ambiente artistico, da esperienze maturate in campo navale. Testimone prezioso in tal senso è stato Nicodemus Tessin il Giovane, architetto svedese in visita a Venezia per un aggiornamento sui più recenti sviluppi in materia di macchinari e apparati scenici. Tessin, nelle sue memorie, ricorda che i responsabili scenotecnici e scenografi dei tre teatri veneziani diretti dall’abate Vincenzo Grimani (S. Giovanni Crisostomo, Ss. Giovanni e Paolo e S. Luca) erano proprio Francesco Santurini e Gaspare M. i quali, quando non prestavano il loro ingegno al teatro, lavoravano e vivevano all’Arsenale (Bjurström, pp. 29 s.).
Attivo dunque come «machinista» o architetto (in un unico caso è registrato come inventore delle scene: nel libretto per l’Eliogabalo di Giovanni Antonio Boretti del 1668), Gaspare doveva servirsi di pittori specializzati, tra cui Ippolito Mazzarini, con il quale collaborò continuativamente per venti anni (dal 1659 al 1679), e il fratello Domenico, esperto per l’appunto nell’invenzione e nella pittura delle scene, per lo più attivo accanto allo stesso Gaspare. Ormai celebre a Venezia, grazie, tra l’altro, a incarichi fissi come quello di primo ingegnere stabile del teatro di S. Giovanni Crisostomo, Gaspare cominciò a essere richiesto anche altrove: fu a Piacenza nel 1669 (Rapetti) e soprattutto tra il 1685 e il 1686 lavorò a Monaco con il fratello Domenico per le feste di nozze dell’elettore Massimiliano Emanuele II di Baviera con Maria Antonia d’Asburgo.
Nello stesso periodo intervenne sul teatro della Salvatorplatz aggiungendo il palco reale e modificando l’arco di proscenio; in più, seppure non sempre attestato dalle fonti, si occupò degli aspetti tecnici legati alla messa in scena di alcuni spettacoli come il Servio Tullio di Agostino Steffani (1685), le cui scenografie furono un’invenzione del fratello Domenico, e L’Ascanio in Alba di Giuseppe Antonio Bernabei, realizzato per il carnevale del 1686 (Povoledo, col. 312).
Gli anni successivi lo videro impegnato a Torino nel 1689, dove era già stato nel 1679 in compagnia del fratello Domenico (M.T. Muraro, p. 155; Baudi di Vesme), e a Parma nel 1690, chiamato in occasione delle nozze di Odoardo Farnese con Dorotea Sofia di Neuburg.
Per festeggiare l’evento, il duca Ranuccio II aveva appositamente fatto costruire una «gran peschiera» nei giardini ducali dove il 24 maggio 1690 andò in scena la naumachia La gloria d’Amore di Aurelio Aureli, musica di Bernardo Sabadini, il cui «pomposo, e vago apparato fatto senza alcuno riguardo di spesa», in materiale ligneo, fu approntato dai fratelli M.: Gaspare, Domenico e Pietro (Il trionfo del barocco…, p. 97). Al combattimento navale fece seguito, a chiusura dei festeggiamenti nuziali, Il favore degli Dei di Sabadini rappresentato nel teatro Farnese la sera del 25 maggio.
Ai lavori parmensi, di cui è rimasto un ricco corredo iconografico, partecipò forse anche il figlio di Gaspare, Giuseppe, la cui attività di «inventore e direttore delle scene» è poco documentata e comunque circoscritta a Milano e Venezia dal 1699 al 1722 (Povoledo, col. 316). L’ipotesi di una possibile collaborazione con il padre è stata però avanzata a causa del ritrovamento di alcune ricevute di pagamento per lavori eseguiti nei teatri di Parma e Piacenza nel gennaio del 1692 e nel febbraio del 1693, che confermerebbero una continuità familiare alle dipendenze della corte farnesiana (Il trionfo del barocco…, p. 97). Le commissioni parmensi contribuirono certamente alla fama dei M., se nel 1697 Gaspare è menzionato come uno «tra gli architetti più rinomati di Venezia» (Coronelli). Dell’ultimo periodo non si conservano memorie; ma la sua attività dovette proseguire almeno fino al 1720 quando, improvvisamente, il figlio Giuseppe cominciò ad apparire sui libretti d’opera come «quondam Gaspare» (Povoledo, col. 312).
Eredi di Gaspare furono, oltre naturalmente a Giuseppe, il fratello di questo, Antonio (II), di cui si hanno notizie dal 1709 al 1736, e i nipoti: Antonio (I), Gerolamo (I), Romualdo e Alessandro, figli probabilmente di Domenico.
Poco o nulla si conosce di Gerolamo (I). Le informazioni tratte dai libretti consentono di descrivere solo in modo estremamente sintetico la sua attività lavorativa relativa agli anni intercorsi fra il 1692 e il 1719. Quasi sempre è ricordato in collaborazione con gli zii, e allo stesso modo con Domenico insieme con il quale progettò un gruppo di «peote» da regata di cui si conservano alcuni disegni presso l’Albertina di Vienna. Continuò a lavorare successivamente, a Milano e a Dresda, in società con il fratello Alessandro (ibid., col. 314).
Anche Romualdo, la cui qualifica è alternativamente quella di pittore e architetto, è spesso associato ad Alessandro, presente sia sulla scena milanese sia su quella veneziana: a Venezia lavorò stabilmente, come da tradizione familiare, per i teatri dei Grimani, il S. Giovanni Crisostomo e il S. Samuele, nel quale la sua presenza è confermata fino al 1727. Per gli anni compresi tra il 1727 e il 1744 manca qualsiasi traccia di una sua attività in laguna, per cui è stata ipotizzata una lunga assenza dovuta, con ogni probabilità, a impieghi presso una qualche corte italiana o europea di cui purtroppo non ci sono testimonianze. Di nuovo però lo si ritrova a Venezia nel 1647 sempre al teatro S. Samuele e sempre in compagnia del fratello Alessandro. Entrambi infatti collaborarono alla ricostruzione e alla decorazione del teatro andato distrutto da un incendio. Dal 1756 non si hanno più notizie di Romualdo forse a causa della sua morte o anche, più semplicemente, perché ritiratosi dall’attività (ibid., col. 315).
La documentazione su Alessandro è più ricca, anche perché dei quattro fratelli fu quello che raggiunse il maggior successo. Durante il secondo decennio del Settecento egli si divise fra la corte viennese (1711) e Venezia. Qui affiancò agli incarichi per il teatro di S. Giovanni Crisostomo le commissioni occasionali ricevute soprattutto in conseguenza di ricorrenze particolari, come la visita del principe Federico Augusto II di Sassonia, del 1716, per il quale progettò una «peota» da regata il cui tema allegorico era la China condotta in trionfo dall’Asia opera che, probabilmente, gli valse l’invito a Dresda. In veste di pittore di prospettive architettoniche lavorò a Pinerolo, nella chiesa della Visitazione, accanto al pittore «di figura» Sebastiano Galeotti. Quindi lo si ritrova tra il 1717 e il 1719 a Dresda, insieme con il fratello Gerolamo (I), impegnato nella decorazione del Redoutensaal e nella costruzione dell’Opernhaus. Negli anni Venti fu di nuovo a Venezia registrato nella fraglia dei pittori nel 1720 e nel 1725. L’anno seguente si trovava a Roma dove lavorava alle dipendenze del teatro Alibert, ma anche individualmente per occasioni celebrative e feste: famoso il suo allestimento per la Cantata in onore di Benedetto XIII nel cortile del palazzetto di Venezia del 1727.
Per l’occasione Alessandro ideò una complessa macchina-scena al centro del cortile così come è raffigurato nell’incisione di Filippo Vasconi (ibid., col. 315). Naturalmente egli fu incaricato anche dell’allestimento degli apparati per le celebrazioni religiose romane, come quella che si svolse il venerdì santo del 1727 in S. Lorenzo in Damaso.
Allo scadere del terzo decennio fu nuovamente a Dresda chiamato per i festeggiamenti in onore di Federico II di Prussia, per poi passare al teatro Regio di Torino nel 1737 (M.T. Muraro, p. 158) e tornare nuovamente a Venezia per la ricostruzione già citata del teatro di S. Samuele. Nel 1750 doveva essere già morto poiché a questa data la fraglia dei pittori menziona Gerolamo (II), uno dei suoi due figli (l’altro si chiamava Domenico), come «quondam Alessandro» (Povoledo, col. 315).
Di un Antonio si ha qualche dato biografico in più rispetto agli altri familiari grazie alle ricerche compiute da Moretti (1980) che, per quanto aiutino a far luce su alcuni aspetti, non coincidono con l’albero genealogico proposto da E. Povoledo.
Qui sono infatti registrati due Antonio: uno, di cui si hanno notizie dal 1692 al 1733; l’altro, attivo dal 1709 al 1736. I due erano cugini, il primo riconosciuto come probabile figlio di Domenico e fratello di Gerolamo, Romualdo e Alessandro; il secondo, come figlio di Gaspare e fratello di Giuseppe (Povoledo, col. 311). Questa omonimia, e ovviamente il fatto che fossero praticamente coetanei, ha ulteriormente complicato il lavoro di riconoscimento da parte degli studiosi per cui la stessa Povoledo (col. 316) ammette che «fuorché per le scene di Leucippe e Teonoe, eseguite in collaborazione col fratello, e per quelle di Argenide, eseguite col cugino Antonio I, non è possibile precisare quali delle scene firmate Antonio Mauri appartenessero ad Antonio I e quali ad Antonio II».
Nato nel 1669 a Venezia, Antonio (I) è ritenuto da Moretti (p. 91) figlio di Domenico e fratello di Gaspare e di Alessandro. Dai documenti risulta che questo Antonio visse dal 1710 fino alla sua morte a Venezia in corte dell’Alboro a S. Angelo, che si sposò due volte ed ebbe dei figli che però non gli sopravvissero. Ma la sua attività lo condusse anche fuori Venezia; e di una di queste sue trasferte si ha testimonianza nel carteggio intercorso con Antonio Vivaldi.
Lo scambio epistolare fu di natura extragiudiziale e riguardò un diverbio fra il musicista e il pittore: Vivaldi, infatti, non potendo comparire formalmente in veste di impresario teatrale (incarico poco consono a un religioso), si servì di Antonio come prestanome per allestire due spettacoli, il Siroe e il Farnace presso il teatro Bentivoglio di Ferrara nel 1738. L’insuccesso della prima opera rappresentata pregiudicò inevitabilmente la messa in scena della seconda; e Antonio si trovò nella delicata quanto sgradevole posizione di dover tenere fede ai contratti conclusi con il personale già scritturato. Per evitare il rimborso dei compensi pattuiti ai cantanti, ballerini e orchestrali cercò di scaricare la propria responsabilità dichiarando, in una scrittura notarile, il suo vero ruolo in tutta l’impresa. Vivaldi ovviamente non mancò di replicare; e il carteggio rende con schietto realismo un autentico spaccato di vita di chi si trovava ad agire e lavorare nel mondo del teatro (Moretti, pp. 91-93, 95-97).
Indubbiamente Antonio non si arricchì con la sua professione; ed è significativa in questo senso la breve testimonianza resa dal parroco di S. Angelo che ricorda come al 15 apr. 1750 «Antonio Mauri con sorella faceva il pittore, ora impotente e povero, paga ducati tre»[di affitto] (ibid., p. 91). Lo stesso parroco l’anno successivo, annotando la morte avvenuta il 26 luglio 1751, aggiungeva che alcuni suoi nipoti si erano presi cura delle esequie; doveva trattarsi verosimilmente della discendenza fraterna (o anche di qualche sorella, ma del ramo femminile della famiglia non resta alcuna traccia), dal momento che Antonio era morto senza eredi. Secondo la ricostruzione di Povoledo, Antonio aveva tre nipoti: due erano i già citati figli di Alessandro, Gerolamo (II) e Domenico (II), e uno era figlio di Romualdo: Gerolamo (III).
Come per i due Antonio, anche nel caso dei Gerolamo è pressoché impossibile circoscrivere l’attività dell’uno o dell’altro. Spesso infatti sono presenti a Venezia negli stessi luoghi e per le stesse commissioni firmandosi sempre come «Cugini Gerolimi Mauri». Di Gerolamo (II) si posseggono però gli estremi biografici grazie alle notizie contenute nei Notatori Gradenigo: «Ecco oggi [4 marzo 1766] registrato nel libro delli defunti della contrada di S. Moisè il nome di Gerolamo Mauri, primario pittore teatrale veneziano, che nel proposito diede molte prove commendabili a se stesso e famiglia, sopra le scene et altre meravigliose trasformazioni. Ultimamente li fu assegnato l’impegno di soprintendere alla grand’opera delli tre Peattoni ducali, e dalla magnificenza del primo già compito ormai rissultava l’inventione et onorificenza degli altri due, mai più meglio grandiosi et eleganti. Morì egli in età d’anni 41» (in Povoledo, col. 318): dal che ne consegue che fosse nato nel 1725 circa.
Si è detto che Gerolamo (III) fu figlio di Romualdo e come tale infatti è indicato nella fraglia dei pittori veneziani sia nel 1756 sia nel 1776. A parte la collaborazione con il cugino, sicuramente sue furono le scenografie per la Serva scaltra di Giuseppe Scarlatti e quelle per le Nozze disturbate di Giovanni Paisiello andate entrambe in scena a Padova per il teatro Obizzi nel 1766. Come i suoi predecessori, anche Gerolamo (III) ricoprì la carica di pittore stabile per i teatri veneziani di S. Salvatore dal 1775 al 1781 e per quello di S. Moisè dal 1782 al 1787. L’anno successivo, l’ultimo in cui si hanno sue notizie, fu impegnato, sempre stabilmente, presso il teatro di S. Giovanni Crisostomo (ibid., col. 319). Un ulteriore incarico di Gerolamo (III) era stata la preparazione per la festa del carnevale di Vicenza del 1787.
In quell’occasione aveva probabilmente lavorato in società con il nipote Antonio (III), figlio di Domenico (II), così come era già accaduto per le scenografie dell’opera Narbale di Ferdinando Giuseppe Bertoni, rappresentata nel 1774 al teatro S. Moisè. Di questo altro componente della famiglia dei M. non si conosce nulla almeno fino al 1780, quando compare assunto continuativamente presso il teatro di S. Benedetto di Venezia dove rimase fino al 1798. Ciò non gli impedì di prestare il proprio ingegno in altre produzioni o in altri teatri sia veneziani sia della Terraferma secondo quanto riportano le poche testimonianze a lui riferibili (ibid., col. 320).
La discendenza diretta termina con questo Antonio. Degli ultimi due M., Alessandro (II) e Gaetano, non si conosce la paternità; e in più, benché cronologicamente più vicini, mancano fonti e prove della loro attività.
Di Alessandro (II) esiste un ricordo, in realtà poco lusinghiero, circa il furto di un lavoro perpetrato ai danni del pittore vedutista Vincenzo Chilone (Mulinelli); mentre di Gaetano rimane una citazione in Emanuele Cicogna il quale, a proposito di alcuni lavori di ingegneria idraulica compiuti tra il 1806 e il 1820 a S. Giorgio Maggiore, ricorda che Gaetano «pittore prospettico, riputato per abilità e gran pratica teatrale» fu utilizzato per realizzare una visualizzazione grafica delle strutture in costruzione. E. Povoledo (col. 321) ritiene che nel 1834 Gaetano dovesse essere già morto.
Fonti e Bibl.: C. Ivanovich, Minerva al tavolino, Venezia 1691, p. 453; V. Coronelli, I viaggi del p. Coronelli, I, Venezia 1697, p. 24; F. Lipowsky, Bayerisches Künstlerlexikon, I, München 1810, p. 198; II, ibid. 1811, p. 67; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, IV, Venezia 1834, p. 395; F. Mulinelli, Annali urbani di Venezia dall’anno 810 al 12 maggio 1797, Venezia 1841, p. 692; F.R. Rudhart, Geschichte der Opera am Hofe zu München, Freising 1863, p. 78; Cronistoria degli spettacoli in Piacenza (1230-1890), a cura di A. Rapetti, Piacenza 1943, p. 3; E. Povoledo, Mauro, in Enc. dello spettacolo, VII, Roma 1960, coll. 310-321; A.M. Muraro, Venezia, ibid., IX, ibid. 1962, coll. 1541 s., 1544-1547, 1549; G. Damerini, Il trapianto dello spettacolo teatrale del Seicento nella civiltà barocca europea, in Barocco europeo e barocco veneziano, a cura di V. Branca, Venezia 1962, pp. 236-238; A. Baudi di Vesme, L’arte in Piemonte dal XVI al XVIII secolo. Schede, II, Torino 1966, p. 664; C. Molinari, Le nozze degli dei, Roma 1968, pp. 10, 145-147, 154 s., 197, 204-206; A. Nicoll, Lo spazio scenico, Roma 1971, p. 129; L. Zorzi, I teatri pubblici di Venezia, Venezia 1971, pp. 21 s., 154; M.T. Muraro, Venezia e il melodramma nel Seicento, Firenze 1976, pp. 148-151, 155, 158, 166, 170, 341, 345; Dai Parigi ai Bibiena (catal.), a cura di G. Ricci, Prato-Bibiena 1979, s.v. Mauri, Domenico; L. Moretti, Dopo l’insuccesso di Ferrara: diverbio tra Vivaldi e Antonio Mauri, in F. Degrada, Vivaldi veneziano europeo, Firenze 1980, pp. 89-99, 164, 184, 188 s., 191, 201, 236, 244; M. Angiolillo, Lo spettacolo barocco a Venezia, Roma 1987, pp. 56-77; L. Bianconi - G. Pestelli, Storia dell’opera italiana, Torino 1987, pp. 19 s., 37, 53-55, 57, 61 s., 77, 117, 122, 131; Il trionfo del barocco a Parma nelle feste farnesiane del 1690, Parma 1989, pp. 97-138, 161, 164, 166-178, 188, 193-212, 224 s.; F. Cruciani, Lo spazio del teatro, Roma-Bari 1992, pp. 30 s.; M. Angiolillo, Il trionfo della scenografia barocca, Roma 2000, pp. 14, 93-95, 134, 139 s.; P. Bjurström, Nicodemus Tessin il Giovane: Descrizione delle macchine sceniche nei teatri veneziani, 1688, in Giacomo Torelli: l’invenzione scenica nell’Europa barocca (catal.), a cura di F. Milesi, Fano 2000, pp. 29 s., 32; M.I. Biggi, La scenografia, in Teatro Malibran, a cura di M.I. Biggi - G. Mangini, Venezia 2001, pp. 137-142, 146; Illusione e pratica teatrale (catal.), a cura di F. Mancini - M.T. Muraro - E. Povoledo, Pisa 2001, pp. 65, 76 s., 113, 116, 124; F. Perrelli, Storia della scenografia, Roma 2002, pp. 116, 120; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXIV, pp. 283 s.