ROBESPIERRE, Maximilien-François-Isidore de
Nato ad Arras il 6 maggio 1758, ghigliottinato a Parigi il 28 luglio 1794. Alunno modello nel collegio Louis-le-Grand dove, come poi suo fratello Agostino, ebbe una borsa di studio che gli fu conservata per dodici anni (1769-1781), anche durante i corsi universitarî, si acquistò in patria, coltivando le lettere ed esercitando l'avvocatura, riputazione di uomo sensibile, integro e giusto. Nel 1783 fu ammesso nell'Accademia dei Rosati e nel 1789 venne eletto deputato agli Stati generali. Nulla aveva del grande oratore. Serio e freddo, di una eloquenza professorale, compassata e sentenziosa, stentò dapprima a farsi ascoltare, ma poi la rigidità dei suoi principî e la sincerità delle sue convinzioni democratiche finirono con l'imporsi così nell'assemblea dove, tra il 1789 e il 1791, tenne almeno 170 discorsi, come, e più ancora, nella Société des amis de la constitution, poi club dei giacobini, di cui, il 24 marzo 1790, divenne presidente. "Il ira loin, il croit tout ce qu'il dit": così il Mirabeau. Favorevole, sin dal 1789, al suffragio universale e all'assoluta uguaglianza dei diritti, difese gli ebrei, gli uomini di colore e gli schiavi, mentre raccomandava gli ecclesiastici poveri e combatteva la pena di morte. Il 5 ottobre 1790 fu nominato presidente del tribunale di Versailles e il 15 maggio 1791 accusatore pubblico presso quello di Parigi, ufficio, quest'ultimo, che tenne poi nominalmente sino all'aprile 1792. Fu tra coloro che con maggiore risolutezza vollero esclusi dalla futura assemblea legislativa i deputati della Costituente, quasi occorresse mancare di esperienza politica per assolvere il difficile compito di tradurre in atto la nuova costituzione. Dopo Varennes negò l'inviolabilità del re, ma non aderì subito al movimento repubblicano, e si mise poi contro la propaganda bellicosa dei girondini, perché la guerra avrebbe prodotto, diceva, la dittatura all'interno, e all'estero la solidarietà dell'Europa contro i missionarî armati della rivoluzione. Il 27 luglio 1792, nel club dei giacobini, sostenne che si doveva sospendere il re e raccogliere subito una Convenzione nazionale. Membro della Comune il 10 agosto, rifiutò, il 17, la presidenza del tribunale rivoluzionario. Il 5 settembre Parigi lo scelse tra i suoi rappresentanti alla Convenzione. Accusato di aver diretto i massacri di quei giorni, si difese efficacemente contro i girondini denunziandone i veri o supposti disegni di smembramento della Francia. Volle il pronto giudizio di Luigi XVI e motivò il voto di morte con ragioni di salute pubblica: "Vous n'êtes point des juges, vous n'êtes et ne pouvez être que des hommes d'Etat". Dal 31 maggio al 2 giugno fu l'anima, se non il capo, dell'insurrezione che abbatté il governo e il partito dei girondini, e il 27 luglio entrò finalmente, vittorioso, nel Comitato di salute pubblica.
Il "nostro Aristide" come diceva il Desmoulins, l'"incorruptible" come lo aveva definito il Marat, iniziava la sua dittatura nell'ora più tragica della rivoluzione. Aperte le frontiere all'Europa, trionfanti i realisti nella Vandea e a Tolone, insorta la Corsica, in armi i girondini a Bordeaux, Brest, Nantes e in più altre città e terre dalla Normandia alla Provenza, acuta dappertutto la crisi economica, paurose voci di congiure e di tradimento tenevano Parigi in continuo sussulto. I suoi timori non lo avevano dunque ingannato: di qui il suo immenso prestigio. Non permise che fossero messi in stato di accusa 73 deputati firmatarî di una protesta contro il 2 giugno e, rispettoso delle forme della legalità, volle appoggiarsi alla Convenzione per distruggere i partiti con una politica ugualmente avversa ai moderati e agli esaltati; ma, sebbene fosse incapace, come scrisse Napoleone a Sant'Elena, "de voter ou de causer la mort de quelqu'un par inimitié personnelle ou par désir de s'enrichir", non tentò neppure di arrestare il movimento terrorista. Alla fine del 1793 le rivolte interne erano soffocate nel sangue. Convinto che non potesse sussistere uguaglianza civile e politica in un regime di eccessiva ineguaglianza sociale, vagheggiava una democrazia di piccoli proprietarî e di piccoli artigiani indipendenti (onde le leggi del 26 ottobre 1793 e del 6 gennaio 1794 sulle successioni e sui beni comunali), ed era perciò avverso alle tendenze socialistoidi degli hebertisti i quali, dopo la legge del Maximum (30 settembre 1793), predicavano la nazionalizzazione dei commerci e delle industrie per sopprimere insieme la povertà e la ricchezza. Ma soprattutto lo indignavano i tentativi, sempre più audaci, di scristianizzare la Francia, poiché sotto la scristianizzazione egli scorgeva l'ateismo, e l'ateismo era per lui aristocrazia e immoralità pubblica e privata.
Tra l'8 e il 19 dicembre 1793 fece approvare dall'assemblea la libertà dei culti e dell'insegnamento. Il 24 marzo 1794 gli hebertisti andarono alla ghigliottina. Poi, il 5 aprile, fu la volta dei moderati, tra i quali era, insieme col Danton, il Desmoulins, suo amico d'infanzia! Si dice che a malincuore li sacrificasse alla sinistra, la quale li aveva accusati di scetticismo e di affarismo. Considerava infatti i problemi politici sotto l'aspetto della giustizia assoluta e dell'assoluta moralità. "C'était un enthousiaste", dice ancora Napoleone, "mais il croyait agir selon la justice, et il ne laissa pas un sou à sa mort". Ora, soppressi i partiti, intendeva combattere senza riguardi tutti coloro che della rivoluzione s'erano fatto un lucroso mestiere. Lo seguivano, fedelissimi, il Couthon e il Saint-Just. L'8 giugno 1794 la festa dell'Ente Supremo gli permise di posare a pontefice massimo d'un rinnovamento sociale fondato sulle credenze religiose. Il regno della virtù! Il 10 fu abolita l'inviolabilità dei deputati, e il tribunale rivoluzionario fu autorizzato a giudicare sommariamente senza difesa e senza testimonî. "Les têtes", così il Fouquier-Tinville, "tombaient comme des ardoises" 1376 vittime in 49 giorni. Di questo carnaio la responsabilità non è tutta sua, ma è certo che, dopo la strage dei dantonisti, la Francia fu sotto una specie di dittatura sacerdotale che ricorda la Ginevra di Calvino. Il 26 giugno la vittoria di Fleurus riaprì la via di Bruxelles: su tutti i fronti gli eserciti balzavano all'offensiva, e già il Bonaparte, a Saorgio, tracciava i piani della campagna del 1796. Così, con l'allontanarsi dei grandi pericoli, alla violenta tempesta delle passioni succedeva un diffuso bisogno di vivere e di godere finalmente in pace. S'è detto più volte ch'egli intendeva tornare al più presto nella normalità; e può darsi, ma, comunque, non prima d'aver fatto giustizia di quanti s'erano indebitamente arricchiti a Parigi e nelle provincie. Allora pertanto i Fouché, Fréron, Barras, Tallien, ecc., strumenti feroci e spesso volgari del Terrore, s'unirono a difesa. Verso la fine di giugno la questione di Caterina Théot, una vecchia che si faceva chiamare "madre di Dio", offrì il modo di mettere in ridicolo l'Ente Supremo e il suo pontefice. Il R. poté impedire il processo, ma, non avendo ottenuto la destituzione del Fouquier-Tinville, si appartò per qualche settimana, finché, il 26 luglio, ricomparve all'assemblea a leggervi un meditato discorso pieno di vaghi rimproveri e di oscure minacce. Forse, sostenuto com'era dalla Comune e dal club dei giacobini, si sarebbe imposto ancora una volta, se avesse nominato i nemici che voleva colpire: l'accusa generica provocò invece l'alleanza della Pianura con la Montagna nella celebre tumultuosa seduta del giorno successivo (9 termidoro). Arrestato nelle carceri del Lussemburgo insieme col fratello Agostino, col Saint-Just, col Couthon e col Lebas, fu liberato la sera stessa dalla Comune insorta. Ma non seppe agire con risolutezza. Quando, poco dopo la mezzanotte, le milizie della Convenzione irruppero nell'Hotel de Ville, il Lebas si uccise. Forse egli volle fare altrettanto, e cadde con la mandibola fracassata; ma altri si vantò poi d'averlo colpito. Fu ghigliottinato, con i suoi fedeli, il 10 termidoro. Nei due giorni seguenti la medesima sorte ebbero 70 membri della Comune e 12 giudici del tribunale rivoluzionario. Così cadeva M. R. dopo una dittatura ch'era durata tutto l'anno terribile della grande rivoluzione. Nessuno scritto egli ha lasciato che meglio illumini la sua eccezionale personalità, ma di lui e di Agostino parla affettuosamente nei suoi Mémoires (Parigi 1835) la sorella Carlotta (1760-1834) alla quale il Primo console assegnò poi una pensione, conservatale da Luigi XVIII e da Carlo X.
Bibl.: E. Hamel, Hist. de R., d'après des papiers de famille, ecc., Parigi 1865-1878, voll. 3; id., Thermidor d'après les sources originales, ecc., Parigi 1891; A. Mathiez, Autour de R., Parigi 1925; M. Mazzucchelli, R., Milano 1929; R. Di Lauro, R. nella rivoluzione, Torino 1931.