MAZZOLA, Francesco, detto il Parmigianino
MAZZOLA (Mazzuoli), Francesco, detto il Parmigianino. – Figlio del pittore Filippo, nacque a Parma l’11 genn. 1503. Non è certa l’identità della madre, il cui nome non è citato nell’atto di battesimo del M. e nemmeno in quello dei fratelli e delle sorelle, conservati nei registri del battistero parmense. Tradizionalmente si è supposto che potesse essere tale Maria di ser Guglielmo, nominata come consorte di Filippo in un documento del 1494 (Pezzana, V, p. 247 n. 1), mentre Vaccaro (2002, pp. 11 s., 19 n. 7) ipotizza che si tratti di Donella Abbati.
Lodovico Dolce ricorda il M. nel suo trattato Dialogo della pittura (Venezia 1557) come Francesco Parmigiano, e da tale appellattivo presumibilmente invalse già alla fine del Cinquecento la forma diminutiva Parmigianino.
Morto Filippo di peste nel 1505, come ricordato da Vasari, il M. fu affidato alle solerti cure dei fratelli del padre Michele e Pier Ilario. La famiglia paterna, benestante e con una solida tradizione artistica, viveva allora in forma comunitaria in una grande casa in Borgo dell’Asse nelle immediate vicinanze del monastero di S. Paolo.
Sempre secondo la testimonianza di Vasari, il talento artistico del M. dovette rivelarsi molto precocemente, persuadendo gli zii a «farlo attendere a disegnare sotto la disciplina d’eccellenti maestri, acciò pigliasse buona maniera» (V, p. 219).
È comunque ragionevole supporre un primo discepolato nella bottega di Pier Ilario e Michele, anche loro pittori come il fratello Filippo, mentre non abbiamo alcuna notizia certa di come fosse proseguito il tirocinio.
È da escludere che il M. possa essere stato allievo di Antonio Allegri (il Correggio), secondo la notizia tramandata da Vasari soltanto nella prima edizione delle Vite (1550), ma eliminata in quella del 1568. Al pari di altre biografie, quella del M. fu radicalmente revisionata sulla base di nuove più attendibili informazioni, desunte dal biografo aretino durante la sua visita a Parma direttamente dal cugino acquisito del M., Girolamo Mazzola Bedoli (G. Milanesi, in Vasari, V, p. 219). L’indicazione risulterebbe confermata anche a livello stilistico, in quanto i debiti nei confronti del Correggio emergono solo dalle opere eseguite poco prima della partenza per Roma (estate 1524).
Inoltre, secondo Vasari, il primo lavoro eseguito dal M. fu la pala con il Battesimo di Cristo (Berlino, Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz), commissionata dalla famiglia Garbazza per la chiesa dei frati zoccolanti dell’Annunziata a Parma, quando il M. era appena sedicenne, ovvero nel 1519 (H. Manzke, in Parmigianino e il manierismo…, 2002, pp. 115-123), quando il Correggio si era appena stabilito a Parma.
Nel dipinto sono riscontrabili elementi stilistici che lo legano alla successiva pala della chiesa di S. Monica a Bardi (Parma), non solamente per la tipologia dei volti, ma anche per la struttura compositiva (Freedberg, 1950, pp. 42-44). Nonostante una certa rigidezza nel tratteggiare le anatomie e la convenzionalità nei gesti dei personaggi, il giovane M. mostra di avere precocemente oltrepassato gli schemi della pittura parmense tardoquattrocentesca, attraverso la conoscenza della pittura di Francesco Raibolini detto il Francia, nordica e ferrarese.
Sempre Vasari ricorda che a seguito degli eventi bellici che sconvolsero la città di Parma nel 1521, il M. con Girolamo Bedoli fu convinto dagli zii a rifugiarsi a Viadana dove «vi dipinse due tavole a tempera, una delle quali, dove è S. Francesco che riceve le stimmate e S. Chiara, fu posta nella chiesa de’ Frati Zoccoli, e l’altra nella quale è uno Sposalizio di s. Caterina con molte figure, fu posta in San Pietro», quest’ultima identificata con la pala conservata nella chiesa di S. Monica a Bardi. Ancora una volta il principale referente è rappresentato dal Francia, del quale il M. approfondì lo studio nel modellare morbidamente le eleganti figure, e che costituisce anche il tramite per la conoscenza del classicismo raffaellesco, come nell’elaborazione della cerchia euritmica dei santi ispirati disposti però secondo uno schema raffinatamente asimmetrico (Vaccaro, 2002, pp. 125-128).
Da Vasari viene ricordato anche che il M. fu impegnato nella decorazione di sette cappelle nella chiesa del monastero benedettino di S. Giovanni Evangelista, terminata nel 1519.
La storiografia ha ormai unanimemente limitato l’intervento del M. all’ornamentazione dei sottarchi della seconda e della prima cappella a sinistra della navata, decorati alla base con raffigurazioni di santi organizzati secondo un medesimo schema, in cui un gruppo dinamico viene opposto a una coppia di figure statiche. Il mancato ritrovamento di documenti d’archivio relativi agli affreschi non ha permesso di stabilirne la precisa datazione, da fissarsi comunque al 1522-23. Tuttavia si riconosce una priorità cronologica per l’esecuzione di quelli della seconda cappella, nonostante l’audace illusionismo sperimentato dal M. per il cavallo che accompagna s. Vitale, derivato dagli affreschi del Pordenone (Giovanni Antonio Sacchi) nel duomo di Cremona (Ekserdjian, 1988, pp. 444-446; Gould, 1994, pp. 22-26; Vaccaro, 2002, pp. 131-133). L’altra decorazione infatti si distingue per una maggiore maturità stilistica non solamente nella ricezione dei modelli correggeschi, ma soprattutto per la coerenza nell’organizzare gli elementi al centro del sottarco.
Sono stati inoltre ascritti al M. alcuni putti sui pennacchi e la scena con Caino ed Abele nel sottarco della cupola di S. Giovanni Evangelista, decorata dal Correggio entro il 1523 (Fornari Schianchi, 1990; Gould, 1991; Ekserdjian, 1997, p. 98; Vaccaro, 2002, pp. 134 s.). A prescindere dalla reale consistenza dell’intervento del M., tale episodio documenterebbe l’unica collaborazione tra i due artisti, che non può però essere addotta quale prova di discepolato del M. presso la bottega del Correggio.
Nel novembre del 1522 furono stipulati i contratti che affidarono a Michelangelo Anselmi, Francesco Maria Rondani e al M. la commissione di alcuni affreschi all’interno della cattedrale di Parma. A quest’ultimo in particolare spettava la decorazione della nicchia e dell’arco sopra l’altare della Natività, mentre gli zii Pier Ilario e Michele si impegnavano a sostituire il nipote in caso d’inadempienza. L’incarico, sebbene non sia stato probabilmente portato a termine, risulta comunque di fondamentale importanza, in quanto dimostra che il giovane M., definito ormai magister nell’atto di allogazione, era già considerato nel novero dei pittori più prestigiosi della propria città.
L’impresa decorativa del camerino nella rocca dei Sanvitale a Fontanellato, con le Storie di Diana e Atteone, costituisce l’ideale punto d’arrivo della fase giovanile del Mazzola.
Trascurati lungamente dalla storiografia in quanto non citati da Vasari gli affreschi vennero assegnati al M. a partire dalla fine del Seicento. Nonostante l’assenza totale di documenti, la cronologia è stata fissata su basi stilistiche al 1523-24, ma anche per la probabile connessione con il ritratto del committente del ciclo Galeazzo Sanvitale (Napoli, Museo e Gallerie nazionali di Capodimonte), eseguito dal M. nel 1524, prima prova conosciuta del M. nell’ambito della ritrattistica ufficiale, i cui consueti canoni vennero però rielaborati attraverso alcune sofisticate sperimentazioni, come per esempio l’ambiguità spaziale della posa assunta dal conte costretto a una torsione per assumere una collocazione frontale (Leone de Castris, in I Farnese…, pp. 180 s.). Il ciclo rappresenta indubbiamente la più compiuta meditazione del M. attorno alla lezione del Correggio, dal quale riprese il medesimo schema tipologico per la partizione degli affreschi, utilizzato nello studiolo della badessa del convento di S. Paolo a Parma (1519 circa). Le singole scene si snodano all’interno delle lunette al di sotto della volta simulante un pergolato. Il M. sembra però voler contraddire la funzione di sfondamento prospettico sperimentata dal Correggio mediante tale artificio illusionistico, riproducendo un ambiente serrato con lo spazio quasi cristallizzato sulla superficie dipinta. Questa soluzione profondamente intellettualistica viene maggiormente esasperata dal rifiuto della spontanea naturalezza espressiva che caratterizza la pittura di Allegri, sostituita invece da una notazione del dettaglio che in qualche modo anticipa l’ultima maniera del Mazzola. Particolarmente complessa è la simbologia del ciclo, riflesso di una committenza sofisticata e non ancora del tutto chiarita. Secondo Fagiolo Dell’Arco, gli affreschi rappresenterebbero simbolicamente la coniunctio alchemica del principio maschile con quello femminile, al fine di celebrare il matrimonio di Galeazzo con Paola Gonzaga. In particolare l’ambiente avrebbe svolto la funzione di «stufetta» per le abluzioni rituali prima delle nozze, anche se non risulta provvisto di alcun impianto idrico. Un’ulteriore interpretazione sottolinea l’aspetto funerario della favola mitologica, suggerendo che l’ambiente dovesse costituire uno spazio rituale per celebrare la prematura morte di un neonato figlio dei committenti (Davitt Asmus, 1987). L’interpretazione sembra viziata da una non corretta lettura di alcuni documenti, rendendo più plausibile invece che il ciclo fosse un omaggio a Paola Gonzaga nel suo ruolo di sposa ideale (Arasse, 1996; Vaccaro, 2004).
Strettamente collegato per motivi stilistici all’esecuzione degli affreschi di Fontanellato è il Ritratto di collezionista (Londra, National Gallery).
All’estate del 1524 risale l’arrivo a Roma, quasi naturale approdo per le ambizioni del M., parzialmente ostacolate dal ruolo egemonico del Correggio nell’ambito delle committenze parmensi.
Tale predominio non deve però essere considerato come la motivazione principale che spinse il giovane pittore a lasciare la sua città natale, ma più verosimilmente a spingerlo fu la ricerca di nuovi stimoli derivati dal confronto più diretto con l’antico e la maniera moderna.
Nella quasi totale assenza di documenti per la cronaca di tale soggiorno sono ancora fondamentali le Vite del M. redatte da Vasari, nonostante qualche imprecisione in entrambe le edizioni, insieme con alcuni passi di quelle di Giovan Battista di Jacopo detto Rosso Fiorentino e Giovanni Antonio Lappoli. Si possono fare solo congetture sui necessari tramiti che agevolarono l’accesso apparentemente immediato alla corte papale, altrimenti difficilmente spiegabile. Documentata è l’amicizia tra i Sanvitale e il cardinale Innocenzo Cibo, fratello di Lorenzo, conte di Ferentillo e ufficiale della guardia pontificia, del quale il M. fece il ritratto (Copenaghen, R. Museo delle belle arti) che, nonostante rechi la data 1523, fu probabilmente eseguito appena il M. giunse a Roma. Inoltre nella capitale pontificia egli ritrovò l’orefice Andrea Guidorossi, marito della zia paterna Masina, da poco raggiunto anche dal figlio Pietro, ma forse anche il fratellastro Zaccaria, che si firmò sulle pareti della Domus Aurea in data imprecisata e che è documentato in Umbria nel 1525.
A detta del biografo toscano, il M., giunto a Roma con lo zio Pier Ilario, fu infatti presentato al papa Clemente VII dal datario pontificio Gian Matteo Giberti, con tre dipinti in dono: l’Autoritratto allo specchio (Vienna, Kunsthistorisches Museum), una Sacra Famiglia identificata con quella conservata al Prado di Madrid e un terzo non specificato.
Date le circostanze, le opere sono da considerarsi veri e propri quadri di ammissione, per esibire le proprie qualità tecniche e creative in funzione delle possibili future committenze.
Quello che suscitò la massima ammirazione fu il celebre Autoritratto, da considerarsi uno dei manifesti della maniera, donato poi dal pontefice a Pietro Aretino. Innovativa e spiazzante l’idea di non utilizzare l’usuale specchio piano, bensì convesso come quello dei barbieri, la cui forma fu riprodotta sul supporto pittorico bombato, raffigurandovi, in base alle deformazioni da esso provocate, le proprie fattezze. In tal modo il M. trasforma l’anamorfosi in un gioco raffinato, ampliando le possibilità dell’illusione concesse fino ad allora alla pittura al limite dell’assurdo. Ma l’immagine non si risolve nella semplice esibizione di virtuosismo esecutivo, in quanto simbolicamente interpretabile come sofisticata metafora dello stesso fare pittorico (s. Ferino-Pagden, in Parmigianino e il manierismo (catal.), Parma-Vienna 2003, pp. 173 s.). Inoltre significativamente il M. scelse una modalità di autorappresentazione che sottolineasse non tanto il suo mestiere di pittore se non attraverso la propria capacità performativa, ma piuttosto quello di gentiluomo. L’abbigliamento, l’atteggiamento, le fattezze angeliche, ricordate anche dallo stesso Vasari, si conformano esemplarmente ai canoni etici e comportamentali del palcoscenico cortigiano tramandati da B. Castiglione, quantomai necessari per favorire l’avanzamento professionale e sociale. In tal senso va anche inteso retrospettivamente il ritratto offerto dalla storiografia a lui contemporanea, che per la «maniera aggraziata» della sua pittura e per i suoi comportamenti lo acclamò come reincanazione di Raffaello, modello esemplare dell’artista gentiluomo.
La Sacra Famiglia del Prado evidentemente costituì un esercizio di abilità nell’ambito della pittura a carattere religioso. Personale parafrasi della Madonna del Latte del Correggio (Budapest, Muso di belle arti), la composizione si caratterizza per l’organizzazione delle figure convincentemente disposte in uno spazio poco profondo, secondo un impeccabile concatenarsi ritmico di gesti e movimenti dall’andamento elegantemente sinuoso.
L’altro dipinto di cui Vasari omette il titolo è stato ormai identificato con la Circoncisione di Detroit (Institute of arts), la cui iconografia venne arricchita da alcuni dettagli ispirati da quella della purificazione della Vergine. Da tale soggetto riprese per esempio l’ambientazione notturna, rielaborando le pioneristiche sperimentazioni luministiche del Correggio.
Il papa dovette apprezzare il talento del M. se, sempre come dice Vasari, dopo avergli fatto molti favori, gli richiese di completare la decorazione della sala dei Pontefici, la cui volta era stata da poco conclusa da Giovanni da Udine (Giovanni Ricamatore) con Perino Bonaccorsi (Perin del Vaga). A tale committenza sono stati comunque ricondotti alcuni disegni (Popham, I, p. 9).
Una sfida completamente nuova per il M. furono infatti le grandiose commissioni eseguite da Raffaello e Michelangelo, a soggetto religioso e storico, tematica quest’ultima sulla quale fino ad allora il giovane non si era ancora cimentato. Si conservano infatti suoi disegni (ibid.) che non solo copiano tali affreschi, per esempio quello raffigurante la Scuola di Atene di Raffaello (Windsor, Royal Library), ma anche molteplici nuove ideazioni per lo più a carattere sacro a essi ispirate, che testimoniano la febbrile volontà di sperimentare soluzioni per «istorie» con gran quantità di figure in ambiziose scenografie all’antica. Se nell’equilibrio statico delle prime composizioni il M. si accostò al primo stile delle stanze vaticane di Raffaello, ben presto abbandonò le strutture architettoniche elaborate da quest’ultimo sostituendole con uno spazio luminoso e abili corrispondenze euritmiche dei personaggi, organizzati secondo gruppi di figure animati da gesti espressivi.
Molti di questi studi, al pari dei dipinti, costituiscono opere assai dettagliate e rifinite, spesso fatte tradurre in incisioni al fine di diffondere le proprie creazioni. Alcuni disegni furono trasposti su rame da Giovanni Iacopo Caraglio, l’incisore allora più richiesto nella capitale pontificia. Dalle invenzioni del M. Caraglio realizzò quattro incisioni per l’editore Baviero de’ Carocci: il Martirio di s. Paolo e la condanna di s. Pietro forse per la già ricordata sala dei Pontefici, tratto da un disegno conservato a Londra (British Museum), e lo Sposalizio della Vergine (Chatsworth, Trustees of the Chatsworth Settlement, n. 399), l’Adorazione dei pastori in notturno (1526) e il Diogene (circa 1526-27). Medesimo soggetto fu tradotto in una straordinaria silografia a quattro matrici colorate da Ugo da Carpi, con il quale, a detta di Vasari, il M. avrebbe avviato una collaborazione quando ormai si era trasferito a Bologna dopo il 1527, ma i cui disegni sono da retrodatare probabilmente agli anni romani (A. Gnann, in Parmigianino e il manierismo…, 2002).
Ma lo stesso M. padroneggiava brillantemente la tecnica dell’incisione all’acquaforte, della quale per primo sviluppò le ampie possibilità espressive, rielaborando spesso la matrice incisa con il bulino o la puntasecca, nonché adottando morsure multiple alla ricerca di nuovi effetti tonali. È ormai pienamente concorde la critica nell’assegnargli almeno 15 fogli, alcuni dei quali databili già a partire dal 1524-25 (Id., in Parmigianino e il manierismo…, catal. Casalmaggiore, 2003, pp. 83-91).
Sono stati riferiti al periodo dell’attività romana alcuni dipinti religiosi di piccolo formato, che testimoniano ancora una volta l’attrazione esercitata sul M. in tale genere soprattutto da Raffaello, le cui composizioni vennero sottoposte a raffinate ed eccentriche rielaborazioni, come nello Sposalizio mistico di s. Caterina (Londra, National Gallery) e nella Madonna con Bambino cosiddetta Seilern (Ibid., Courtald Institutes Gallery).
Negli stessi anni dovette eseguire anche la Sacra Famiglia (Napoli, Gallerie nazionali di Capodimonte) e il S. Rocco (Parma, collezione privata), probabilmente frammento di un’opera di maggiori dimensioni, realizzati a tempera su tela secondo una stesura particolarmente rapida e compendiaria derivata con ogni probabilità dal contatto con gli allievi di Raffaello a Roma, quali Perino e Polidoro Caldara da Caravaggio.
Sebbene con alcune perplessità, queste stesse opere sono state anche ricondotte al successivo soggiorno bolognese, connettendole a un passo vasariano che ricorda come il M. avesse eseguito due dipinti secondo tale tecnica, definita «a guazzo», per il felsineo Luca Leuti (Whitfield).
In questi anni non dovette venir meno neanche il suo impegno nell’ambito della ritrattistica, essendogli stata riferita una serie di dipinti che raffigurano soprattutto personaggi di medio rango, dove il M., maggiormente libero dalle costrizioni delle committenze ufficiali, si sofferma soprattutto sull’indagine dei moti psicologici, come nel Ritratto di uomo che sospende la lettura (York, City Art Gallery), databile attorno al 1526, e in quello di un altro anonimo personaggio intento a leggere (Vienna, Kunsthistorisches Museum).
Ma la prova più significativa del credito che il M. si era conquistato nell’ambiente romano fu certamente la committenza della pala d’altare con Madonna e Bambino con s. Giovanni Battista e s. Gerolamo (Londra, National Gallery), voluta da Maria Bufalini da Città di Castello.
Il contratto fu stipulato il 3 genn. 1526 non solamente dal M., ma anche dallo zio Pier Ilario che probabilmente svolgeva la funzione di garante. Nel documento non si fa cenno alla futura collocazione del dipinto, che però nel testamento della nobildonna, datato 15 luglio 1528, si specifica essere destinato alla cappella funebre commissionata dal defunto marito Antonio Caccialupi, avvocato concistoriale, in S. Salvatore in Lauro (Vaccaro, 1993; Corradini). La tavola in realtà non vi fu mai collocata in quanto, prima di essere ultimata, il M. fu costretto alla fuga verso Bologna a causa del sacco di Roma del 1527 e fu quindi depositata temporaneamente da Pier Ilario nel refettorio di S. Maria della Pace, per essere poi inviata a Città di Castello.
La creatività intellettuale del M. nel metabolizzare e rielaborare i modelli conosciuti in questi anni, esibita nell’esecuzione della pala, dimostra inequivocabilmente il suo ruolo di protagonista in quel sofisticato clima artistico sviluppatosi nella Roma clementina, caratterizzato da una comune ossessione nello sfidare e oltrepassare i capolavori del passato (s. Ferino-Pagden, in Parmigianino e il manierismo… (catal.), Parma-Vienna 2003, p. 45). Proprio il principio dell’aemulatio costituisce la chiave interpretativa del dipinto, da leggere innanzitutto come una risposta altamente stilizzata ai precedenti modelli del Correggio, come la Madonna di s. Sebastiano a Dresda, del 1524 circa (Gemäldegalerie), e di Raffaello quali la Madonna di Foligno (1511-12) e la Trasfigurazione, entrambe conservate alla Pinacoteca Vaticana, del 1518-20 (Chastel, p. 153; Shearman, p. 239; Ferino-Pagden, in Parmigianino e il manierismo... (catal.), Parma-Vienna 2003, p. 45).
Il soggetto è verosimilmente interpretabile come una visione di s. Gerolamo, santo prescelto in connessione alla professione legale del defunto, accompagnato dal Battista in riferimento al suocero della committente. Ma nella caratterizzazione dei personaggi emerge soprattutto il debito nei confronti di Michelangelo, del quale il M. era stato capace di cogliere l’aspetto più innovativo costituito dalla potente monumentalità, mediante la quale veniva espressa la tensione addensata nelle figure. Il registro superiore per esempio include precisi riferimenti alla Madonna di Bruges di Buonarroti, forse addirittura nota attraverso un disegno preparatorio del maestro, conosciuto in un suo possibile soggiorno fiorentino durante il viaggio verso Roma (Ekserdjian, 1993). Ma ancora più audace è la maniera del M. di giocare con un nuovo sottile erotismo del corpo impiegato consapevolmente come mezzo di seduzione retorica, spingendo all’estremo la grazia sensuale dei modelli correggeschi e dello stesso Raffaello.
Dal dettagliato resoconto che Vasari dà dell’occupazione dei lanzichenecchi, il M. non sembra avere corso pericoli reali, forse perché sotto la protezione dei filoimperiali Colonna. Ma lo sconcerto e la paura provocati dall’evento spinsero il M. con lo zio Pier Ilario a riprendere la via del ritorno facendo tappa a Bologna.
Il soggiorno non dovette essere continuativo, bensì interrotto da qualche visita a Parma, come suggerisce Vasari. È possibile che il M. evitasse ancora di stabilirsi definitivamente nella città natale a causa della presenza del Correggio, preferendo la seconda città dello Stato pontificio, dove era più agevole ottenere committenze prestigiose. L’esperienza romana lo collocava in assoluta autonomia anche rispetto a quegli artisti allora operanti a Bologna che avevano intrapreso la rituale ricognizione tra antico e moderno nella capitale papale, ma non ancora svincolati da una rievocazione antiquariale fondamentalmente retrospettiva.
Da Vasari si apprende che l’esordio del M. a Bologna è rappresentato dal S. Rocco, dipinto destinato alla chiesa di S. Petronio, dove ancora si conserva, realizzato con ogni probabilità tra la fine del 1527 e i primi mesi dell’anno successivo, per gli stringenti confronti stilistico-sintattici con la Madonna col Bambino della National Gallery di Londra.
Medesimi caratteri di verticalità e monumentalità delle figure si ritrovano anche nella Conversione di s. Paolo (Vienna, Kunsthistorisches Museum), dipinto eseguito per Gian Andrea Bianchi, professore di medicina dell’Università di Bologna (Freedberg, 1950, pp. 76 s.).
A partire da queste opere sembrano acquistare sempre maggiore importanza i modelli antichi studiati a Roma, come per esempio per il cavallo rampante che potrebbe riprendere quelli che accompagnano i Dioscuri del Quirinale (Hirst, 2001).
Entro il 27 ag. 1529 fu compiuta la Madonna con Bambino, s. Margherita, s. Benedetto, s. Gerolamo e un angelo (Bologna, Pinacoteca nazionale), commissionata dalle religiose del monastero benedettino di S. Margherita, forse sotto l’egida del potente cardinale Lorenzo Campeggi (Caprara).
Il dipinto, ceduto l’8 apr. 1530 a Giovanni Maria Giusti come parziale pagamento di una casa contigua al monastero, trovò collocazione nella cappella gentilizia sempre nella medesima chiesa. Profondo l’impatto che la pala ebbe sull’ambiente artistico locale, godendo di un’immutata fortuna critica seconda solo alla S. Cecilia di Raffaello. Il confronto più immediato è la Madonna di s. Gerolamo del Correggio datata al 1528 (Parigi, Louvre), della quale costituisce una rielaborazione virtuosistica, traducendo in tensione emotiva il tema caro al misticismo benedettino del matrimonio mistico, proposto anche da Gerolamo nel commento al Cantico dei cantici, per illustrare il legame consacrato tra le monache e Cristo. Senza precedenti la sostituzione di S. Caterina con S. Margherita in relazione all’intitolazione del monastero.
Attorno al 1529-30 va anche riferita l’esecuzione della Madonna di s. Zaccaria (Firenze, Galleria degli Uffizi), commissionata dal bolognese Bonifacio Gozzadini.
A tale dipinto è stato anche connesso un Ritratto di giovane donna (Vienna, Kunsthistorisches Museum) non finito, nel quale si sono volute riconoscere le fattezze di Costanza Rangoni, sposatasi nel 1509 con Gozzadini. Vasari ricorda infatti che il M. ne avrebbe dipinto l’effigie «al naturale» mentre soggiornava a Bologna, lasciando invece «imperfetto» quello della moglie (s. Ferino-Pagden, in Parmigianino e il manierismo… (catal.), Parma-Vienna 2003, p. 226).
Il soggiorno del pontefice Clemente VII a Bologna (dicembre 1529-aprile 1530), per l’incoronazione dell’imperatore Carlo V, offrì l’occasione al M. di riallacciare i rapporti con alcuni committenti e amici degli anni romani, quali Pietro Aretino, che gli fece eseguire la sensuale Madonna della Rosa (Dresda, Gemäldegalerie), per donarla proprio al pontefice.
All’evento prese parte anche il cardinale Lorenzo Pucci, ritratto dal M. con indosso la veste ufficiale dei penitenzieri (in prestito presso la National Gallery di Londra; Hirst, 1981, p. 82).
Tali conoscenze gli permisero evidentemente di avvicinare Carlo V che, come ricorda Vasari (V, p. 229), ritrasse «in quadro grandissimo, e in quello dipinse la Fama che lo coronava di lauro, ed un fanciullo nella forma di un Ercole piccolino che gli porgeva il mondo quasi dandogliene il dominio». Il biografo aggiunge che lo stesso pittore non volle lasciare in dono il dipinto all’imperatore dopo averglielo mostrato direttamente, in quanto lo considerava ancora da completare. La descrizione fatta da Vasari coincide con un dipinto in collezione privata (New York, Rosenberg & Stiebel Gallery), che parte della storiografia ritiene essere l’originale, ma da considerarsi invece una copia (Vaccaro, 2002, pp. 212 s.; Ekserdjian, 2006, pp. 142-144) soprattutto per la qualità non elevata del volto, la parte certamente più importante in un ritratto. La complessa allegoria araldico-celebrativa costituisce un episodio isolato nella produzione ritrattistica del M., che stava ormai sperimentando morfologie sempre più sintetiche e formalmente essenziali.
Il 20 apr. 1530 il M. fu contattato per eseguire due ancone dedicate a s. Giuseppe e s. Giovanni Battista per il santuario di S. Maria della Steccata a Parma, la cui costruzione si poteva ormai dire compiuta. Dei due dipinti non si ha ulteriore notizia; forse l’incarico non fu accettato perché il M. era ancora impegnato in alcune committenze a Bologna.
A distanza di circa un anno, il 10 maggio 1531, il M. aveva fatto finalmente ritorno a Parma, favorito forse dalla partenza di Allegri, che l’anno precedente si era trasferito a Correggio. A quella data, infatti, il M. firmò il contratto con i fabbricieri della Steccata per affrescarne il catino absidale che sovrastava l’altare maggiore con l’Incoronazione della Vergine, il sottarco antistante, i cornicioni e le fasce interne dell’arco, dei quali però non vengono specificati i soggetti.
Il termine per la conclusione dei lavori era di diciotto mesi, dietro un compenso di 400 scudi d’oro. Contestualmente la Confraternita si impegnò a preparare adeguati ponteggi, fornire al M. i rosoni per i lacunari, nonché i materiali per la doratura. A partire da questo documento il M. viene definito dominus, ciò che presuppone un elevato status sociale pubblicamente riconosciutogli.
L’ambiziosa decorazione nelle intenzioni del M. avrebbe dovuto stabilirne il definitivo primato a Parma nell’ambito dei grandi cicli ad affresco a carattere religioso, ma in realtà venne contrassegnata da forti conflittualità con la committenza, ricostruibili attraverso la ricca documentazione, che comportarono un prolungamento dei lavori fino al 1539, quando il rapporto fu definitivamente interrotto (E. Battisti, in Adorni).
Secondo quanto pattuito il 5 ott. 1531, il M. ricevette dai fabbricieri l’anticipo di 100 scudi. Dal documento si evince che ormai non viveva più nella casa paterna di Borgo dell’Asse, bensì nei pressi della cattedrale. Nel novembre del 1532 risulta in una nuova abitazione nella vicinia S. Alessandro, nel 1533 in quella S. Antonio, mentre l’anno successivo fu in quella S. Cecilia, alloggiando in una casa con corte e giardino che gli costava 30 ducati l’anno (M. Dell’Acqua, in Chiusa, pp. 224 s.). La circostanza sembra alquanto singolare, interpretabile forse come una rottura di rapporti con la famiglia di origine, in considerazione dei forti legami parentali e la consuetudine di vita comunitaria fino ad allora testimoniati. Nei documenti successivi non si ritrovano infatti più menzionati i parenti, eccetto la sorella Ginevra nel testamento.
Quando erano ormai passati i termini del contratto il 6 nov. 1532 i fabbricieri della Steccata corrisposero altri 100 scudi al M., che ottenne inoltre un’ulteriore proroga di 18 mesi per terminare gli affreschi da concludersi entro il 10 maggio 1534.
Dopo l’estate di tale anno la situazione però si inasprì, poiché i confratelli della Steccata ingiunsero al M. di restituire l’acconto ricevuto e ritirarsi dal suo impegno per inadempienza al contratto. Il 27 sett. 1535 fu però stipulato un nuovo accordo grazie alla mediazione dell’architetto Damiano de Pleta e del cavaliere Francesco Baiardi, che si prestarono come fideiussori in caso di ulteriori ritardi. In base a esso si stabilì che il M. fosse esonerato dal restituire la somma già ricevuta, ottenenendo altri 50 scudi. La scadenza fu quindi posticipata al settembre dell’anno successivo per quanto riguarda il sottarco, mentre entro la fine del 1537 avrebbe dovuto essere terminata l’intera decorazione dell’abside.
Nei primi anni del suo soggiorno parmense dovette eseguire il Ritratto virile (supposto Autoritratto) conservato a Firenze (Galleria degli Uffizi) e la cosiddetta Schiava turca (Parma, Galleria nazionale).
Recentemente si è supposto che il dipinto possa ritrarre Giulia Gonzaga sposatasi con Vespasiano Colonna nel 1526 (De Rossi, 2007), arretrando però meno verosimilmente la datazione al periodo romano.
Entro la prima metà del quarto decennio sono inoltre da riferire il Saturno e Fillira (Riverdale-on-Hudson, collezione Stanley Moss), la Minerva (Hampton Court, Royal Collection), e l’Amore che fabbrica l’arco (Vienna, Kunsthistorisches Museum), ricordati nell’inventario di Francesco Baiardi datato al 1561.
Con quest’ultima tavola il M. sembra volesse rivaleggiare con la scultura antica, dalla quale è tratto il modello per l’audace posa di Cupido raffigurato di schiena con lo sguardo ammiccante verso lo spettatore, mentre con una grossa lama intaglia la sua arma. Dall’apertura a compasso delle gambe si scorgono due amorini dalle espressioni contrastanti, che completano la complessa allegoria ispirata a fonti classiche.
Il 23 dic. 1534 Elena Baiardi, vedova di Francesco Tagliaferri, figlia di Andrea e sorella di Francesco, prese accordi con il M. impegnandosi a far ristrutturare la cappella di famiglia nella chiesa S. Maria de’ Servi dall’architetto Damiano de Pleta, affinché vi venisse sistemata la pala, identificata con la celebre Madonna dal collo lungo (Firenze, Galleria degli Uffizi), che aveva precedentemente commissionato al pittore.
Si apprende inoltre che il M. aveva già ricevuto 33 scudi come parte del compenso, da restituire nel caso in cui la tavola non fosse stata consegnata entro il successivo 8 giugno, ponendo come garanzia dell’accordo quella parte della casa paterna in Borgo dell’Asse che era di sua proprietà. Dal documento si deduce evidentemente che era già stato stipulato un contratto verbale o scritto, ma in sua mancanza non si conoscono ulteriori termini della commissione. Particolarmente lunga dovette essere la gestazione, come si deduce dai numerosi disegni preparatori del M., che esplorò differenti possibilità offerte dal tema affidatogli, suggerendo inoltre che gli fosse stata lasciata molta libertà creativa anche a livello iconografico. Alla sua morte l’opera era ancora nello studio incompleta per quanto riguarda il lato destro dello sfondo, trovando collocazione nella cappella solamente nel 1542. Senza alcun dubbio è forse l’opera maggiormente emblematica del M., che formulò nella raffigurazione della Vergine uno dei più meditati esempi figurativi di bellezza femminile nel Cinquecento. La sua particolare caratterizzazione, della quale spicca appunto il collo ostentatamente lungo che la rende nota, fu verosimilmente modellata sui canoni della poesia neopetrarchesca, a loro volta ispirati al Cantico dei cantici per quanto riguarda l’esaltazione dell’avvenenza mariana. Tale poetica era allora ampiamente diffusa non solo nella Roma clementina, ma anche a Parma e annoverava tra i suoi massimi esponenti Andrea Baiardi, padre della committente (Cropper).
Intanto, nel giugno del 1536 il podestà di Parma fu sollecitato da Girolamo Piazza, sindaco e procuratore della Confraternita della Steccata, a richiamare il M. per onorare il suo impegno di terminare l’affresco entro il 27 settembre. La medesima richiesta fu reiterata al pretore di Parma il 9 giugno.
Al 1538 è riferita l’esecuzione della cosiddetta Antea (Napoli, Gallerie nazionali di Capodimonte), dal nome di una celebre cortigiana citata da Aretino e da Benvenuto Cellini, vissuta a Roma nella prima metà del Cinquecento. In realtà per vesti e attributi è da considerarsi il ritratto di una giovane sposa, nelle cui fattezze si è voluto recentemente riconoscere Ottavia Camilla Baiardi, figlia di Leonardo, fratello di Elena e Francesco (Bertini, 2002).
Non si hanno più notizie riguardo al procedere dei lavori alla Steccata fino al 26 febbr. 1538, quando per mezzo di un atto notarile fu concessa un’ulteriore proroga al 26 ag. 1539, ottenuta poiché fu riconosciuto che l’inadempienza era stata causata anche dal ritardo nella fornitura dei materiali da parte della Confraternita.
Proprio in concomitanza con quest’ultima scadenza la situazione dovette precipitare definitivamente, a causa dei fondati timori da parte dei fabbricieri per la probabile inadempienza riguardo i lavori dell’abside, in quanto il M. aveva ormai terminato solamente la decorazione dell’arco. Vennero infatti rifiutati ulteriori anticipi al M. e bloccati i lavori di cui era competente la Fabbrica, come la smaltatura a intonaco fine, presumibilmente finanziata in proprio dall’artista per evitare altri ritardi.
Nel novembre dello stesso anno fu disposto un provvedimento d’incarcerazione nei confronti del M., che fu quindi definitivamente congedato il mese successivo con l’intimazione a non interferire in futuro nei lavori della Steccata. Significativamente il consumarsi della vicenda coincide cronologicamente con la sconfitta della fazione guelfa che dominava allora Parma, della quale erano massimi esponenti proprio le famiglie Baiardi e De Rossi, che protessero in questi anni il Mazzola.
Dall’analisi della documentazione sembra quindi emergere che i ritardi sono innanzitutto spiegabili con la decisione di avviare la decorazione dal sottarco, e non come sarebbe stato più coerente dal catino absidale, che presentava le maggiori problematiche tecniche dal punto di vista architettonico dell’intero insieme, in quanto le raffigurazioni dovevano essere impaginate entro lo spazio particolarmente ristretto del sottoquadro, scandito da 14 lacunari. Tale responsabilità non sembra spettasse al M., ma piuttosto ai fabbricieri che avrebbero inoltre dovuto ottemperare a una serie di adempimenti tecnici, rimasti spesso inevasi probabilmente a causa di problemi di carattere organizzativo.
Verrebbe quindi a essere smentito almeno parzialmente il racconto di Vasari, il quale adduce come motivazioni alla drammatica risoluzione di tale committenza l’ossessiva passione del M. per l’alchimia, che non solo lo avrebbe distolto dal dipingere, ma addirittura ridotto alla miseria e alla follia. Tale tesi ha posto le basi per una tradizione lungamente accolta dalla storiografia che ha insistito sul comportamento lunatico e stravagante del pittore. L’interesse per tale disciplina sembra comunque sostanziato da alcune frequentazioni del M., come per esempio quella con il medico Gian Andrea Bianchi, committente della Conversione di s. Paolo. Ma al di là delle questioni riguardanti gli aspetti sperimentali, vari studiosi hanno tentato di rilevare una simbologia alchemica nei contenuti delle stesse opere del M. proponendo in taluni casi una lettura del suo corpus quasi esclusivamente secondo tale chiave interpretativa, come nel caso di Fagiolo Dell’Arco.
Il discorso alchemico andrebbe piuttosto ricondotto al cambiamento stilistico che si venne a definire durante l’ultimo soggiorno parmense del M., connotandosi come una spinta intellettuale che sottende l’elaborazione di una visione artistica sempre più libera e personale, che forse ebbe difficoltà a incardinarsi nei canonici rapporti di committenza, come potrebbe dimostrare il mancato completamento di determinate opere. In questi anni infatti le sue composizioni si contraddistinguono per una sempre maggiore stilizzazione e finitura, quasi a esplorare fino al parossismo le possibilità della materia pittorica di riprodurre e trasmutare quella naturale, scivolando però sempre più paradossalmente nell’artificio.
Esemplari in tal senso sono gli affreschi del sottarco della Steccata, in cui venne programmaticamente eluso il naturalismo prospettico del Correggio in favore di una resa ossessivamente lenticolare di ciascun elemento decorativo, culminante nelle 6 elegantissime figure monumentali di fanciulle recanti sul capo vasi ricolmi di gigli e in mano lampade, che alluderebbero alle vergini sagge e a quelle stolte della parabola evangelica (Matteo, 25, 1-13).
Ormai stabilitosi a Casalmaggiore, il M. non aveva ancora comunque perso la speranza di riprendere i lavori alla Steccata. Infatti il 4 apr. 1540 scrisse un’accorata lettera a Giulio Romano, chiedendogli di rifiutare l’incarico accettato il mese precedente di eseguire un disegno in cartone per la decorazione del catino absidale del santuario mariano, compiuta successivamente da Michelangelo Anselmi.
A questi mesi va riferita l’esecuzione della pala con la Vergine, s. Stefano e s. Giovanni Battista, destinata alla chiesa di S. Stefano a Casalmaggiore (Dresda, Gemäldegalerie). Rispetto ai precedenti esempi in ambito devozionale, il dipinto rivela una struttura compositiva più semplice, nella disposizione piramidale delle figure, con i due santi collocati nel registro inferiore plasticamente plasmati nella loro statica monumentalità.
Il drammatico Autoritratto conservato a Parma (Galleria nazionale) ci tramanda il malinconico ricordo di un uomo ormai sfibrato, alle soglie della morte. Il suo riconoscimento è stato possibile in quanto le fattezze del pittore coincidono con la descrizione tramandata da Vasari che ricorda come il M. ormai trentasettenne si fosse dipinto «con la barba e chiome lunghe e malconce, quasi un uomo salvatico ed un altro da quello che era stato» (V, p. 233).
Il 21 ag. 1540 il M., ormai malato, dettò il proprio testamento in casa di Fabrizio Chiozzi nel Borgo superiore o di S. Lorenzo, nominando suoi eredi Giuseppe Zanguidi, Giovan Francesco Strabuchi e Giovanni Battista Barbieri, suoi servitores che lo avevano accompagnato nel ritiro a Casalmaggiore, mentre 100 scudi furono destinati alla sorella Ginevra.
Il M. morì a Casalmaggiore il 24 ag. 1540 forse per un avvelenamento da mercurio. Secondo Vasari (V, p. 234), volle essere sepolto nella chiesa dei Serviti nei pressi di Casalmaggiore, senza vesti e con una croce di cipresso sul petto.
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