SAVOIA, Maurizio
di. – Nacque a Torino il 10 gennaio 1593, quartogenito di Carlo Emanuele I e di Caterina d’Asburgo. Padrino di battesimo fu il principe di Piemonte, Filippo Emanuele, madrina donna Matilde di Savoia (sorella naturale del duca).
Educato secondo i rigidi modelli dell’etichetta spagnola, dopo la morte della madre (1597), della sua formazione si occupò, in veste di precettore, l’abate Giacomo Goria (futuro vescovo di Vercelli) e, successivamente, Giovanni Botero.
La scelta di destinare il giovane principe alla carriera ecclesiastica maturò quando la corte torinese prospettò alla Curia romana l’esigenza di ottenere un cappello cardinalizio per un rampollo di Casa Savoia. Nella primavera del 1606 la porpora sembrava probabile per il terzogenito del duca, Emanuele Filiberto, il quale allora si trovava ancora in Spagna (dove si era trasferito nel 1603 insieme ai due fratelli maggiori, Filippo Emanuele – che vi morì nel 1605 – e Vittorio Amedeo). Di fronte alle resistenze di Filippo III, più propenso a indirizzare il nipote Emanuele Filiberto alla carriera militare (divenne infatti grande ammiraglio di Spagna e viceré di Sicilia), la scelta ricadde su Maurizio, che fu creato cardinale da Paolo V nel Concistoro del 10 dicembre 1607.
Al giovane principe, che mai prese i voti («poiché quell’abito non l’obliga a cosa che in un bisogno non si possa lasciare, senza scrupolo e con permissione di nostro Signore, che non lo negherebbe in tal caso», aveva preconizzato Carlo Emanuele; Oberli, 1999, p. 59), venne assegnato il titolo diaconale di S. Maria Nuova, che successivamente lasciò per assumere quelli di S. Eustachio (1621) e, pochi anni dopo, di S. Maria in Via Lata. Maurizio fu inoltre provvisto di molti benefici, legati alle abbazie di cui divenne commendatario (S. Giusto di Susa, S. Stefano d’Ivrea, S. Maria di Casanova, St.-Jean-d’Aulps, S. Benigno di Fruttuaria, S. Michele della Chiusa e Notre-Dame d’Abondance), e ai canonicati di cui era titolare a Liegi e Colonia. Carlo Emanuele avrebbe voluto ottenere per il figlio anche la nomina ad arcivescovo di Siviglia, la cui cattedra vacava dal 1609, Filippo III destinò invece il giovane nipote alla diocesi (anch’essa vacante) di Monreale. Tale nomina, stante l’immatura età di Maurizio, non venne ratificata dal papa, il quale concesse tuttavia al principe il godimento dei frutti del vescovado siciliano.
Seguendo il suggerimento di Botero, che nel 1608 aveva sconsigliato il giovane cardinale di recarsi a Roma, Maurizio tardò parecchi anni prima di portarsi nell’Urbe. A complicare la situazione era intanto intervenuta la prima guerra di successione del Monferrato (1613-17). Il conflitto, che vide l’esercito sabaudo contrapporsi a quello spagnolo, accentuò l’orientamento filofrancese di Carlo Emanuele, il quale riteneva ormai indispensabile emanciparsi dalla Spagna attraverso un più stretto rapporto con la Francia. Funzionale a questo disegno sarebbe stato un legame dinastico da realizzare con le nozze fra l’erede al trono sabaudo, Vittorio Amedeo, e Cristina di Francia, sorella del re Luigi XIII. Nelle trattative per definire i termini dell’alleanza tra i Savoia e i Borbone ruolo di primo piano ebbe Maurizio, inviato nell’autunno del 1618 a Parigi, dove rimase sino al gennaio dell’anno successivo. L’impegno diretto del cardinale, a capo di una delegazione composta da oltre duecento soggetti (fra i quali i vescovi di Ginevra e di Saluzzo, Francesco di Sales e Ottavio Viale, l’ambasciatore Filiberto Scaglia di Verrua e il presidente del Senato di Savoia, Antoine Favre), segnalava l’importanza attribuita a una missione da cui dipendevano i futuri assetti geopolitici del ducato. Il positivo esito del negoziato (nonostante l’impressione di distacco nei suoi confronti, che Maurizio ebbe nei contatti con Luigi XIII) portò nel 1619 al matrimonio fra Vittorio Amedeo e Cristina.
L’arrivo a Torino della principessa francese fu tuttavia foriero di tensioni con quella parte della corte che, oltre a mantenere una salda identità spagnola, continuava a prediligere l’asse politico e diplomatico con gli Asburgo. Orientati verso Madrid erano, in particolare, i figli di Carlo Emanuele rimasti a Torino: le infante Maria Apollonia e Caterina Francesca (entrambe future terziarie francescane), e i principi Tommaso e Maurizio. Quest’ultimo, che intanto – nonostante il suo prudente orientamento filospagnolo – era stato nominato da Luigi XIII cardinale protettore di Francia, nella primavera del 1620 si era recato a Roma. Lì, dov’era giunto con un folto seguito di cortigiani (fra cui spiccava il letterato modenese Alessandro Tassoni, in quegli anni a servizio nella corte sabauda), Maurizio aveva riproposto alla Curia l’annosa questione del titolo regio di Cipro, rivendicato dai Savoia, ma negato dalla Sede apostolica e osteggiato dalle altre potenze europee.
Rientrato a Torino nell’estate del 1620, dopo la morte di Paolo V (28 gennaio 1621), Maurizio ripartì per Roma, dove tuttavia arrivò quando il conclave aveva già eletto Alessandro Ludovisi (Gregorio XV). Dal nuovo papa e da suo nipote (il cardinale Ludovico Ludovisi), «inclinatissimi a promovere gli interessi» dei Savoia (Archivio di Stato di Torino, Materie ecclesiastiche per categorie, cat. 1, m. 41, 1-2: O. Moreno, Istoria..., p. 195), Maurizio ottenne, fra le altre cose, la soppressione della vita monastica nelle abbazie della Novalesa, di Fruttuaria e di S. Michele della Chiusa (i cui redditi furono impiegati per l’erezione di una collegiata a Giaveno), nonché la creazione di un collegio gesuitico a Chieri.
Richiamato in Piemonte dal padre (che voleva affidargli una missione diplomatica in Francia, in relazione alla partecipazione sabauda nella guerra della Valtellina e dei Grigioni), nel maggio del 1623 partì per Roma, dove arrivò in tempo per assistere alla morte del papa (sopraggiunta l’8 luglio 1623) e partecipare al conclave che elesse Maffeo Barberini (Urbano VIII). Incaricato dal padre di mostrarsi alla Curia e al papa «tutto diffidente degli spagnuoli e strettissimo colla Francia e con Venezia» (Randi, 1901, p. 45), non riusciva tuttavia a celare le simpatie per Filippo IV che, da parte sua, per cercare di convincere Carlo Emanuele ad abbandonare lo schieramento borbonico, aveva offerto al cardinale l’arcivescovado di Siviglia, nonché il protettorato del Regno di Spagna. Il duca non intendeva però svincolarsi dalla Francia, come risultò evidente dal matrimonio del fratello di Maurizio, il principe Tommaso, con Maria Borbone-Soissons, il cui arrivo a Torino nel 1625 accentuò l’orientamento filofrancese della corte acuendo così l’emarginazione della componente filospagnola.
Anche alla luce dei difficili equilibri della diplomazia ducale, la porpora di Maurizio (che non aveva impedito a Carlo Emanuele di ipotizzare per il figlio un matrimonio con la figlia del duca di Mantova o dell’imperatore al fine di assicurarsi il controllo del Monferrato) veniva intesa come un’opportunità unica per incrementare nella Curia romana l’influenza dei Savoia i quali, a differenza di altre dinastie italiane, non avevano mai potuto contare su una presenza significativa nel S. Collegio.
Durante le sue permanenze a Roma (nella primavera del 1621, dal maggio del 1623 al gennaio del 1627, dal giugno del 1635 all’ottobre del 1638), Maurizio prese residenza a palazzo Orsini, nel rione Ponte a Monte Giordano. Lo sfarzo e la magnificenza che contraddistinsero – non senza critiche e ironie per l’eccessiva esosità della corte cardinalizia – i suoi soggiorni romani, vanno letti nell’ottica del rafforzamento del prestigio dinastico nell’Urbe. La prodiga liberalità e il raffinato mecenatismo, ostentati da Maurizio in ambito artistico e letterario sia a Roma (dove nel 1626 fondò l’Accademia dei Desiosi) sia a Torino (dove, nella sua ‘Vigna’ – una villa sulla collina torinese, divenuta scenario prediletto di musica, spettacoli e drammi teatrali – diede vita all’Accademia dei Solinghi), furono «mezzi consapevolmente usati per acquistare reputazione, innalzare il proprio prestigio, crearsi una clientela e, con ciò, trovare appoggi e seguito a fini politici» (Mörschel, 2001, p. 170). Nella stessa ottica va visto il fervore di Maurizio per la promozione nell’Urbe dei culti e degli spazi sacri più rappresentativi dell’identità dinastica, come quelli di s. Maurizio (capitano della legione tebea, patrono di Casa Savoia), della beata Margherita e del beato Amedeo (antenati del principe, morti in odore di santità nel XV secolo, per il cui riconoscimento canonico il cardinale interpose a più riprese i suoi uffici in Curia) e della Sindone (la cui devozione veniva alimentata nella chiesa nazionale dei sudditi sabaudi, il S. Sudario dei Piemontesi, di cui il principe fu munifico protettore).
L’impegno di Maurizio per l’affermazione dell’eccellenza sabauda nel ‘teatro del mondo’ dovette tuttavia scontrarsi con le resistenze delle corti italiane rivali (a partire da quelle di Firenze e Venezia), nonché con le innovazioni portate da Urbano VIII in materia di attribuzione dei titoli onorifici ai cardinali. Nel 1630 il papa aveva infatti decretato che tutti i porporati, con la sola eccezione dei rampolli di stirpi regali o imperiali, dovessero ricevere unicamente il titolo di eminenza, senza ulteriori menzioni di rango. Per la corte torinese (che pretendeva per Maurizio l’uso del titolo di ‘altezza’) tale provvedimento risultava assai inviso perché, oltre ad annullare i dispendiosi sforzi compiuti per marcare la distinzione del principe sabaudo all’interno del S. Collegio, di fatto sanciva il mancato riconoscimento nella Curia pontificia della corona regale di Cipro rivendicata dai Savoia.
Le forti tensioni e le lunghe diatribe che ne scaturirono non distolsero Maurizio dal proseguire a manifestare «la magnificenza e lo splendore con cui si trattava» (Cardella, 1793, p. 144) e con cui voleva caratterizzare la sua immagine pubblica a Roma. Lì il cardinale era giunto per il suo ultimo soggiorno nel 1635, manifestando una crescente insofferenza per la Francia che, dopo l’avvento al trono di Vittorio Amedeo (1630) e la stipula del Trattato di Cherasco (1631), appariva ormai condizionare le scelte della corte torinese. Nell’ottobre del 1636, l’improvvisa decisione di rinunciare al protettorato del Regno borbonico per assumere quello dell’Impero (scelta che sarebbe stata enfatizzata da Maurizio attraverso i grandiosi festeggiamenti organizzati a Roma nel febbraio del 1637, in occasione dell’incoronazione imperiale di Ferdinando III) segnò la rottura con il fratello duca. Quando, il 7 ottobre 1637, questi morì in circostanze che fecero dubitare un suo avvelenamento da parte dei francesi, la duchessa, stante la minore età dell’erede al trono, Francesco Giacinto, assunse la reggenza.
Maurizio decise allora di tornare in Piemonte ma Cristina, su suggerimento del cardinale Richelieu, intimò al cognato di non entrare negli Stati sabaudi. Nel gennaio del 1638, informato della sopraggiunta morte di Francesco Giacinto, il cardinale ruppe gli indugi e abbandonò Roma per fare ritorno in Piemonte, dove crescevano i timori per la prematura fine anche dell’altro figlio maschio di Cristina, Carlo Emanuele, a cui spettava la successione. Ciò avrebbe indotto Richelieu – che, attraverso il suo influsso sulla reggente, di fatto stava orientando i destini del ducato verso la Francia – a combinare un matrimonio fra una figlia di Cristina e il delfino: tale unione avrebbe condotto al definitivo assorbimento dello Stato sabaudo nel Regno borbonico. Convinto di poter contrastare questo disegno con l’appoggio politico e militare della Spagna, Maurizio, insieme con il fratello Tommaso e con il sostegno delle sorelle infante, decise di rivendicare il diritto alla reggenza.
Dopo alcuni mesi di stallo, nei quali si era stabilito nel Milanese in attesa di entrare in Piemonte, nella primavera del 1639, con l’arrivo di Tommaso dalle Fiandre, prese avvio l’offensiva dei due fratelli, supportati politicamente dall’imperatore (che aveva dichiarato i principi tutori del duchino) e militarmente dal governatore di Milano, Diego Felipe de Guzmán, marchese di Leganés, il quale penetrò con il suo esercito nel territorio sabaudo. Qui, a seguito della pubblicazione (giugno del 1639) di un editto con cui i principi dichiaravano illegittima la reggenza di Cristina e nullo il giuramento di fedeltà a lei prestato dai sudditi, si aprì una profonda spaccatura fra quanti (cariche dello Stato, figure di corte, nobiltà, città, clero e corpi sociali) continuavano a mostrarsi leali nei confronti della duchessa (i ‘madamisti’) e quanti aderivano invece al partito dei due fratelli (i ‘principisti’). La contrapposizione fra le parti sfociò ben presto in una guerra civile, alla quale le potenze di riferimento delle due fazioni (Francia e Spagna) parteciparono attivamente.
Dopo una prima fase favorevole ai principi, nella quale Maurizio, a capo di un cospicuo contingente armato messogli a disposizione dagli spagnoli, conquistò diverse località del Piemonte meridionale e Nizza, la Francia avviò una trattativa sotterranea per giungere alla pace, all’interno della quale balenò anche l’ipotesi di un matrimonio fra il cardinale e la stessa Cristina o una sua figlia. La notizia di abboccamenti fra i principi e la cognata infastidì la Spagna, che iniziò ad attenuare il suo impegno militare. Ciò, insieme a scelte strategiche sbagliate, portò a un progressivo rafforzamento delle posizioni francesi che, tra l’estate del 1641 e la primavera del 1642, impressero una svolta decisiva alla guerra. Consapevoli della supremazia militare degli avversari e delusi dall’ambiguo sostegno ricevuto dalla Spagna, i principi decisero di riconciliarsi con la cognata. Nel giugno del 1642 le due fazioni trovarono un accordo e il conflitto cessò. Tale accordo fu foraggiato anche dai francesi, che concessero a Maurizio una lauta pensione di 150.000 lire (mentre al fratello e alla cognata ne assegnarono 100.000).
Per cementare la ritrovata armonia fra la duchessa e i cognati, nonché per mantenere sotto l’egida borbonica eventuali rivendicazioni successorie di questi ultimi, si decise il matrimonio fra Maurizio e Ludovica, figlia quattordicenne di Cristina e dunque nipote del cardinale. Le nozze, presentate come «mezzo di riconciliazione e di pace» (Archivio di Stato di Torino, Materie ecclesiastiche per categorie, cat. 1, m. 41, 1-2: O. Moreno, Istoria..., p. 351), implicavano la rinuncia della porpora da parte di Maurizio e, stante la consanguineità dei nubendi, l’ottenimento di una dispensa papale che venne prontamente concessa da Urbano VIII. Il 21 settembre 1642 Maurizio consegnò nelle mani del nunzio apostolico le insegne cardinalizie e pochi giorni dopo, il 29 settembre, a Sospello venne celebrato il matrimonio. La coppia andò a risiedere a Nizza, dove Maurizio, assunto il titolo di principe di Oneglia, esercitò la luogotenenza generale fino al 1652 (analogamente, a Tommaso fu concessa la luogotenenza di Ivrea e Biella). In quegli anni, l’ex cardinale godette, oltreché dei proventi della pensione francese, di quelli di una delle cinque abbazie di cui era stato titolare, avendo lasciato le altre a due fratelli naturali e al nipote Eugenio Maurizio – figlio del fratello Tommaso – al quale aveva cercato anche di procurare la porpora cardinalizia.
Nonostante la riappacificazione, il periodo di permanenza a Nizza non fu immune dal riemergere di tensioni e contrasti con Cristina. Episodio significativo, in tal senso, fu lo sventato complotto ai danni della duchessa ordito nel 1647 da alcuni soggetti che nella guerra civile si erano schierati con il partito ‘principista’: la dura reazione della reggente (i presunti cospiratori, fra cui un monaco fogliante, trovarono la morte) venne intesa da Maurizio come segnale di irrigidimento nei suoi confronti. Tale sensazione sarebbe stata confermata, nel 1648, dalla decisione di Cristina di eliminare dalla formula del giuramento imposto ai governatori ogni residua reminiscenza della clausola che menzionava Maurizio nella linea successoria, nonché dal licenziamento delle truppe di cui, come luogotenente, il principe disponeva a Nizza.
Ritornato in Piemonte nel 1652, «quello che altre volte fu cardinale» (Die Diarien..., a cura di K. Keller - A. Catalano, 2010, IV, p. 265) si stabilì dapprima a Chieri, nel noviziato gesuitico che aveva contribuito a fondare, e poi definitivamente a Torino, nella sua ‘Vigna’. Lì Maurizio, che continuò a patrocinare interventi artistici negli spazi sacri più rappresentativi della pietas sabauda, come la cappella della Sindone e il santuario di Oropa, mostrò un progressivo distacco dalle questioni politiche e dalla vita pubblica.
Profondamente rattristato dalla morte del fratello Tommaso (gennaio del 1656) e della sorella Maria Apollonia (luglio del 1656), con la quale aveva sempre mantenuto uno strettissimo rapporto, Maurizio, che il 14 luglio 1657 aveva redatto il suo testamento, si spense a Torino il 3 ottobre di quello stesso anno.
In ossequio alle sue ultime volontà, il cuore del principe venne riposto nella cappella (da lui fondata) del Buon Soccorso nella chiesa di S. Francesco da Paola, le viscere nella chiesa del Monte dei Cappuccini, mentre il corpo fu tumulato nella cattedrale di S. Giovanni, dove il 24 ottobre vennero celebrate le solenni esequie, con l’orazione Il cilindro composta dal famoso letterato Emanuele Tesauro. Nel 1836, per volontà del re di Sardegna, Carlo Alberto, le spoglie, insieme a quelle della moglie Ludovica (deceduta il 14 maggio 1692), furono traslate nella Sacra di S. Michele della Chiusa.
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