GANDOLFI, Mauro
Nacque a Bologna da Gaetano e da Giovanna Spisani il 18 sett. 1764.
Bambino, fu spesso modello al padre pittore secondo quanto lui stesso ricorda in uno scritto autobiografico inviato nel 1833 ai Vallardi di Milano, che ne editarono poche copie sette anni dopo la morte dell'autore, e noto nella trascrizione fattane, nel 1925, da A. Zanotti. È questa la fonte principale per ricostruire le vicende della sua vita, da puntualizzare attraverso altri suoi scritti (lettere al fratello Protasio e all'amico L. Sedazzi, a P. Palagi, datate tra il 1818 e il 1832, conservate a Bologna nella Biblioteca comunale dell'Archiginnasio, e il testamento, noto dagli esemplari della stessa Biblioteca e dell'Archivio di Stato).
Sin da giovane il G. aveva fatto mostra di un'indole irrequieta che lo condusse, poco più che sedicenne, ad abbandonare patria e famiglia. All'epoca, aveva ricevuto i primi insegnamenti dal priore della chiesa di S. Maria Maddalena D. Rusconi e soprattutto era stato iniziato dal padre alle arti del disegno. Tali competenze gli permisero di mantenersi durante il periodo trascorso tra Strasburgo e Arras, dove varie peripezie lo condussero: partito da Bologna nottetempo e senza meta fu invogliato, una volta giunto a Marsiglia, ad arruolarsi nel reggimento reale corso presso il quale rimase sinché con i guadagni della sua attività di ritrattista, in miniatura e a "lapis piombino con tocchi di carminio e di fuligine" (Brevi cenni…, p. 70) secondo una tecnica di sua invenzione, poté pagarsi il congedo dall'esercito. Dopo cinque anni di dimora in Francia tornò a Bologna e avviò gli studi presso l'Accademia Clementina di pittura, scultura e architettura, ai cui concorsi si affermò regolarmente (Biagi Maino, 1994) e della quale diventò professore di figura dal 1794 al 1797 (Busmanti). Nel contempo fu accolto dal padre presso la sua stanza, e sotto la sua guida eseguì alcune tra le sue imprese più note. Prima per importanza e nel suo racconto la decorazione di una carrozza per il senatore C. Caprara Montecuccoli che volle contrassegnata con la sigla e una data probabilmente da leggere per "1789" (Rosenberg - Sebastiani).
Oltre a ideare gli ornamenti in bronzo e legno dorati, il G. dipinse a olio la carrozza con il Ratto di Elena, il Sacrificio d'Ifigenia, Vestali dinanzi a un tempio e Venere e Nettuno, in cui è evidente il debito contratto con la pittura del padre, certo anche in questa occasione prodigo di consigli, ma anche una vena di sapida e irriverente arguzia, che sarà il tratto suo più caratteristico. Con questa, che forse fu usata da Napoleone Bonaparte per il suo ingresso trionfale in Bologna il 20 giugno 1796, si conservano presso il Musée national du Chateau di Compiègne altre due carrozze commissionategli dai Tanari per le quali il G. apprestò decorazioni e parti dipinte: la prima, con le Avventure di Telemaco, è preceduta da due bozzetti (Biagi Maino, 1990), ed è da ritenere di poco successiva a quella citata; la seconda, capo d'opera al catalogo del G., adorna di sei figure in grisaille dipinte su sfondi alternati blu e neri, dichiara l'attenzione dell'autore per la pittura più raffinata dei precedenti cinquecenteschi della scuola, dal Parmigianino a Niccolò dell'Abate, secondo un orientamento colto e consapevole, che conduce a credere l'opera cronologicamente successiva alle altre per la dichiarata maturità dell'autore.
Durante il periodo di collaborazione con il padre, che durò sino ai suoi trentun anni, il G. aveva eseguito alcuni dipinti dei quali fornisce un sommario elenco, specificandone le tecniche (a olio, a calce, all'inchiostro, a lapis parte già identificati: Busmanti e Biagi Maino, 1990; parte ancora da riconoscere). Tra questi, le due tele del 1791 per S. Domenico di Ferrara laterali alla pala dipinta dal padre Gaetano, che restituiscono, attraverso un linguaggio di concitazione quasi irriverente, due miracoli del santo; in autonomia, le XII stazioni dellaVia Crucis di Amola di Monte San Pietro (1792: chiesa parrocchiale di S. Maria Assunta), gli ovati con Storie di Felsina (Bologna, Collezioni comunali d'arte: Roli, 1977), prova eclatante della consuetudine del G. con la più colta pittura contemporanea, conosciuta attraverso gli studi in Accademia, nei viaggi di istruzione condotti in Veneto, Toscana e Marche (cui seguirà, nel primo lustro degli anni Novanta, un soggiorno romano). Per quest'ultima serie è stata giustamente proposta una datazione alla metà circa degli anni Novanta (Busmanti) in ragione della dipendenza formale di uno dei dipinti, Felsina vinta si arrende, dal Diogene e Alessandro di Gaetano: un capolavoro del 1792, che i due Gandolfi replicarono in collaborazione in un dipinto oggi in Svizzera (Biagi Maino, 1990), dal quale il G. trarrà una magnifica incisione, tra le sue più celebri, prova delle notevolissime capacità nel genere. Ciò che infatti contraddistingue tutto l'operato del G. è la straordinaria perizia tecnica, applicata alla pittura a olio per dipinti sacri o intriganti trompe-l'oeil, bozzetti per decorazioni di soffitti o parietali (Londra, collezione Brinsley Ford) oppure a punta di pennello, con inchiostri e acquarelli, come nella Carità, di collezione privata romana, e nelle sensualissime scene su pergamena, le Tre Grazie (Biagi Maino, 1990) e il Sogno lieto della collezione Apolloni di Roma, immagine più che licenziosa, eseguita nel 1811, e così intitolata dall'autore e ricordata tra le sue opere migliori da R. Baietti (p. 5) allorché diede alle stampe sonetti laudativi di quattro suoi disegni (da Correggio, Guercino, P. Palagi e di sua invenzione) esposti presso la Pontificia Accademia di Bologna (nuova denominazione dell'antica Clementina) ricordando la fama dell'artista in Italia, a Vienna, Parigi, Pietroburgo, Londra, Filadelfia, New York. Tali alti risultati sono preceduti da opere eleganti quali l'Allegoria della Pittura e Architettura (Apolloni), a penna, pennello e inchiostro, bella invenzione che è la medesima di una teletta a olio intitolata alla Repubblica Cispadana (Riccomini), nella quale l'Architettura si appoggia a un fascio giacobino: per dato stilistico, l'opera è partecipe di un gusto e una cultura spiccatamente neoclassici, orientamenti superati nella versione su pergamena.
La teletta è a evidenza frutto della passione politica del G., sconvolto dalla Rivoluzione del 1789 quanto coinvolto dagli eventi del 1796. Partecipò al primo Congresso cispadano del 18 ott. 1796 a Modena voluto da Napoleone Bonaparte ed ebbe l'incarico di progettare la bandiera nazionale (Orioli). Fu lui che organizzò la festa patriottica della riconoscenza nel 1798; per diciotto mesi servì come giudice di pace, ispettore ai Teatri e agli Ospedali del "quarto circondario"; apprestò un primo progetto per il cimitero Monumentale di Bologna (Zanotti). Finalmente, in qualità di pittore fu chiamato a decorare con la Glorificazione della Repubblica Cispadana il soffitto della sala dell'Udienza del palazzo pubblico di Bologna: un'opera dalla quale, in epoca di Restaurazione, avrebbe dovuto cancellare tutti gli emblemi repubblicani per trasformarne il soggetto in un omaggio alla città (Biagi Maino, 1990, p. 297). Nel 1798 per Caprara Montecuccoli, membro del governo della Repubblica Cisalpina, il G. aveva eseguito la prima delle numerose "vignette" per le testate incise; impiantata una calcografia nel palazzo del Governo, avviò quella che per l'Ottocento sarebbe stata la sua precipua e più redditizia attività. Scelse, quindi, di andare a specializzarsi nell'arte di incisore e acquarellista di riproduzione a Parigi nel 1801 (Scarabelli, p. 5), ottenendo risultati tali da essere coinvolto da Robillard-Péronville e P.F. Laurent nell'impresa di riproduzione incisoria: Musée Français, Recueil complet des tableaux… (I, Paris 1803). A Parigi, tratta la breve sosta in Bologna per i funerali del padre alla cui memoria incise un magnifico monumento con il ritratto, risiedette per cinque anni; il ministro Ch.-M. Talleyrand gli affidò il restauro di dipinti acquistati in Italia, e gli propose la direzione del suo museo; il G. ricusò così come fece per analoghi incarichi offertigli da F. Melzi d'Eril, cui aveva dedicato la grande stampa del Diogene (Biagi Maino, 1995, p. 125) e dal ministro F. Marescalchi per l'Accademia di Bologna, nel 1810. Tornato a Bologna, si dedicò all'incisione (S. Cecilia dal padre Gaetano; Madonna col Bambino da G. Reni) e ai suoi svaghi preferiti, la musica, la botanica, la mineralogia (celebre era il suo museo sul tema, con una selezione di pietre preziose) e vi rimase sinché, nel 1816, dopo un breve soggiorno a Milano, scelse di partire per l'America, chiamato dal pittore John Trumbull affinché riproducesse in rame il suo dipinto con la Dichiarazione d'indipendenza (Thieme - Becker): un impegno che non volle poi accettare.
Di quell'avventura il G. ha tramandato memoria in uno scritto curioso e divertente, uno spaccato del rapporto tra la mentalità europea e il nuovo mondo, intitolato Viaggio agli Stati Uniti d'America nell'anno 1816…, che nella trascrizione di G. Giordani è conservato presso le Collezioni d'arte della Cassa di risparmio in Bologna (edizione parziale, in Vaglio di Novi Ligure, giugno-dicembre 1842, e con errori nell'Avvenire d'Italia, 1906-07). Altro frutto della sua inclinazione alle lettere era stato il Trattato dell'incisione edito nella Biblioteca italiana di Milano (1816).
La sua propensione per la vita errabonda lo condusse quindi a Firenze, dove operò per un anno e incise per L. Bardi da A. Allori; fu poi a Milano, dove partecipò alle esposizioni dell'Accademia di Brera e incise per G. Vallardi e i fratelli Bettalli. Finalmente, dopo cinque anni in Lombardia, fu chiamato a Bologna dal cardinale Giuseppe Spina e vi si fermò, dedicandosi alla resa in incisione della S. Cecilia di Raffaello, stampata presso G. Zecchi, il cui rame lasciò in eredità al figlio ultimogenito.
Il G. morì a Bologna, per malattia di petto, il 4 genn. 1834; all'epoca abitava nello stesso palazzo Bentivoglio nel quale il padre aveva avuto la stanza.
Dei suoi molti rami, un elenco incompleto è in margine all'autobiografia (Zanotti, pp. 392 s.), nel testamento citato, altri sono ricordati da Scarabelli, da Gualandi (Bosi), da Vesme, altri probabilmente sono ancora da recuperare al suo catalogo, così come acquarelli e dipinti a olio. Alcuni dei suoi disegni sono stati confusi con quelli della sua migliore allieva, la figlia Clementina, nata nel gennaio 1795 dalla sua prima moglie, la molto amata Laura Maria Zanetti, sposata nel 1792 e scomparsa dopo soli tre anni di matrimonio, che fu madre anche di Raffaello, morto diciannovenne nella guerra napoleonica di Spagna.
Clementina sin dalla gioventù provò a seguire le orme del padre dedicandosi al disegno e misurandosi con le difficoltà del ritratto secondo lo stile di questo. Poche sono le opere a lei riconosciute tra le numerose che certo eseguì, se la sua fama a Bologna fu tale da ottenerle la nomina, presso la Pontificia Accademia di belle arti nel dicembre del 1837, come pittrice all'acquarello. Il garbato ritratto in ovato di Marianna Bolis Montanari (Bologna, collezione privata), a penna acquarellata su carta, attesta un talento discreto, tranquillo, esercitato con diligenza; l'opera chiama a sé un disegno, Tre fanciulle, apparso con assegnazione al padre sul mercato antiquario londinese (Sotheby's, 13 genn. 1989, n. 140). Così è anche per il ritratto del padre che lei trasse dall'Autoritrattocon la chitarra (Biagi Maino, 1993), opera di composta finitezza, e come l'altro esercizio di meticolosità e precisione. Forse dalla probabile collaborazione con il primo marito Giuseppe Grassilli, calcografo, con il quale si sposò ventenne, derivò la puntualità descrittiva che fu propria della sua arte, alimentata da studi intensi, viaggi e un soggiorno di due anni in Francia con il padre all'aprirsi dell'Ottocento, cui fece seguito una sosta a Pistoia per prendere lezioni di musica da G.B. Borghi. Il biografo Zanotti (pp. 79, 389) ricorda le sue abilità, ancora da riconoscere, come miniaturista "specie in uccelletti e in fiori". In seconde nozze, dopo la morte del Grassilli, Clementina si sposò con il frescante Onofrio Zanotti nel 1841 (antenato del divulgatore delle memorie gandolfiane); morì a Bologna, il 6 ag. 1848.
Il terzo figlio del G., Democrito, nacque il 28 ott. 1796 dalla seconda moglie, Caterina Delpino con la quale il G. ebbe un rapporto più che tempestoso come risulta da atti giudiziari che li riguardano. Dati i rapporti tra i genitori, trascorse con la sola madre infanzia e adolescenza, costretto anche a umili lavori per sbarcare il lunario (Zanotti), sinché nel 1816 ottenne dallo zio materno G. Landi i mezzi per frequentare la scuola romana di A. Canova, nonostante l'opposizione paterna (Gualandi). Principale fonte di informazione sulla sua vita è una sorta di autobiografia scritta nel 1860 e data alle stampe a Bologna nel 1862 (Di alcuni fatti politici antecedenti alla guerra di liberazione del 1859…) per impetrare dal Comune di quella città un sussidio all'indigenza. Questo pamphlet risulta alla lettura tristemente patetico, nel racconto di peripezie sofferte, vicende che coinvolsero la moglie, della famiglia dei conti Arrivabene di Mantova, sposata presumibilmente nel 1836 (p. 17), e i tre figli, che nel primo tempo della loro vita rischiarono più volte l'ospizio di mendicità di Milano. A Milano Democrito si era trasferito nel 1822, concluso l'apprendistato presso Canova. Scelse di non aprire bottega in patria in ragione del mancato riconoscimento accademico cui auspicava sin dal 1817. A Milano realizzò 217 ritratti in avorio in due anni: suo è il medaglione che raffigura V. Bellini, custodito presso il Museo teatrale della Scala (Thieme - Becker, p. 150). Secondo il suo racconto fu la passione politica per il "napoleonismo" (p. 10) a condurlo a varie azioni per lo più destinate all'insuccesso e a lui dannose; a questa coerenza di ideali il G. fece risalire ogni accadimento della vita in una memoria avara di informazioni sulla sua attività d'artista. In essa egli cita solo alcune statue marmoree significative alla sue vicende di esule, ignorando le opere in cera e creta che invece gli assegna il contemporaneo Caimi. Per sapere delle sue opere è necessario riferirsi a fonti odeporiche, dalle quali si apprende che, prima di lasciare l'Italia, operò per il camposanto di Brescia tra il 1824 e il 1828 accanto all'architetto R. Vantini, scolpendo oltre a monumenti funebri un gruppo marmoreo per la cappella; per S. Andrea di Mantova eseguì i busti in marmo di A.Canova (1828), dell'archeologo V. Barzoni (1829), dell'architetto P. Pozzo; per Milano, due figure allegoriche per la barriera Venezia. A Bologna ha lasciato il busto del padre nel monumento sepolcrale del cimitero della Certosa, già dedicato al solo Gaetano e nel quale fu inserito, mutandone il severo assetto originario, anche quello commemorativo del figlio suo, al 1835: l'impronta canoviana è evidente alla resa del sembiante dell'effigiato, secondo un canone stilistico prevedibile ma riscattato dalla buona fattura. Dopo aver eseguito, come lui stesso ricorda (p. 13), alcune statue per la nobiltà e la ricca borghesia milanese (Pier Capponi; la Fiducia in Dio; "la madre di Mosè nell'atto di deporlo sul Nilo, più grande del naturale"), si recò a Vienna nel 1837, dove scolpì, due anni dopo, L'incontro di Giacobbe e Rachele (Vienna, Kunsthistorisches Museum). Tornò poi a Milano e nel 1851 si recò a Londra per esporre quattro sculture e il modello, da lui stesso pubblicato, per un gruppo raffigurante "l'Italia che suscita l'aquila napoleoniana", opera di qualità modesta, diligentemente condotta. Una serie di vicende sfortunate lo costrinsero a riparare nel 1853 a Parigi, dove visse in miseria (p. 31). Tornato a Bologna dopo il 1860, finì i suoi giorni nell'ospizio dei Settuagenari, il 18 ag. 1874. Molte delle opere da lui stesso citate attendono di essere riconosciute per comprendere nella giusta misura la sua statura d'artista.
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